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Europee, che cosa sta combinando Beppe Grillo

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Tanto tuonò contro la chiacchiera politica in tv che alla fine c’è cascato anche lui. Lui Beppe Grillo, il leader non parlamentare ospite della terza Camera, com’è stato ribattezzato il salotto di Bruno Vespa. Il conto alla rovescia del voto europeo ha imposto al comico più politico d’Italia di giocare l’ultima e più azzardata carta: fare come tutti gli altri politici, che spiegano il programma elettorale nel programma televisivo. Ma dopo aver in questi giorni scomodato Hitler, Stalin, la vivisezione di Dudù (che non è un altro dittatore, ma solo il barboncino di Silvio Berlusconi) e il concetto di lupara bianca a cui Matteo Renzi sarebbe condannato, che altro di più mostruoso potrà ancora escogitare il Beppe tuonante?

LA SFIDA A CHI LE SPARA PIU’ GROSSE

Eppure, bisogna pur constatare che la tracimazione verbale è il rito collettivo di queste elezioni. Senza arrivare ai livelli della macabra ironia di Grillo, Renzi gli ha risposto dandogli del “buffone” (insulto o complimento?). E Berlusconi lo considera un ”aspirante dittatore”. Ma il fiume d’offese, la sfida a chi le spara più grosse finisce per cancellare il perché del voto in arrivo. Gli elettori sembrano chiamati non a scegliere come far diventare l’Italia un po’ più europea, e magari l’Europa un po’ più italiana, ma soltanto sollecitati ad assistere a una crociata di invettive. All’insegna del “dopo di me il diluvio”. Di parole.

LA CREDIBILITA’ DI MERKEL

Alzando il volume, i due maggiori contendenti Renzi e Grillo sperano d’alzare anche la posta elettorale in gioco, naturalmente immaginando quale potrà essere l’effetto su Roma del voto per Strasburgo. Con Berlusconi terzo incomodo e tutte le altre liste che potranno finalmente misurare, come a braccio di ferro, il peso della loro forza. Ma se le europee diventano l’ennesimo voto casalingo, i vari protagonisti sbagliano repertorio. Pensano che basti proclamare che andranno “a battere i pugni sul tavolo della Merkel”, per far tremare il tavolo. E soprattutto per spaventare Frau Angela. Che invece non curandosi troppo dei minacciosi parolai, s’è costruita una solida credibilità in patria.

L’INGREDIENTE MANCANTE

Ecco che cosa manca nella corrida in corso: la credibilità. Quando tutti parlano e promettono, ogni seria questione italiano-europea, dal lavoro all’immigrazione, dal fisco al commercio, dalla sicurezza all’Erasmus viene delegata “agli altri”. E così a decidere per noi sarà chi ha saputo spiegare ai suoi connazionali in tedesco, francese, inglese e altre lingue come sfruttare le opportunità dell’Europa.

Loro sì che rideranno di gusto, il giorno dopo.

Europee, che cosa sta combinando Beppe Grillo -> Formiche.


Europee 2014, i trucchi mediatici di Beppe Grillo

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Commento pubblicato su la Gazzetta di Parma

Dopo aver scomodato Hitler, Stalin, la vivisezione di Dudù (che non è un altro dittatore, ma solo il barboncino di Silvio Berlusconi) e il concetto di lupara bianca a cui Matteo Renzi sarebbe condannato, che altro di più mostruoso potrà ancora escogitare Beppe Grillo per far parlare di sé negli ultimi giorni di campagna elettorale?

Ma adesso che è partito il conto alla rovescia per il voto europeo di domenica prossima, bisogna pur constatare che la tracimazione verbale è un rito collettivo. Senza arrivare ai livelli della macabra comicità di Grillo, Renzi gli ha comunque dato del “buffone” (insulto o complimento?). E il Cavaliere dell’”aspirante dittatore”. In questa guerra di parole-soltanto-parole che già Mina evocava e cantava in anni lontani, persino la falsa alternativa politica tra “Europa sì” ed “Europa no” -come se noi italiani vivessimo sulla luna- è stata travolta. Il fiume d’offese, la sfida a chi le spara più grosse ha finito per cancellare o quasi il perché e il per chi del voto in arrivo. Di nuovo gli elettori sembrano chiamati non a scegliere come far diventare l’Italia un po’ più europea, e magari l’Europa un po’ più italiana, con quali progetti, alleanze e candidati, ma solo sollecitati ad assistere a una crociata di invettive. All’insegna del “dopo di me il diluvio”. Di parole.

Alzando il volume, i due maggiori contendenti Renzi e Grillo sperano d’alzare anche la posta elettorale in gioco, naturalmente immaginando quale potrà essere l’effetto su Roma del voto per Strasburgo. Con Berlusconi che cerca di ritagliarsi il ruolo del terzo incomodo e tutte le altre liste che potranno misurare, come a braccio di ferro, il peso della loro forza. Ma se le elezioni europee stanno diventando l’ennesimo appuntamento politico casalingo con altri mezzi, i vari protagonisti dovrebbero porre attenzione al repertorio. E’ bello che Renzi annunci per l’Italia -lui annuncia sempre- l’ambizione di voler “guidare il cambiamento dell’Europa”. Tuttavia, sarebbe ancor più bello se il presidente del Consiglio indicasse quali atti ha già compiuto in tal senso. E’ un vizio di tutti i leader politici. Essi pensano che basti proclamare che si andrà “a battere i pugni sul tavolo della Merkel”, per far tremare il tavolo. E soprattutto per spaventare Frau Angelina. Che invece anche non prendendo troppo sul serio gli “annunci” dei nostri politici, s’è costruita una solida credibilità in patria.

Ecco, qui scarseggia la credibilità. Persino sulle riforme promesse, se lo stesso Berlusconi, controparte dell’impegno, prevede che torneremo alle urne entro il 2015, come ha detto nell’intervista alla Gazzetta domenica scorsa.

Ma quando tutti parlano e promettono, ogni questione italiano-europea, dal lavoro all’immigrazione, dal fisco al commercio, dalla sicurezza all’Erasmus viene delegata “agli altri”.

E così a decidere non sarà il circo che se la spassa fra Dudù, buffoni, aspiranti dittatori e altre contumelie, ma chi ha saputo spiegare ai suoi connazionali in tedesco, in francese, in inglese e nelle altre lingue come sfruttare le opportunità dell’Europa.

Loro sì che rideranno di gusto, domani.

Europee 2014, i trucchi mediatici di Beppe Grillo -> Formiche.

Renzi costringerà il centrodestra a rifondarsi

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Questo commento è stato pubblicato oggi sulla Gazzetta di Parma

Beppe Grillo voleva un referendum su di sé e invece dalle europee è arrivato un plebiscito per Matteo Renzi, il candidato che non era neanche candidato. Ma quando quattro italiani su dieci premiano il partito del presidente del Consiglio, partito che raccoglie più voti degli altri due inseguitori messi insieme, allora non è più soltanto il “trionfo del Pd” sui Cinque Stelle e Forza Italia, ma il segnale di una svolta potente e radicale che la maggioranza dei cittadini reclama senza, tuttavia, urlare. Reclama che la politica italiana (altro che “Europa”) passi in fretta dalla protesta alla proposta.

S’è dunque rivelato più convincente il messaggio del giovane Renzi col suo cambiamento in cammino rispetto al doppiato in voti movimento di Grillo con la sua indignazione permanente, ma evanescente: rottamazione sì, rivoluzione no. E questa voglia di un’altra Italia allergica ai privilegi di Palazzo e ostile alle inconcludenze della casta, questo desiderio collettivo non già di seppellire la nazione con tutti i filistei, ma di scuoterla e migliorarla a suon di riforme, ha portato gli elettori a dar credito alla novità del ragazzo che viene da vicino, la splendida Firenze, piuttosto che del comico che sbraita da lontano, la malinconica Genova.

Non c’è bisogno, allora, di scomodare precedenti (tipo il consenso alla Dc negli anni d’oro), né di mettere in risalto il disastro subìto da un centro-destra litigioso e diviso per tre, oltre che privo di un leader in campo, per comprendere la profondità e l’ampiezza dello scossone avvenuto, e imprevisto perfino dai sondaggisti, altri “sconfitti” di queste elezioni. Dal terremoto s’è salvato solo la Lega di Matteo Salvini (un altro giovane e battagliero alla Renzi: vuoi vedere che non è un caso?) e sono sopravvissuti a stento a destra l’Ncd, a sinistra la lista Tsipras. Il nuovo bipolarismo Renzi-Grillo ha relegato il resto della compagnia ai margini o col fardello di doversi presto “rifondare”, com’è accaduto alla creatura di Silvio Berlusconi oggi più di ieri destinata a passare di padre in figlia (Marina? Chissà. Almeno dalla sua ora ha il viatico del nome proprio di un’altra Marina, Marine Le Pen, che ha sorpassato tutti in Francia).

Renzi ha fatto il pieno suscitando grandi aspettative tra giovani e anziani, tra elettori progressisti e berlusconiani, tra cittadini già votanti per l’oppositor degli oppositori Beppe Grillo. Guai a vanificare quest’immensa fiducia accordatagli, questa indicazione non anti-politica, alla Grillo, ma quasi a-politica. Un’indicazione che testimonia quanto la gente sia pronta a credere alle molte promesse di cambiamento espresse da Renzi. Dopo il ballo (elettorale) adesso viene il bello: che il vincitore di palazzo Chigi prolunghi coi fatti la luna di miele in corso con così tanti italiani.

Matteo non è più l’abusivo che ha pugnalato Enrico Letta per prenderne il posto, ma l’uomo al quale i cittadini hanno dato carta bianca per ricostruire. Festeggi pure ancora, se vuole. Ma da domani si rimbocchi le maniche della camicia (gli riesce facile) e si metta a lavorare. Anche alzando la voce dell’Italia in Europa: adesso può.

Renzi costringerà il centrodestra a rifondarsi -> Formiche.

Papa Francesco parla italiano

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

“La pace non si può comperare”, ha ammonito nella messa celebrata davanti a quarantamila persone ad Amman. Il giorno dopo, al cospetto delle autorità palestinesi a Betlemme, ha augurato a tutti “un felice esodo verso la pace”. E in Israele, visitando il memoriale dell’Olocausto Yad Vashem, s’è chiesto con dolore: “Adamo dove sei? Dove sei uomo? Dove sei finito?”. La tre giorni di Francesco tra Giordania, Stato palestinese e Israele – secondo viaggio internazionale del Papa dopo quello in Brasile nel luglio scorso-, è stata importante non soltanto per quello che il pontefice ha detto, ma anche per come l’ha detto: parlando sempre in italiano. Sia nei discorsi ufficiali, sia nelle omelie popolari. Istituzioni o gente comune, a loro il “vescovo di Roma” s’è diretto con parole scritte, lette, improvvisate in lingua italiana.

UNA SCELTA RILEVANTE

La scelta di Francesco è tanto più rilevante, nell’era dell’inglese globalizzante, perché nell’unico momento in cui il Papa ha riposto un biglietto personale al Muro del Pianto di Gerusalemme, l’ha fatto porgendo tra le pietre la preghiera del Padre Nostro in spagnolo che da bambino aveva imparato dalla mamma in Argentina. Due “vecchi amici” di Buenos Aires, il rabbino Abraham Skorka, e il musulmano Omar Abboud, lo accompagnavano, e con lui si sono abbracciati.

I PICCOLI GESTI DI BERGOGLIO

Piccoli, grandi gesti, dunque, per sottolineare con semplicità la forza dello stare insieme. Ma così come l’abbraccio fra rappresentanti di tre religioni può testimoniare ai più che la pace nel mondo è un traguardo meno lontano di quanto possa sembrare, anche il ricorso alla dolce lingua italiana, resa ancor più soave dalla cadenza sudamericana di Mario Bergoglio, è un gesto importante.-

UNA LINGUA CHE INCANTA

Il valore universale che Francesco attribuisce alla lingua di Dante anche a Roma e da Roma coi messaggi “urbi et orbi” e durante la Via Crucis con oltre settanta Paesi collegati in mondovisione, è la conferma di quanto la “nostra” lingua possa diventare una “lingua che incanta” per tutti, e perché, non a caso, essa oggi sia fra le cinque e a volte quattro più studiate nelle scuole e nelle università del pianeta. Parlando in italiano, l’argentino Francesco rende omaggio alla tradizione della Chiesa, nella quale la bella lingua è lingua di comunicazione, e spalanca una porta sul futuro. Come Gran Bretagna, Francia, Spagna, Germania e perfino il piccolo Portogallo già fanno per le loro lingue, è ora che l’Italia impari dal Papa come si valorizza e si rende ancor più “familiare” l’universale lingua italiana.

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Bravo Renzi, ma ricostruiamo l’Italia dai banchi di scuola

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Intervento pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

In molti hanno criticato Matteo Renzi per una scelta che andrebbe, invece, apprezzata: il suo giro d’Italia passando di scuola in scuola, e sempre trovando scolari che gli “danno il cinque” dopo avergli cantato l’inno nazionale per accoglierlo.

QUEL CHE CONTA E’ IL SEGNALE

Al di là del compiacimento che il giovane presidente del Consiglio non si cura neanche di nascondere ma, al contrario, volentieri esibisce, quel che conta è il segnale. Per ripartire ed essere degna delle sue grandi ambizioni, l’Italia deve ricostruirsi dalle radici, cioè dai banchi dell’istruzione e formazione dei suoi cittadini di generazione in generazione. La scuola è spesso la prima famiglia, anche se spesso la famiglia non lo sa: e da questa mancanza di consapevolezza tra genitori, figli-allievi e insegnanti-maestri nascono molti dei problemi dai risvolti sociali. Se la comunità non capisce che la scuola è la sua culla, faticherà anche ad aiutare i percorsi di crescita dei suoi studenti diventati, vent’anni dopo tra asilo e Università, cittadini.

LE SCUOLE CADONO A PEZZI

Ma a Renzi pochi hanno finora rimproverato quel che invece dovrebbero mettergli sotto il naso ogni volta che va in compiaciuta visita scolastica, e che il Censis ha fotografato: quella scuola d’Italia che è fucina di conoscenza e maestra di vita, cade a pezzi. Dei 41 mila edifici adibiti allo studio quotidiano negli anni migliori della nostra vita, ben 24 mila presentano impianti che non funzionano a dovere o secondo le norme.

24 MILA BUCHI

Non 24 mila baci, come diceva la canzone, ma 24 mila buchi. La modernità abita soltanto in un quarto delle strutture: quelle costruite dal 1980. Questo stato disastroso rischia non soltanto d’avere effetti sulla sicurezza e sulla salute di chi frequenta la scuola, cioè dell’intero popolo italiano a turno e in età diverse. Un’aula fredda in inverno, una lavagna su un muro che andrebbe ripitturato di corsa, un gabinetto in cui fa senso entrare, un armadio arrugginito influiscono sull’umore, sull’approccio, sull’idea stessa di uno Stato -del tuo Stato!- di chi impara e di chi insegna.

UNA SCUOLA SENZA CREPE

Accettare il disfacimento del luogo che ti farà da casa per vent’anni, disfacimento che mai nessuno accetterebbe dentro i muri di casa propria, significa vanificare il “buon messaggio” che Renzi s’affanna a voler dare. Ma l’uomo è anche presidente del Consiglio, ossia la persona che può e deve sollecitare i ministeri e le autorità preposte a investire e ricostruire il luogo del sapere e dell’amicizia che appartiene a noi tutti. Una scuola senza crepe, per rimettere l’Italia in forma e i suoi cittadini in cammino.

Bravo Renzi, ma ricostruiamo l’Italia dai banchi di scuola -> Formiche.

Renzi e Mose, ecco qual è il vero alto tradimento

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Questo commento è stato pubblicato ieri da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Bisognerà che prima o poi Matteo Renzi si metta d’accordo con le sue parole. Il presidente del Consiglio ha trovato una bella espressione per definire un eletto del popolo che ruba al suo popolo (“fosse per me lo indagherei per alto tradimento”). Ha così dimostrato, il giovane premier, d’essere in sintonia con l’indignazione dei cittadini per i trentacinque arresti di Venezia dal sindaco in giù (e in su).

Ma nelle stesse ore, ecco che il governo-Renzi fa dietrofront, chiedendo il rinvio di un mese alla commissione del Senato che sta partorendo un disegno di legge contro la dilagante corruzione ad ognuno dei più alti livelli. L’esecutivo vuole soprassedere per poter presentare un “testo organico” su questioni importanti, ma complesse. Come il falso in bilancio, la prescrizione e il molto altro che agevola non già la ricerca della verità e la punizione dei colpevoli, ma quel sistema cavilloso e impotente che magari butta in cella il tossico senza un bravo avvocato di difesa e manda agli arresti domiciliari, cioè con pantofole e televisore vista Mondiale alle porte, gli accusati d’aver intascato tangenti pagate, oltretutto!, dalla collettività. Così dice non il tifoso del bar sotto casa, ma la Procura con tre anni di indagini.

Il governo guidato da Renzi, che non per caso ha da poco conquistato la fiducia elettorale di un italiano su quattro, dovrebbe capire che ci sono alcuni segnali non rinviabili, qualunque ne sia la motivazione. Ma con la scusa di “fare meglio” con calma, si finisce troppo spesso per non fare niente, ossia per fare peggio.

Eppure, “non rubare” è uno dei comandamenti che proprio tutti, laici e credenti, hanno imparato generazione dopo generazione a rispettare e a tramandare. Che tale comandamento venga violato tanto spesso, e proprio da coloro che dovrebbero attenervisi per dare l’esempio, costituisce, appunto, “alto tradimento”. Ma a un alto traditore, che già beneficia di un sistema penale e di procedura penale da poltrona casalinga per la prossima Italia-Inghilterra, non si può concedere altro tempo. Anche perché, a fronte di queste colossali accuse di ruberia che transitano sulla Milano-Venezia, dall’Expo al Mose, c’è un popolo di gente perbene, di gente che lavora o che purtroppo non lavora che considera “un tradimento” anche il rinvio dell’onestà.

E allora lui che può, lo faccia. Renzi faccia inserire il reato o l’aggravante di alto tradimento per un politico corrotto. Passi dalle leggere parole alle parole che diventano legge.

Renzi e Mose, ecco qual è il vero alto tradimento -> Formiche.

Ballottaggi, ecco la lezione per Renzi

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Questo commento è stato pubblicato su La Gazzetta di Parma

Il verdetto dei ballottaggi di domenica scorsa non cambia il senso del voto europeo e amministrativo con cui, appena quindici giorni fa, quattro italiani su dieci avevano incoronato Matteo Renzi nuovo sovrano del Palazzo. Ma cancella quell’aureola di invincibilità che anche un presidente del Consiglio tuttora in regia luna di miele coi suoi cittadini farebbe male a credere di possedere: il troppo stroppia pure in politica e gli elettori, più saggi di quanto i loro eletti li considerino, hanno sempre bilanciato il trionfo del vincitore di turno con un successivo premio all’oppositore di turno.

IL CASO LIVORNO

Ne è prova Livorno, la città dove nel 1921 nacque il Partito comunista italiano e dove da sessantotto anni i sindaci che si alternavano conoscevano tutti i colori del rosso. Adesso, invece, toccherà a Filippo Nogarin, un combattivo ingegnere aerospaziale del Movimento Cinque Stelle che ha espugnato quella roccaforte con lo stesso spirito di svolta di quando Giorgio Guazzaloca del Centro-destra prese la bastiglia di Bologna nel 1999.

LA MORALE PER IL PD

Il giovane “re” Renzi è, dunque, avvertito: nessuna fiducia si conquista per sempre. E anche per il Pd c’è una morale della favola. Quello storico e fresco quaranta e oltre per cento dei consensi raccolto dalle sue liste, non è una cambiale in bianco per il Partito, ma un sollecito personale e temporale al suo leader Renzi. Tant’è che il movimento di Grillo, che gli osservatori avevano seppellito in fretta sotto i macigni del Pd alle europee, risorge dalle ceneri proprio nella città-simbolo del Pd. Livorno parla perché Firenze, la città di Renzi, intenda.

IL PARTITO DEL NON VOTO

Non è necessario scomodare la sociologia per cercare di capire che cosa sia cambiato in sole due settimane. A tal punto d’aver rafforzato, contro ogni previsione, anche il partito trasversale dei “non votanti”: mai così alto ai ballottaggi. Non il caldo né la gita fuori porta, ma il disgusto per lo scandalo di Venezia con i suoi trentacinque arresti ha contribuito sia ad allontanare molti italiani dalle urne, sia a far ritornare sui Cinque Stelle una parte di loro. Inoltre, rappresentanti del pur disfatto centro-destra alle europee, hanno avuto rivincite nelle città con le tre “p”: Padova, Perugia e Potenza.

NON SOLO PROCLAMI

C’è stato, quindi, un misto di reazione elettorale per attenuare la prospettiva ingombrante di un Pd-piglia-tutto, e per sollecitare un’azione del governo contro la corruzione dilagante sulla tratta Venezia-Milano, dal Mose all’Expo. Quell’irriverente buonsenso che l’ha fatto diventare rottamatore, dovrebbe ora suggerire a Renzi di non fermarsi ai proclami. “Io li indagherei per alto tradimento”, disse qualche giorno fa riferendosi ai politici corrotti. Bella idea: ma allora la metta in pratica. Non basta teorizzarla, perché lui non è un libero pensatore nella Repubblica di Platone, ma il presidente del Consiglio della Repubblica italiana che firma i disegni di legge e guida la maggioranza in Parlamento. Legiferare contro gli eletti del popolo che rubano il denaro del popolo, ecco che cosa esigono tanti cittadini sconcertati dalle inchieste della magistratura. Oltre al tema dell’economia, che racchiude in sé il lavoro, il fisco e la produzione, rispunta così l’antica “questione morale”. Nessun rinvio politico o legislativo sull’anti-corruzione, allora. La battaglia contro gli “alti traditori” passi dalle parole agli atti.

Ballottaggi, ecco la lezione per Renzi -> Formiche.

L’epopea del Maracanà

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Articolo pubblicato sul Messaggero

Prima di entrare in campo per sfidare, a casa loro, i calciatori più forti del mondo, Obdulio Varela, che era l’alto e corpulento capitano dell’Uruguay, si voltò per l’ultima volta verso i suoi compagni, e disse: “Ragazzi, qui siamo undici contro undici. Quei giapponesi che urlano là fuori, non contano”.

SALVARE L’ONORE DELL’URUGUAY

Per lui, che mai prima di quel giorno, il 16 luglio, aveva lasciato il suo Uruguay, e mai più dopo quel giorno l’avrebbe lasciato, “giapponesi” voleva dire “stranieri”. Ce l’aveva coi duecentomila brasiliani che già festeggiavano sugli spalti la cronaca di una vittoria annunciata. “Brasile campione del mondo!”, strillavano in prima pagina i quotidiani pronti in tipografia. Il discorso ufficiale era stato scritto per celebrare gli invincibili, e solo loro, a fine partita. “Perder por poco”, perdere di misura, era l’unica raccomandazione che i dirigenti uruguaiani facevano ai giocatori della Celeste. Salvare l’onore, ecco, della tradizione calcistica dell’Uruguay, vincitore del Mondiale nel 1930 dopo i due ori olimpici del ’24 e del ‘28.

L’EPOPEA DEL MARACANA’

Perciò, l’epopea del Maracaná, che per il Brasile rappresenterà la più dolorosa disfatta della sua storia (e la storia del Brasile è soprattutto storia di calcio), comincia con quell’atto ribelle e orgoglioso del “negro jefe”, il capo nero, come i “ragazzi” chiamavano Obdulio Varela con affetto e con rispetto, dandogli del Lei. Il capitano veniva dalla povertà. Non aveva finito la scuola dell’obbligo e aveva nove fratelli. Maglietta e ruolo da numero 5 in campo, per guadagnarsi la vita aveva fatto il muratore, il venditore di giornali per strada (“el canillita”, come dicono nella capitale Montevideo), e il pugile. Sul terreno di gioco comandava a gesti e a parole. Era “el negro jefe”, un vero capo dalla pelle scura come molti tra i talenti migliori, a cominciare dal più bravo dei bravi, Edson Arantes Do Nascimento, detto Pelé. Che per la fortuna dell’Uruguay, nel 1950, l’anno della leggenda, aveva nove anni. Eppure, neanche quel bambino ha dimenticato il “Maracanazo”, come fu battezzata in spagnolo la sconfitta dei più forti ad opera dei più agguerriti. La “garra”, la grinta uruguaiana è diventata, da allora, uno stile di gioco, l’identità della squadra che non molla un pallone, pur vestendo la maglia più delicata dell’universo: la Celeste, che a Maracaná, Rio de Janeiro, è il divino colore del cielo.

UNDICI CONTRO UNDICI

Ai padroni di casa, dunque, bastava un pareggio per sollevare la Coppa. E dopo due minuti del secondo tempo stavano addirittura vincendo 1 a 0. Ma Obdulio il capitano prese il pallone sottobraccio e andò a lamentarsi con l’arbitro per un’azione confusa. Non gli interessava l’impossibile annullamento del risultato, ma soltanto prendere tempo per far sbollire gli animi del popolo in estasi. E così il gioco riprese non più sull’onda della baraonda nelle tribune, ma “undici contro undici”. Come voleva il capitano.

ITALIA CONTRO BRASILE

E allora entrano in scena gli altri due miti dell’impresa, e attenzione Azzurri che affronterete l’Inghilterra proprio nel girone con l’Uruguay: forse c’è un insegnamento, per chi sogna la rivincita al Maracaná. Forse quella favola racconta qualcosa a chi può battersi quattro Mondiali contro cinque, Italia contro Brasile, chissà, l’ennesima finale delle finali tra le due Nazionali più titolate nella storia del calcio.

ONORE SALVO, MONDIALE PERSO

La prima lezione è firmata da Juan Alberto Schiaffino, detto Pepe, che al sessantaseiesimo pareggia. Pepe fu uno dei più grandi registi di sempre e indossò sia la maglia Celeste, sia l’Azzurra, giocando inoltre nella Roma e nel Milan. Un uruguaiano-italiano “che spense ogni nostra ambizione”, come dissero i brasiliani battuti e feriti. Tuttavia, col pareggio l’Uruguay salvava l’onore, ma perdeva il Mondiale.

L’ULTIMO SOPRAVVISSUTO

E perciò a dieci minuti dalla fine è il momento di Alcides Ghiggia, detto Chicco, un altro uruguaiano-italiano che giocherà per entrambe le Nazionali, “provando lo stesso orgoglio”. Ghiggia, che oggi ha ottantasette anni ed è l’ultimo sopravvissuto del Maracaná dopo aver giocato anche con la Roma, la rivive con semplicità: “Ho visto un buco nella porta e ho tirato lì”. Piccoletto e indomabile. Era l’ala destra di altri tempi che volava verso l’area avversaria e colpiva implacabile, come fece al Maracaná, ammutolendo lo stadio all’istante.

Il resto dell’epopea continua con Obdulio, il capitano che, nel dopo-partita, per festeggiare passa di bar in bar stando bene attento a non farsi riconoscere, e abbraccia i brasiliani affranti (per lui non erano più “giapponesi” che urlano, ma solo sudamericani che piangono).

UNA TRAGEDIA NAZIONALE

Per i brasiliani la vittoria che non venne, si trasformò in tragedia nazionale. “Quello è l’uomo che ha fatto perdere il Brasile”, dicevano i genitori ai figli, indicandolo col dito puntato, del povero portiere Barbosa, accusato di non aver saputo parare il gol immortale di Ghiggia. Furono cambiati per sempre i colori della maglia nazionale e, per anni, le guide hanno continuato a mostrare con sofferenza ai turisti in visita allo stadio la porta dell’uno-due Schiaffino-Ghiggia.

Ma Ghiggia rimette un po’ di verità nella leggenda: “Prima della finale li avevamo affrontati tre volte nell’ultimo mese e mezzo e anche battuti una volta. Non c’era una grande differenza fra noi. Ma noi li conoscevamo meglio di quanto loro conoscessero noi”.

LA PROFEZIA

Sessantaquattro anni dopo, è di nuovo Mondiale in Brasile. Ghiggia, Schiaffino e capitan Varela, gli artefici del Maracanazo, furono tre stelle del glorioso Peñarol di Montevideo, “la squadra sudamericana del ventesimo secolo” – com’è stata proclamata dalle autorità competenti- con un’antica e meravigliosa storia italiana fin dal nome, che discende da Pinerolo.

Ma questa è un’altra storia. Per ora basti la profezia del Maracaná: i grandi sogni non muoiono all’alba.

L’epopea del Maracanà -> Formiche.


Mose, ecco cosa fare per voltare pagina

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Articolo pubblicato su Il Messaggero

Papa Francesco ha evocato l’Inferno per i corrotti e gli schiavisti. Pochi giorni fa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, invocava l’”alto tradimento” per i politici corrotti. E adesso arriva un’altra bufera dalla Procura di Napoli, che nell’ambito di un’altra inchiesta per ipotesi di corruzione ha indagato il comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi (e arrestato il colonnello Fabio Massimo Mendella con l’accusa di concorso in concussione per induzione).

Ma per misurare lo sdegno degli italiani, bisogna partire dall’onda lunga. L’onda lunga dei trentacinque arresti in Laguna, a Venezia, che ha sommerso perfino quella della “cupola” coi suoi arresti all’Expo di Milano. E che da giorni ha lasciato un segno indelebile: nessuno è più disposto a tollerare che un eletto del popolo rubi il denaro del popolo.

In attesa che la magistratura accerti caso per caso e situazioni differenti tra loro, che si può fare, ora e subito, per voltare pagina? Forse al male estremo della corruzione dilagante si può rispondere con l’estremo rimedio: revocare o sospendere la cittadinanza italiana a quanti risultino condannati in via definitiva dalla magistratura per tangenti. Se rubi il mio denaro, cioè il denaro dello Stato che appartiene a tutti i cittadini, tu non sei più degno d’essere cittadino italiano. A meno che l’imputato restituisca il maltolto alla collettività, indichi i complici e le modalità delle mazzette e si tolga per sempre dalla vita pubblica e politica.

Se il corrotto merita l’Inferno, come dice il Papa, se il corrotto politico dev’essere indagato per “alto tradimento”, come ha detto Renzi, la revoca o sospensione della cittadinanza è quasi un atto dovuto. Significherebbe, oltretutto, che ciascuno di noi non è “italiano” a prescindere e qualunque cosa succeda, ma deve guadagnarsi ogni giorno questo meraviglioso diritto anche col dovere della rettitudine. Un dovere facile, peraltro: l’onestà è patrimonio comune, diffuso e condiviso a tutti i livelli sociali, anche se “esercitato” in silenzio e in solitudine. Nessuno si vanta di essere onesto: semplicemente lo è.

La cittadinanza, dunque, divenga non un valore bollato all’anagrafe, ma un valore civico e civile espresso nella vita. L’importante riforma della Costituzione all’esame del Parlamento può essere l’occasione per questa svolta mentale e culturale: italiani non si nasce soltanto, ma si diventa soprattutto. E così come la cittadinanza potrà essere tolta agli “alti traditori” di Stato si potrà, all’opposto, attribuirla a persone come Lokman e Saliou, bambini di nove anni d’origine rispettivamente marocchina e senegalese, che a Bergamo, come riportato del Corriere della Sera, hanno salvato un bimbo di cinque anni, Hatim, colpito da una scarica elettrica in un parco. La scuola pubblica ha insegnato loro che fare in una eventuale e simile disgrazia, e loro l’hanno fatto.

Come nell’essere probi, anche per aggiornare l’italianità della Costituzione basta poco. Basta prevedere che la cittadinanza italiana possa essere revocata, sospesa o, al contrario, attribuita secondo le modalità disposte da una legge successiva. Magari riconoscendo al presidente della Repubblica questa facoltà (che in parte ha già), allargandola, però, sulla base delle sentenze della magistratura nei casi di delittuosa corruzione, e dei comportamenti esemplari di tanta e bella gente che non ce l’ha ancora.
Ridefinire, allora, l’onere e l’onore d’essere italiani: persone perbene che non rubano, e che all’occorrenza sanno fare la cosa giusta.

Mose, ecco cosa fare per voltare pagina -> Formiche.

Orsoni e un sacchetto di verdure. Due pesi e due misure per la giustizia

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Commento pubblicato ieri da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

C’è una giovane di ventisei anni, tale Maria N., che sta subendo un processo a Verona. Al momento di mettere sulla bilancia del supermercato il sacchetto con la verdura che aveva scelto, la ragazza l’avrebbe sollevato per ridurre il peso dello stesso e poter così risparmiare sull’acquisto. Ma la giovane è stata vista e fermata da un vigilante e, poiché la legge è uguale per tutti, è finita sul banco degli imputati. Dovrà rispondere di un guadagno che l’accusa considera illecito per la somma complessiva di ben 7,58 euro. Che Dio l’assista.

Poi non lontano da Verona, per la precisione a Venezia, c’è un sindaco di 67 anni, l’avvocato Giorgio Orsoni, indagato per finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta colossale sul Mose: quell’onda lunga in Laguna che finora ha portato all’arresto di trentacinque persone. Lui, l’Orsoni, non era in carcere, ma ai domiciliari. Ha appena concordato un patteggiamento a quattro mesi e 15 mila euro di sanzione ed è di nuovo tornato uomo libero. Di più: è di nuovo tornato a fare il sindaco della sua Venezia, pur avendo concordato il patteggiamento e pur rimanendo indagato nell’inchiesta dello scandalo. “Non mi dimetto”, ha risposto a chi gli chiedeva lumi al riguardo. La legge è uguale per tutti e il prefetto, che nell’attesa degli eventi l’aveva sospeso dall’incarico, ora gliel’ha ridato: Orsoni è primo cittadino a tutti gli effetti. Non ha bisogno che Dio l’assista.

Naturalmente, le due vicende sono molto diverse tra loro. E solo la giustizia, che farà il suo corso, accerterà torti e ragioni delle parti in causa. Ma il punto non è la presunzione di innocenza per tutti, né l’obbligo degli investigatori di cercare la verità, qualunque essa sia. Qui non occorre attendere il verdetto di alcun tribunale per constatare quanto lo Stato riesca a essere inflessibile nel pretendere il pagamento di 7,58 euro e al contempo generoso nel consentire a un indagato che ha concordato di patteggiare quattro mesi e 15 mila euro di sanzione di proseguire la sua tranquilla navigazione istituzionale.

Se c’era bisogno di un esempio dei “due pesi e due misure”, temiamo di averlo appena trovato fra chi rischia la condanna per un po’ di verdura al supermercato e chi, avendo concordato il patteggiamento, e indagato, non rischia di perdere neanche l’alta poltrona che occupa.

Alla viglia del decreto-legge del governo per dare poteri al magistrato Raffaele Cantone contro gli scandali, Matteo Renzi intervenga con la severità che il buonsenso degli italiani, allibiti, esige.

 

Orsoni e un sacchetto di verdure. Due pesi e due misure per la giustizia -> Formiche.

Pino Colizzi, ecco a voi “Shakespeare l’italiano”

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona

L’uomo che ha dato la voce a Michael Douglas, Jack Nicholson e Robert De Niro -ne “Il padrino-Parte II”-, ha deciso di far parlare anche William Shakespeare. Succede nell’anno celebrativo dei quattrocentocinquant’anni della nascita a Stratford-upon-Avon in aprile (pare il 23; certo è solo il suo giorno di battesimo, il 26), del più grande drammaturgo, poeta e scrittore in lingua inglese. Succede che l’attore e doppiatore romano Pino Colizzi stia facendo riscoprire la sua traduzione in italiano -ma in endecasillabi rimati- dei 154 Sonetti del William più noto dell’universo. Lo fa con incontri nei licei (l’ultimo al Visconti della capitale) e nelle biblioteche per i giovani.

A fargli conoscere da vicino, anni fa, i Sonetti di quello che ormai considera un caro amico (“Shakespeare potrei addirittura sognarlo”, rivela), fu il linguista e tra i massimi critici dell’opera letteraria, Agostino Lombardo, scomparso nel 2005. Gli disse di non fermarsi al ritratto che di solito gli accademici fanno dei classici, per cui tutti crediamo di sapere tutto dell’autore di Amleto, Romeo e Giulietta, Re Lear, dell’”essere o non essere” e via semplificando. Invece, scavando nella lingua inglese come soltanto un buon conoscitore della lingua italiana può fare, arriva la sorpresa: se gli inglesi non s’offendono -ma certo che no!-, ecco a voi “Shakespeare l’italiano”.

“Agostino Lombardo mi fece notare l’italianità dei Sonetti”, racconta Colizzi. “Anche le tragedie lui le aveva sentite scritte in italiano con lingua inglese, e questo aveva reso le sue traduzioni “nostre” in modo naturale”. Forse solo un direttore di doppiaggio, cresciuto in quell’arte di dizione che va sempre alla ricerca anche del suono e del ritmo che nella nostra bella lingua deve imprimersi dalla versione originale, poteva cogliere il tesoro nascosto della traduzione a rima. Per esempio l’inizio del Sonetto 50, così reso in italiano nella pubblicazione di Colizzi (Società editrice Dante Alighieri): “How heavy do I journey on the way, When what I seek, my weary travel’s end, doth teach that ease and that repose to say: “Thus far the miles are measur’d from thy friend”. “Com’è pesante il viaggio in questa via, perché l’arrivo sarà triste adesso; diran, riposo, quiete e nostalgia: “tra te e il tuo amico, quante miglia hai messo”.

Spiega l’autore: “Non è vero che la lingua italiana non possa sintetizzare i sentimenti così come li sintetizza l’inglese. Anzi, talvolta li rende persino meglio. La mia missione tra gli studenti e i giovani è far capire che la poesia che loro hanno letto, è come la melodia di una canzone”.

Ma che differenza c’è tra il “doppiare” Michael Douglas e i Sonetti di Shakespeare? Colizzi sorride, ma risponde serio al gioco: “La differenza è nell’ispirazione. Non esiste un ottimo doppiatore, se non c’è un bravo suggeritore, ossia l’attore che si fa doppiare. Nel caso di Shakespeare chissà quali suggerimenti avrei potuto avere…Ma io so, come lui sapeva, che questi Sonetti avranno una loro vita in futuro. Non li ha scritti né su commissione né tutti insieme, ma durante la stesura delle commedie. Li ha scritti così come gli venivano. E’ da pazzi pensare, oggi, di metterli in ordine. Lui fu un artista geniale e sconvolgente con tutti i suoi corto-circuiti emotivi. L’ordine-disordine nel quale i brani si succedono, segue bene la nascita e lo sviluppo di un amore: dal corteggiamento alla conquista”.

Dunque, per Shakespeare vale la libertà, che fa a sua volta rima, o quasi, con italianità: “Si pensi alle straordinarie ambientazioni italiane di uno scrittore che, a differenza di Goethe, non so nemmeno se sia mai stato in Italia. Oppure si pensi a Romeo e Giulietta, ragazzi che vivono come tanti nostri figli. Anche a prescindere da quanto conoscesse Ovidio, Lucrezio e soprattutto Petrarca, Shakespeare ha colto alla perfezione il modo di sentire italiano”.

Dell’”amico” lontano a cui si dedica da anni, così conclude: “Chi traduce poesia, deve trovare il coraggio di far rinascere, anche a discapito della precisione, l’emozione che ha ispirato quel suo fratello di altro idioma, di altra cultura e persino di altra epoca. Guai a perdere il suono italiano che si gode in inglese”.

Qui Italia 2014, qui Inghilterra 1564: parla la voce di William.

Pino Colizzi, ecco a voi “Shakespeare l’italiano” -> Formiche.

Due delitti e un mostro non immaginato

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Articolo pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

L’uno è un muratore di Bergamo, sposato e padre di tre figli. Il classico e irreprensibile vicino della porta accanto. L’altro è addirittura il marito e padre delle sue tre vittime a Motta Visconti, un piccolo e finora tranquillo comune in provincia di Milano. Vengono i brividi, dunque, nell’apprendere dagli investigatori chi sarebbero i presunti responsabili di due delitti che solo un mostro brutto, sporco e soprattutto cattivo, come il nostro immaginario collettivo l’aveva già scolpito, avrebbe potuto compiere. Il primo delitto risale a quattro anni fa e scosse gli animi di tanti italiani.

Si parla di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa a fine novembre dopo un allenamento in palestra e trovata uccisa in un campo, tre mesi dopo, a pochi chilometri da casa. “Le forze dell’ordine e la magistratura hanno individuato l’assassino”, ha annunciato il ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Chi è, allora, quel bruto ricercato a lungo in Italia e all’estero e ora scoperto grazie al Dna? E’ un incensurato di quarantaquattro anni che risiedeva nella Bergamasca. Non importa il suo nome: è semplicemente un cittadino qualunque.

L’altro delitto è di queste ore e, se possibile, ancora più sconvolgente. Madre e due figli (maschietto di cinque anni e bimba di appena venti mesi!) accoltellati in casa. Trovati senza vita e senza un perché. Finché ha raccontato tutto agli inquirenti il marito e padre, cioè il presunto omicida. “Un fiume in piena”, hanno detto i magistrati. Un fiume due volte travolgente, perché anche quest’uomo dalla crudeltà oltre ogni limite non aveva episodi di violenza alle spalle. Né in famiglia, né tra conoscenti. Un altro cittadino qualunque.

Adesso toccherà ai processi ricostruire i fatti e le personalità degli accusati, ascoltare testimonianze, sentire gli esperti riflettere a voce alta su quel confine invisibile tra ferocia e follia, tra lucidità e malattia, tra raptus e violenza consapevole. Tutto umano, troppo umano per essere definito con la precisione che i codici, le perizie e il dovere della giustizia pur impongono. E guai se così non fosse.
Ma nessun ergastolo, nessuna ammissione di colpa, nessun Dna potrà risolvere il dubbio atroce che questi e altri delitti sempre più pongono alla società “civile”: com’è possibile che il mostro immaginato, pronto ad ammazzare una ragazzina innocente come la sua età, pronto a sterminare una famiglia felice del suo stare insieme, non venga “da fuori”, da altrove, dall’inferno, ma sia un uomo accanto a noi?

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Lo Stato prenda esempio dalle sante scomuniche di Papa Francesco

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Con la consueta e disarmante chiarezza che lo caratterizza, da buon “parroco della Chiesa”, Francesco ha lanciato un anatema contro la ‘ndrangheta che mai, per tono e per contenuto, era suonato dalla voce di un Papa in terra di Calabria. Neppure l’altrettanto amato Karol Wojtyla, che nel 1993 rivolgendosi pubblicamente ai mafiosi, ad Agrigento, li intimò a convertirsi, pronunciando con durezza il monito “una volta verrà il giudizio di Dio!”, era arrivato a precisare con tanta determinazione le conseguenze della svolta “senza se e senza ma” contro la criminalità organizzata indicata dai pontefici. E praticata da tanti sacerdoti che negli anni hanno pagato col martirio il prezzo della loro contrapposizione sul territorio alle cosche dell’anti-Stato.

Nel solco, dunque, di Giovanni Paolo II, adesso ci pensa Francesco a bollare la ‘ndrangheta come “adorazione del male e disprezzo del bene comune”, buttando fuori dalla Chiesa tutti i suoi spesso “credenti” adepti (“essi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”). E il Papa precisa che gli uomini di fede devono combattere e contribuire ad allontanare questo male criminale e diabolico. “Mai più atrocità sui bambini, mai più vittime della ‘ndrangheta”, ha ammonito durante una visita e una messa alla presenza di oltre duecentomila cittadini. Ma tutto era cominciato dalla parte degli “ultimi”, con Francesco che incontra i detenuti del carcere di Castrovillari, e spende parole di conforto per tutti e per ciascuno.

Da tempo la Chiesa e i suoi preti di frontiera si sono schierati in modo inequivocabile. Ma il fatto che un Papa così popolare e ascoltato come l’attuale abbia escluso i membri delle cosche dalla comunità dei fedeli per la gravità dei loro comportamenti (questo significa la canonica scomunica), può incoraggiare molti cittadini delle zone più a rischio a rompere il tabù della paura o la rassegnazione all’indifferenza. E può spingere lo Stato, in particolare il legislatore, ad adottare misure ancor più “scomunicanti” contro la delinquenza organizzata. Per esempio, oltre alla confisca dei beni e alla severità e all’esecutività della pena, la revoca o sospensione della cittadinanza italiana per i condannati con sentenza definitiva. Come insegna Francesco, tra il bene e il male non c’è una terza via. Se chi attenta alla convivenza e uccide perfino i bambini è scomunicato per la Chiesa, può essere anche privato dalla cittadinanza per lo Stato. Ma intanto quel che conta è la rigorosa e vigorosa scossa del Papa venuto “quasi dalla fine del mondo”.

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Renzi, Prandelli e l’obbligo di fare gol

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Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

E così la riforma costituzionale, pur in ritardo rispetto ai tempi proclamati, comincia a vestire il suo già consumato abito regionalista. Grazie al sarto e scaltro Roberto Calderoli, stilista della Lega che riuscì nell’impresa di confessare e sconfessare il suo capolavoro della legge elettorale (“è una porcata”, disse il Maestro della propria e vecchia creazione), il nuovo provvedimento che doveva ridare allo Stato il senso dello Stato, ha rispolverato l’autonomismo. E non a beneficio dei sindaci e dell’Italia delle cento città, che è la tradizione più antica e unitaria delle istituzioni, ma di futuri consiglieri regionali e senatoriali riproposti in barba ai pessimi risultati prodotti dai loro ventidue Consigli. Per non dire del ripristino dell’immunità parlamentare, l’ultimo, sconcertante e anonimo rattoppo della confezione infilato non si capisce da chi (ma forse si può immaginarlo).

E poi quante altre cose in arrivo per il governo. La guida del semestre europeo da luglio. Il dialogo aperto a sorpresa con l’irriducibile Beppe Grillo. Le misure sul lavoro e sul fisco. Vasto programma, dunque.
Eppure, la fortuna dell’esecutivo-Renzi non è legata solo ai risultati economici e legislativi di queste ore, ma anche all’esito di una partita più insidiosa: il dentro o fuori di domani al Mondiale con l’Uruguay.

Da quel giovane e sveglio presidente del Consiglio che è, Matteo Renzi farebbe bene a incrociare le dita sia per la formazione dei testi all’esame del Parlamento, sia per la formazione che Cesare Prandelli schiererà all’esame di calcio a Natal, l’arena brasiliana del verdetto che non perdona. Per la navigazione del governo, Balotelli e Pirlo potrebbero rivelarsi “alleati” più preziosi di Berlusconi e Alfano. Il certo Buffon carta più importante dell’incerto Grillo. Le possibili novità di De Sciglio e di Verratti più opportune dei rammendi federalisti di Calderoli.

Ma è giusto che la fiducia della nazione sia associata così intimamente alle speranze della Nazionale? E’ inevitabile. Accadde ai tempi di Sandro Pertini, l’esultante presidente della Repubblica nella finale vittoriosa del 1982 a Madrid. Accadde a Berlino nel 2006 con i festanti Giorgio Napolitano e Romano Prodi per il sogno coronato. Accadrà anche stavolta, perché Prandelli è il Renzi del nostro calcio. O Renzi il Prandelli del governo: vale pure il contrario.

Tra quei due c’è amicizia fondata sulla Fiorentina, la squadra del tifoso Matteo che Prandelli allenò. C’è sintonia nel voler investire sui giovani, nel lavorare (e “annunciare”) con sommo piacere. Pur in ambiti differenti e non mescolabili, Prandelli e Renzi sono figli di un’Italia che vuole cambiare. Di un tempo in cui non basta più partecipare: bisogna saper vincere. L’epoca politica e calcistica del “vorrei, ma non posso” è finita. Oggi l’onere e l’onore di guidare l’Italia a Roma come a Natal, città già impazzita per gli Azzurri, non contemplano prove d’appello. Niente è più serio di un gioco che incolla l’intera nazione davanti agli undici della Nazionale in tv. Renzi e Prandelli, Politica e Pallone, che destino diverso, ma comune: più che le riforme, l’obbligo di fare gol.

Renzi, Prandelli e l’obbligo di fare gol -> Formiche.

Italia-Uruguay vista (molto) da vicino

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Articolo pubblicato sul Messaggero di oggi

Che brutta partita, che arbitraggio scandaloso. Non si vince così, non si perde così. Eppure, quando gli Azzurri e la Celeste, di bianco vestita, entrano in campo, e dall’elmo di Scipio si passa alla “¡libertad o con gloria morir!”, e i calciatori delle due Nazionali si danno la mano prima della battaglia, è come se io vedessi, guardando quelle ventidue magliette, tutti i colori del cielo quando splende. Da una parte la tenera magia della terra uruguaiana in cui sono nato e cresciuto (da madre uruguaya). Dall’altra il dolce richiamo alla patria italiana in cui mi sono formato, dove vivo da quarantun anni e che so già che un giorno anch’io dovrò “passare” -come un pallone d’amore ricevuto da mio padre che era di Mantova-, ai miei figli che sono italiani.

Per chi tifare, allora? Posso io scegliere, nell’ora della verità, fra il tiki taka del mate amaro e il catenaccio del caffè ristretto? Tra la grinta uruguaiana (la celebre “garra” di chi non molla mai, e a Natal s’è visto) e il talento italiano di chi inventa sempre, ma a Natal non s’è visto? Posso io preferire l’epopea di Maracanà alle leggende di Madrid e di Berlino? Oppure il tango di Gardel al mito di Garibaldi, eroe tricolore dei due mondi che non per caso combatté, vittorioso, anche per l’indipendenza dell’Uruguay, dov’è ancora oggi onorato? “Maestro” è il soprannome che hanno affibbiato sia a Tabárez, sia a Pirlo. Tutto torna fra Italia e Uruguay, nazioni gemelle che l’Oceano non ha separato, ma unito anche nel calcio. Altrimenti, perché tredici calciatori della Nazionale uruguaya giocano o hanno giocato in serie A, dopo che le glorie Schiaffino e Ghiggia -anni Cinquanta- inaugurano la serie delle due patrie un solo cuore, indossando sia la Celeste, sia la maglia azzurra?

Per chi conta in spagnolo e canta in italiano, per chi vede in Papa Francesco la sintesi controcorrente delle divine e birichine identità latino-americana e italiana mescolate insieme e moltiplicate per milioni di sogni, l’unico rimpianto è che Italia-Uruguay non sia stata all’altezza della sua grandezza. Peggio, una partita al di sotto di qualunque aspettativa sportiva. Sarebbe stata una bellissima finale del torneo: quinta stella per l’Italia (tiè, Brasile) oppure terza stella per l’Uruguay (ritiè, Argentina). In quel caso sarei stato vincitore senza vinti, chiunque avesse vinto. Perché a volte la felicità è l’incrocio un po’ anarchico fra l’anima e il cuore, fra le radici e la capacità di innaffiarle anche con un’altra cultura, lingua e bellezza, fra quel che si è per sempre (“¡vamos Uruguay!”) e quel che si diventa vivendo, viaggiando, incontrando: “Fratelli d’Italia”. Ma ieri non ero felice, alla fine. Quel cartellino rosso ha rovinato non solo la gioia per la Celeste che forse ritroverà il Brasile, sessantacinque anni dopo, ma anche la verità sugli Azzurri: se l’Uruguay non ha giocato bene, l’Italia ha giocato male. E chi ama quelle due patrie, ama anche vincere bene, e non vincere facile.

Italia-Uruguay vista (molto) da vicino -> Formiche.


Renzi in Europa non faccia il Prandelli

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

E ora che la festa è finita prima ancora di cominciare, bisognerà “tingere d’azzurro” qualche altra cosa, e forse un po’ più importante. Nessuno intende sottovalutare la forza del calcio, che è lo sport più popolare del pianeta. Né la grandezza dell’Italia che ieri ha toccato il minimo: quattro Mondiali alle spalle subito dopo il Brasile. Eppure esce a testa bassa e a gambe immobili proprio in Brasile e già dopo il primo girone infernale. Diavolo di un cartellino rosso (e gratuito) a Claudio Marchisio, e così sia. Arrivederci in Russia nel 2018.

Ma da Cesare Prandelli, l’allenatore della brutta Nazionale crollata a Natal con l’Uruguay, allenatore che a differenza del solito andazzo almeno ha prontamente annunciato le dimissioni assumendo su di sé ogni responsabilità del fallimento, adesso bisogna tornare a Matteo Renzi, il commissario tecnico che la politica e gli elettori hanno scelto per scuotere la nazione dalla guida del semestre europeo. Che non arriverà fra quattro anni, come il prossimo Mondiale, ma fra quattro giorni e poche ore. E lì non possiamo fallire né dare la colpa all’arbitro. Bruxelles non sarà Natal né, tantomeno, Maracanà, ma le nostre vite e persino la nostra capacità d’essere campioni nel mondo delle sfide non solo di calcio da lì dipendono. Dunque, piedi di nuovo ben piantati per terra per i sei mesi a venire, dopo che quelli degli undici sul campo di calcio hanno ballato per una sola settimana.

Qualche buon segnale non manca. Sulla questione decisiva di poter investire nel lavoro e nella produzione, anziché concentrarsi soltanto sul pur necessario controllo delle spese e dei suoi “stupidi” parametri, Frau Angela Merkel, capitano dell’Europa rispettato da tutti i giocatori, ha fatto aperture interessanti. Eppur si muove quest’Unione di nazioni disunite.

Renzi, allora, ha una bella sfida davanti a sé: far sì che l’Italia ispiri, accompagni e spinga questa novità politica ed economica. La sola che possa tagliare l’erba, e non dello stadio, agli euroscettici di tutte le lingue e i colori, pronti a dire che l’Europa sia fonte non del nostro possibile benessere, ma causa della crisi infinita. Dalla retorica con cui l’Italia ha spesso rivendicato il suo europeismo senza però praticarlo né influenzarlo, al pragmatismo di un rinnovamento necessario per poter credere in un destino comune. Rottamare qualcosa anche dalle parti di Bruxelles? Renzi ci provi, ma senza troppi annunci. Capitan Merkel ama giocare coi fatti e solo con quelli.

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La leggenda di Alcides Ghiggia, l’unico sopravvissuto del Maracanà

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

L’ultimo sopravvissuto di Maracanà abitava in un modesto monolocale a pianoterra di un quartiere periferico a un’ora di macchina da Montevideo, capitale dell’Uruguay. Volevo incontrarlo non solo per farmi raccontare del gol immortale con cui, a dieci minuti dalla fine della partita, mandò la sua -e nostra- terra in Paradiso e il Brasile nella disperazione in quel lontano 1950. Da italiano-uruguaiano quale sono, desideravo conoscere dall’uruguaiano-italiano Alcides Ghiggia, detto Chicco, anche l’altra metà della leggenda: la sua discesa in campo da questa parte dell’Oceano, quando il campione del mondo giocò nella Roma e nel Milan. E vestì, proprio lui, gloria Celeste, anche i colori Azzurri della nostra Nazionale. E poi il nome, l’unico “Alcide” moderno di cui io abbia sentito parlare dopo De Gasperi. E poi il Peñarol, la mitica squadra uruguaya che plasmò quell’ala destra di altri tempi (proclamata dalla Fifa “la squadra del secolo”) e che è anche la mia squadra del cuore. La sua storia discende da Pinerolo. E così il cerchio italiano e uruguayo delle radici e dei sogni si chiude all’insegna del pallone, il gioco dell’infanzia che rincorriamo per tutta la vita.

Mi dissi che non occorreva un appuntamento per incontrare a Las Piedras uno come Ghiggia in un Paese come il mio Uruguay, dove i rapporti fra la gente ricordano l’Italia gentile e innocente degli anni Cinquanta. Sempre lì si torna, al 1950, all’epopea del 16 luglio nello stadio Maracanà, la finale di Rio de Janeiro. L’uomo che sconvolse generazioni di brasiliani costringendoli, da allora, a cambiare perfino i colori della loro maglia, indossava un maglioncino grigio, jeans e scarpe da ginnastica bianche e azzurre. Piccoletto, con i capelli esageratamente scuri per l’età e i denti un po’ in fuori (e qualcuno d’oro). Un accenno di baffi ordinati e a forma di trapezio ne marcavano l’espressione da siciliano, più che da oriundo torinese, quale era per ramo paterno di nonni. “Maracanà è stato il mio passaporto per l’Italia”, mi disse. E per spiegarmi com’era volato fin dentro l’area avversaria e battuto il povero portiere Barbosa (da quel giorno additato per strada come il colpevole della disfatta carioca dai suoi compatrioti, e allontanato dal calcio), Ghiggia mimò la scena e ripeté il gesto conclusivo col piede. Essendo persona nota e trovandoci su un marciapiede abbastanza affollato, mancava solo l’urlo dei presenti per quel gol rifatto a memoria, cinquant’anni dopo, e accompagnato da parole semplici: “Ho visto un buco nella rete e ho tirato lì”.

Il mito non si dava arie né pretese -come di lui si continua a scrivere sui giornali- un solo euro, anzi, un solo peso per concedermi l’intervista di cui avrei raccontato in uno dei miei libri. L’uomo non se la passava certo bene, come avrebbe meritato un campione dei due mondi: prendeva l’equivalente di duecento euro al mese e guidava una Peugeot 205 rossa e scalcagnata. Ma aveva quel senso di fiera umiltà che è tipico di chi ha fatto una vita di sacrifici. Ci tenne a dirmi d’aver provato “lo stesso orgoglio” nell’indossare la Celeste e nel giocare d’azzurro tra gli Azzurri. “Sono stato anche nove anni nella Roma, dove, arrivato ventiquattrenne, i miei compagni mi chiamavano scherzosamente il neonato. Ho giocato un anno nel Milan, vincendo il campionato. Conservo un ricordo bellissimo della mia esperienza italiana”. “In Italia”, aggiunse, “ho imparato qual è il segreto per campare bene: non farsi cattivo sangue e mangiare spaghetti”.

Con me si vantò d’aver fumato tutta la vita “e di continuare a farlo”. Mi parlò del padre Alfonso, nato in Argentina. Dei cinque nipoti e di Arcadio -altro nome da romanzo alla Gabriel García Márquez-, “uno dei miei due figli che fa il biologo e che ha lavorato dalle parti di Ostia, vicino a Roma”.

Oggi Ghiggia ha ottantasette anni. Da bambino voleva fare l’aviatore. Indomabile nel cielo come in terra, quel giorno di splendore al Maracanà.

La leggenda di Alcides Ghiggia, l’unico sopravvissuto del Maracanà -> Formiche.

Immigrazione, il commissario di Juncker non basta

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

L’ultimo grido di dolore è il più amaro: altri trenta morti per asfissia e annegamento fra i seicento disperati dei soliti viaggi di andata senza ritorno. Anche stavolta è la storia di sempre: partenza dall’Africa e arrivo sulle coste italiane se si è fortunati, e il mare è stato clemente, e il barcone non è una barchetta. Un miraggio nel Mediterraneo per chi fugge dalla propria terra e lascia la sua famiglia per fame, violenze o sofferenze insopportabili, sognando la sicura porta d’ingresso e forse di pace, finalmente, in Europa.

Quell’Europa che da oggi il nostro governo guiderà per sei mesi. E si può sperare che nel discorso d’insediamento Matteo Renzi non mancherà di denunciare, il più duramente possibile, il silenzio continentale che continua a prevalere per le ondate di immigrazione coi suoi lutti spesso senza nome e soprattutto senza un perché: niente è più ingiusto di morire per vivere. Niente è più triste che soltanto l’Italia si faccia carico di questa tragedia infinita e irrisolvibile, perché la generosità, per quanto immensa come un “Mare Nostrum”, non potrà mai confortare la solitudine di decine e centinaia di migliaia di donne e uomini in fuga.

Adesso Jean Claude Juncker, il presidente designato della Commissione europea, pare si sia convinto di ciò che l’Italia esigeva, inascoltata, da tempo: un commissario dell’Unione che possa dedicarsi al fenomeno dei migranti sia con cognizione di causa (a fronte di tanta demagogia e incompetenza imperanti, come quella che anche ieri s’è trasformata nella solita polemica fra Lega e governo), sia con i mezzi anche economici necessari per poter intervenire a nome dell’intera Unione. L’Italia è solo la prima e troppo spesso ultima frontiera per chi invoca soccorso e umanità. Ma da sola e per quante operazioni di salvataggio possa realizzare, non può consolare il dolore del mondo. L’aveva capito subito Francesco, il Papa che scelse Lampedusa come primo segnale di un pontificato dalla parte degli ultimi, denunciando la “globalizzazione dell’indifferenza”. Ma l’Europa non rispose.

Ora non basterà certo il ventilato commissario di Bruxelles per affrontare un dramma che rispecchia il cambiamento di un’epoca, e che non finirà né domani né dopodomani. Chi è disperato non si arrende per il mare mosso, né per gli abusi d’ogni genere subìti dai trafficanti criminali durante le traversate della morte. Per questo bisogna intervenire. Per assistere chi arriva, per punire i trafficanti, per prevenire con aiuti e investimenti le partenze. Si chiama “politica”.

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Vi presento Fabiola Gianotti, da Topolino al bosone di Higgs

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Intervista pubblicata su Il Messaggero

La donna che fu proclamata tra le cinque “persone dell’anno” (con una copertina speciale) dalla rivista americana “Time”, la scienziata inserita fra le cento signore più potenti del mondo per “Forbes”, da bambina leggeva Topolino e il Corriere dei Piccoli. “Giocavo molto con le bambole e preparavo dolci disgustosi che costringevo mio fratello a mangiare. E giocavo anche a calcio con i miei amici maschi”.

Parla Fabiola Gianotti, che al Cern di Ginevra ha coordinato il lavoro sulla rivoluzionaria scoperta del bosone di Higgs. E che Peter Higgs ha voluto al suo fianco quand’è andato a ritirare, l’anno scorso, il premio Nobel per quell’intuizione di un tempo alla fine consacrata. “Fu una cerimonia elegante, semplice e festosa”, ricorda la Gianotti in quest’intervista in cui racconta e si racconta. E indica quale sarà la prossima fermata: inoltrarsi nel mistero della materia oscura.

Nata a Roma e cinquantunenne, di professione fisico (“suona meglio che “fisica”, concorda), vive sperimentando e viaggiando. “Dell’Italia mi mancano la cultura, l’arte, la gente, i paesaggi, i colori, gli odori. Il nostro è un Paese unico”, sottolinea. S’è sempre divertita a risolvere i problemi di matematica. “Per me era come un gioco”, dice. Ma volentieri traduceva anche le versioni di greco e di latino, “che danno rigore, logica e precisione”. Secchiona insopportabile o preziosa, allora? Passava i compiti o copiava, la studentessa Gianotti? “Mi piaceva studiare, ma non ero gelosa di quello che imparavo”, risponde. “Ho copiato e passato i compiti. Una volta avevo una versione di greco pronta a passare a una compagna, quando la professoressa, che passeggiava fra i banchi, s’è fermata accanto al mio. Ho infilato la versione dentro il vocabolario con fare maldestro. Lei ha guardato il vocabolario con aria pensosa e poi ha tirato avanti. Per me è stato un momento di panico totale. La professoressa aveva capito tutto, anche se non disse niente. Il suo silenzio è stato più eloquente di mille parole. Ho imparato la lezione”.

Dal Liceo classico a Milano, dove si diploma anche in pianoforte al Conservatorio, alla laurea in fisica sub-nucleare. La famiglia quanto ha inciso in questa curiosa mescolanza tra fisica e musica? “Da papà geologo ho appreso l’amore per la natura, e con il suo lavoro condivido il rigore dell’approccio scientifico”, distingue. “Dalla mamma letterata ho ereditato la passione per la musica e per il bello. E bellezza e armonia sono aspetti che ritroviamo anche nelle leggi della fisica. Ma a tavola non parlavamo certo del bosone di Higgs. La fisica era lontana. Da bambina sognavo di fare la ballerina classica alla Scala o al Bolshoi. Ero riservata e timida, ma non introversa. Poi da ragazzina mi piacevano le canzoni di Baglioni. Anche se ascoltavo soprattutto musica classica, perché studiavo pianoforte. Ancora oggi ascolto musica molto spesso. In questo momento soprattutto Schubert”.

Eppure, la musica che ha reso celebre il valore della ricerca da lei coordinata al Cern è stata la partitura della “particella di Dio”, com’è stato soprannominato il bosone di Higgs. “E’ una particella molto speciale, che permette alle altre particelle elementari (tra le quali gli elettroni e i quark che sono i costituenti fondamentali dell’atomo) di avere massa”, spiega la signora della scienza. “Se gli elettroni e i quark non avessero massa, gli atomi non starebbero assieme, e quindi la materia di cui noi tutti siamo fatti non esisterebbe. Il bosone di Higgs è, perciò, una particella chiave per capire la struttura dell’universo. Le è stata data la caccia per cinquant’anni!”.

Ma questa scoperta che cosa può cambiare nella vita pratica dei comuni mortali? “La particella di Higgs ha già cambiato la nostra vita”, risponde. “Infatti per scoprirla abbiamo dovuto costruire strumenti senza precedenti, quali l’acceleratore Lhc (Large hadron collider) e gli esperimenti Atlas e Cms. E abbiamo dovuto sviluppare tecnologie di punta in numerosi campi, dai magneti superconduttori alle tecniche di vuoto, alla strumentazione di precisione, all’elettronica, alle reti di calcolo. Queste tecnologie sono state trasferite alla società, ad esempio al campo medico, a vantaggio della vita di tutti i giorni”.

Fabiola Gianotti prefigura il prossimo traguardo del Cern, dove lavorano più di diecimila scienziati provenienti da sessanta Paesi: “L’Lhc è stato costruito per affrontare questioni aperte in fisica fondamentale. La scoperta del bosone di Higgs ci ha permesso di capire l’origine delle masse delle particelle elementari. Esistono altri misteri che ci accompagnano da decenni, fra cui: di che cosa è fatta la materia oscura che costituisce circa il 23 per cento dell’universo? Perché l’universo è fatto predominantemente di materia e pochissima antimateria? Esistono altre forze oltre alle quattro che conosciamo (gravitazionale, elettromagnetica, debole e forte)? Le risposte a queste domande richiedono nuova fisica -nuovi fenomeni, nuove particelle-, che speriamo di poter osservare almeno in parte, negli anni a venire a Lhc”.

Ma la patria di Marconi e Fermi, dei Ragazzi di Panisperna e Segrè, di Rubbia e Giacconi quanto conta, oggi, a Ginevra? “L’Italia è uno dei Paesi fondatori del Cern, in particolare grazie alla visione di Edoardo Amaldi”, ricorda. “Due fisici italiani, Carlo Rubbia e Luciano Maiani, hanno ricoperto il ruolo di direttore generale. Oggi l’Istituto nazionale di fisica nucleare (L’Infn, l’ente di ricerca in questo campo) e le Università associate forniscono il più grosso contingente nazionale di ricercatori, circa 1.500, e contributi di altissimo livello e grande visibilità internazionale in termini di idee e tecnologie di punta, in partneriato molto stretto con l’industria del nostro Paese. Delle donne, che in media rappresentano il venti per cento, l’Italia ha storicamente il contingente più ricco e in crescita fra le giovani generazioni. Credo che i Ragazzi di via Panisperna sarebbero fieri di quello che i loro figli e nipoti hanno saputo fare per continuare la tradizione di eccellenza della Scuola italiana”.

La scienziata italiana nel mondo propone una priorità per il mondo della scienza (e della politica) in Italia: “Maggiori investimenti nella ricerca di base e lotta al precariato per dare un futuro ai giovani”.
Il fisico e la solitudine, quanto pesa a Ginevra? “Non penso che i fisici siano particolarmente soli, certamente non i fisici dei grandi esperimenti al Cern, che lavorano con migliaia di colleghi di tutti i continenti”, risponde. “Questo non vuol dire che i momenti di solitudine non siano necessari. Per me sono essenziali per riflettere”.

Vi presento Fabiola Gianotti, da Topolino al bosone di Higgs -> Formiche.

La leggenda dei Ragazzi del ’99

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Articolo pubblicato su Il Messaggero

Anche la prima guerra mondiale ha avuto la sua meglio gioventù. La cronaca militare dell’epoca così la descriveva nell’ordine del giorno firmato dal generale Armando Diaz il 18 novembre 1917: “I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico”. E aggiungeva, immortalandoli per sempre: “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”.

La letteratura ha raccontato, con la penna di Gabriele D’Annunzio, il passaggio tremendo di un’intera generazione di adolescenti dalla famiglia alla trincea: “La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi. Eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!”. Quei grandi fanciulli erano nati l’ultimo anno dell’Ottocento: da qui il loro nome e cognome, “I ragazzi del ‘99”. Fu l’ultima leva di 265 mila italiani chiamati a “resistere, resistere, resistere!” sul fiume Piave, come esortava Vittorio Emanuele Orlando, l’allora presidente del Consiglio. Giovani di diciott’anni, a volte non compiuti, che hanno contribuito in modo decisivo “alla Vittoria”, come si diceva, e all’indipendenza dell’Italia il 4 novembre 1918. Spesso a costo della vita, perché decine di migliaia di loro non sono più tornati dal fronte del Nord-est. Un dato certo non esiste, in un conflitto che per l’Italia ha significato seicentomila morti e quasi un milione di feriti, di cui la metà mutilati.

Cent’anni dopo, in tutta Europa si preparano importanti celebrazioni della Grande Guerra iniziata il 28 luglio 1914. Lo farà anche il nostro Paese, spinto da un comitato di studiosi guidato dall’ex presidente del Senato (e alpino) Franco Marini. “Commemorazioni prima guerra mondiale 2014/2018”, dice il logo tricolore con un soldato disegnato di profilo. L’Italia, si sa, entra in guerra il 24 maggio 1915, come si rievoca nel celebre “il Piave mormorò: non passa lo straniero!”. Anche questa canzone si deve a un giovane fante, Luigi Saccaro. A lui si rivolse, visitando i soldati impegnati sul Piave, il re Vittorio Emanuele III. Gli chiese come vedesse la temibile avanzata dell’esercito austro-ungarico, dopo la già vissuta e drammatica disfatta di Caporetto a fine ottobre del 1917. Il soldato semplice, Saccaro Luigi, rispose: “Fin qui arriverà il nemico. Ma da qui non si passa”. Parole che sono diventate melodia nell’inno tuttora suonato nelle cerimonie di Stato.

Ma la vera “leggenda del Piave” fu quella dei ragazzi “abili e arruolati” di gran corsa, perché bisognava rinforzare l’ultima linea prima che fosse troppo tardi. “Oggi dall’Adige all’Adriatico le nostre armate passano all’attacco contro gli italiani”, comunicavano, trionfanti, i bollettini del comando austro-ungarico. E i soldati tedeschi sfidavano gli italiani con sicumera: “Andare Bassano bere caffè”. Proprio in quelle stesse e tragiche ore sul muro di una casetta semi-distrutta e abbandonata una mano ignota scriveva la struggente “risposta” italiana: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”. Era l’ora della verità per tutti. E l’arrivo di questi giovani, molti imberbi, che cantavano con lo spirito innocente e temerario tipico dell’età e dell’epoca di sacrifici, fu un’iniezione di coraggio e di tenerezza per i veterani, che erano stanchi e demoralizzati da tre anni di conflitto sanguinoso, dal freddo, dalle malattie, dalla fame. E poi la nostalgia di casa.

In tutto sono state ventisette le classi chiamate alle armi, la più vecchia quella degli uomini nati nel 1874. Perciò questi diciottenni che giungevano con passo svelto ma poco marziale, impetuosi come il fiume che dovevano difendere e generosi come la vita che molti di loro avrebbero dato per l’Italia, furono subito percepiti alla stregua di fratelli minori. Fratelli che infondevano speranza nel momento più buio. Giovani del popolo -figli di contadini, artigiani, falegnami- che bisognava paternamente proteggere, perché anche il loro addestramento era stato rapido: sul Monte Grappa e sul Piave non c’era più tempo. “Sul ponte di Bassano noi ci darem la mano”, dice un’altra malinconica canzone, evocando un amore lontano.

I ragazzi del ’99 furono, dunque, protagonisti di tre battaglie decisive, che hanno capovolto le sorti del conflitto: tutte e tre battaglie vinte. Le soprannominate “battaglia d’arresto” a cavallo fra il Trentino e il Veneto il 10 novembre 1917. Quella del “solstizio” a metà giugno del 1918. E la “battaglia di Vittorio Veneto” fra il 24 ottobre e il 3 novembre 1918. Come il generale Diaz aveva scritto quando li vide in azione, “io voglio che l’esercito sappia che i nostri giovani fratelli della classe 1899 hanno mostrato d’essere degni del retaggio di gloria che su essi discende”. A ben undici di questi soldati-ragazzini, originari di Roma, Milano, Messina, Ariano Irpino di Avellino, Riva di Trento, Firenze, Cagli di Pesaro, Longobucco di Cosenza, Novara e Lucca, cioè figli dell’Italia da quel momento libera e unita dal Brennero a Lampedusa, furono assegnate medaglie d’oro al valore.

Inaugurato dalle autorità giusto quarant’anni fa, nel 1974, a Bassano del Grappa sorge il monumento nazionale che ricorda quella generazione che nasceva, mentre l’Ottocento finiva. Fu voluto dall’associazione dei figli ormai anziani, e nipoti adulti, e loro figli di questa nostra pagina di storia che oggi si può raccontare con spirito nuovo. L’Europa che celebra, un secolo dopo, è l’Europa che da quasi settant’anni ha cancellato l’idea stessa della guerra che ha sconvolto per secoli la vita e le vicende delle sue popolazioni. Oggi l’Europa può ricordare finalmente in pace e riconciliata con se stessa: il futuro della memoria. Non ci sono più “nemici” alla frontiera, ma solo tanti sogni da condividere.

L’ultimo “ragazzo del ‘99” è scomparso a 107 anni nel 2007. Si chiamava Giovanni Antonio Carta, caporal maggiore di fanteria della Brigata Sassari e Cavaliere di Vittorio Veneto. Ma c’è chi dice che non fosse l’ultimo, come si conviene a una leggenda.

La leggenda dei Ragazzi del ’99 -> Formiche.

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