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Che cosa si cela dietro la bega tra Moretti e Renzi

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Commento pubblicato su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Gli esempi, si sa, vengono dall’alto. E nell’esemplare necessità di contenere i costi pubblici, cioè pagati da noi tutti, l’ipotesi ribadita da Matteo Renzi di cominciare a farlo riducendo non le solite e traballanti pensioni del ceto medio, ma i robusti stipendi dei manager di Stato, non è un diritto alla demagogia: è un dovere di buonsenso.

Eppure, Mauro Moretti, l’amministratore delle Ferrovie dello Stato che guadagna -per sua stessa ammissione- 850 mila euro all’anno, obietta controcorrente: attenzione, se si tagliano i compensi, i manager pubblici finiranno per andare all’estero. E allora? Lo fanno già da tempo i nostri giovani figli, e gratis, pur di trovare un lavoro degno che gli è negato in patria: possono farlo anche i dirigenti adulti a svariati zero in busta paga, se davvero considerassero insopportabile l’affronto di una sforbiciatina -per ora solo “annunciata”- per contribuire a risanare i conti. Non è questo il problema, dunque: libera scelta in libero mercato, e che vinca il più bravo. Avere, poi, tanti manager italiani ai posti di comando in giro per il mondo, sarebbe un fiore all’occhiello e non certo una disgrazia per l’Italia.

La vera questione sollevata da Moretti riguarda, invece, la figura dell’alto dirigente di Stato. Che purtroppo, a differenza di quanto avviene in Paesi come l’America, dove certamente viene retribuito molto meglio perché rischia molto di più, qui è invece frutto della vecchia commistione con la politica. Né risponde economicamente del suo operato, il manager “made in Italy”. Cioè se sbaglia, non paga di tasca sua. Invece altrove il compenso dell’amministratore è così legato al risultato dell’impresa, che la retribuzione può essergli ridotta, e di molto, se le cose vanno male. E se vanno malissimo, lui stesso (o lei stessa: all’estero anche tante donne sono al vertice di aziende di pubblico servizio), possono essere cacciati dalla mattina alla sera.

Onori e oneri, quindi. Nessun “assistenzialismo” secondo l’andazzo del nostro circolo vizioso, dove il manager di turno è quasi sempre nominato dalla politica ed è inamovibile. Peggio, spesso lo riciclano di qua e di là e a qualunque età. Qui la rottamazione non vale. Inoltre può incassare ricche liquidazioni anche nella sventurata ipotesi che le cose da lui amministrate finiscano in rosso che più rosso non si può. L’emblematica vicenda del lungo, travagliato e lottizzato passato di Alitalia, di cui si sono fatti carico i contribuenti italiani per sette anni, è solo un piccolo esempio che dovrebbe ancora scottare.

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Salviamo l’italiano dal provincialismo degli italiani

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Pubblichiamo il primo di una serie di tre articoli scritti dall’editorialista e saggista Federico Guiglia usciti sul quotidiano il Messaggero

“Signori della Corte, salvate l’italiano da chi vuole cancellarlo in Italia”. Altro che maestro Alberto Manzi o Luciano Rispoli con la televisione, o il canto di Laura Pausini e le recite di Giorgio Albertazzi, o l’arte di Riccardo Muti, di Dario Fo più quanti, tanti, hanno contribuito alla diffusione della lingua italiana in patria e nel mondo. Adesso, per continuare a parlare l’idioma “del bel paese là dove ‘l sì suona”, non si potrà più scomodare padre Dante, neanche per interposto Benigni: bisognerà bussare alle porte, mai così solenni, del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale, e che Dio ce la mandi buona.

C’è già la data del giudizio universale, l’11 marzo. I “supremi” giudici amministrativi della sesta sezione dovranno decidere su un ricorso che sarebbe comico, se non fosse triste. Il ricorso del Politecnico di Milano, la cui posizione è stata da poco bocciata con una durissima sentenza del Tar della Lombardia. Ora il Politecnico torna alla carica con l’obiettivo, nella sostanza, di poter sostituire alla lingua italiana, nei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca, la lingua inglese. Tutto e solamente come Shakespeare comanda, oh, yes! Poco importa se il controverso tentativo del Senato Accademico è stato contestato da cento docenti del Politecnico medesimo: quelli che hanno vinto al Tar. Ma che sorpresa tra le righe: anche il ministero dell’Istruzione a Roma spalleggia il ricorso del Politecnico a Milano. Atto formale e scontato o il ministero che istruisce pensa che, in una pubblica università d’Italia, l’italiano possa essere non affiancato, ma buttato via, per il “to be or not to be” del pur caro amico William? Quale Paese dell’universo lo fa o lo farebbe con la sua madre-lingua?

L’idea che dell’italiano si possa fare a meno nell’indifferenza generale e istituzionale, ha contagiato anche il Consiglio provinciale di Bolzano. Che sul finir della sua precedente legislatura, tanto per non dare troppo nell’occhio, ha approvato una legge che elimina gran parte dei nomi italiani dalla toponomastica bilingue (italiano-tedesca) esistente da quasi un secolo in Alto Adige. Stavolta la legge taglia-Italia è finita alla Corte Costituzionale. Dove “giace” da più di un anno come un paziente sul quale si ha paura d’intervenire. Silenzio. Il governo-Monti l’aveva impugnata con un altro, durissimo ricorso. Il governo d’oggi, invece, tergiversa: ha chiesto alla Corte Costituzionale di non pronunciarsi ancora, immaginando che essa userebbe la scure contro una simile pretesa. Evitare polemiche. La Corte sa che l’italiano “è la lingua ufficiale dello Stato”, come stabilisce una norma di rango costituzionale. E allora Roma e Bolzano “trattano” su principi intrattabili dietro le quinte. Abolire tutti i nomi italiani magari no, però abolire alcuni nomi italiani magari sì. L’italiano negato, ma solo un po’, una fettina della toponomastica, che sarà mai? E poi va a beneficio, per una volta, non dell’inglese, ma del tedesco: c’est plus facile.

Mentre il paziente inglese, pardon, tedesco dorme tranquillo nella culla del diritto alla Consulta, dove nessuno osa svegliarlo per dirgli che neanche a pezzettini si può violare la Costituzione della Repubblica, l’un tempo compagnia di bandiera s’è inventata una trovata al volo: il personale italiano a bordo di Alitalia si dà gli ordini in inglese. Succede da molti mesi, ma ogni volta che “disarmano gli scivoli” o che l’”imbarco è terminato”, bisogna ascoltare l’annuncio in inglese maccheronico, cioè tradotto dall’annuncio che sempre si faceva in italiano. A sprezzo del ridicolo: né Air France né Iberia hanno smesso di dirsi in francese o in spagnolo quelle quattro parole che non cambiano la storia, ma danno l’idea del rispetto per la propria lingua.
Sempre ai magistrati, ma europei, il governo italiano era ricorso per impedire che nei concorsi pubblici dell’Unione l’inglese, il francese e il tedesco la facessero da padrone rispetto a tutti gli altri idiomi, nostro compreso. Fra Bruxelles e Lussemburgo, l’Italia ha vinto alla Corte di Giustizia. E’ bello difendere la lingua millenaria di Dante. C’è posto per tutti nella splendida sinfonia poliglotta del nostro tempo.

Tuttavia, quando i massimi rappresentanti dell’Italia vanno alle Nazioni Unite per parlare nell’esercizio delle loro funzioni, e non al bar, anziché rivolgersi ai vicini e lontani in italiano come il mondo si attenderebbe, optano per l’inglese o il francese. Forse i nostri non sanno che hanno inventato la traduzione in cuffia per chi ascolta in sala senza capire. Né sanno che i tedeschi o i giapponesi (per non dire di altri) parlano in tedesco e in giapponese, e buona cuffia per tutti.

Chissà chi saranno i “Signori della Corte” dell’Onu. Ma siano pietosi anch’essi: ci aiutino a salvare l’italiano dal provincialismo degli italiani che si fanno male da soli, in casa e nella casa del mondo.

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Titolo V, perché il regionalismo uscirà rinvigorito sotto mentite spoglie

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi. 

Dopo tredici anni di conflitti e pasticci, si sono tutti convinti sulla necessità di “riformare la riforma”, cioè di rivedere la legge costituzionale che nel 2001 modificò il titolo V della nostra Carta in senso super-regionalista. Soffiava, all’epoca, il vento federalista. Per rincorrere la devoluzione, che era la rivoluzione della Lega, da destra a sinistra il Parlamento pensò bene di trasferire molti poteri dallo Stato alle Regioni. Di dichiararne altri in condominio (“materie di legislazione concorrente”).

Perfino di stabilire il nuovo e stravagante principio che “spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Significa perfino che, a dover legiferare su una materia oggi non prevista né prevedibile, non sarebbe più il Parlamento della Repubblica, ma ognuno dei ventidue parlamentini (venti regioni più le due province autonome di Trento e Bolzano) per conto proprio.

Col passare del tempo e l’intervento della Corte Costituzionale, che solo nei primi undici mesi dell’anno scorso ha bocciato il 90,1 per cento delle settantuno leggi regionali impugnate dal governo nazionale proprio per violazione della Carta, i partiti si sono resi conto che fosse necessario “riequilibrare” la squilibrata riforma, introducendo buonsenso al posto della demagogia.

Immaginare che una regione decida la politica energetica o turistica dell’Italia ciascuna nel suo pezzettino di territorio, vuol dire non sapere dove va il mondo. Alimentando, inoltre, quel cortocircuito di spesa, clientela e campanilismo che tanto male ha già fatto al nostro Paese. Per questo non un vecchio centralista, ma il giovane sindaco di Firenze ha posto la questione in modo ultimativo da palazzo Chigi: se oltre all’ordinaria legge elettorale non si cambierà anche il titolo V della Costituzione, lui, Matteo Renzi, andrà a casa. E così l’idea di ridare un senso allo Stato e un ruolo ai Comuni, che sono gli enti più antichi, amati e vicini ai cittadini, sembrava cosa fatta. Riviva l’Italia delle cento città.

Ma l’unanimità con cui è stato accolto l’appello di Renzi era sospetta. In realtà la politica sta cercando in modo trasversale di salvare il salvabile del fallimento regionalista, nonostante l’impopolarità che questa nuova casta decentrata riscuote da tempo, se soltanto si pensa che ben diciassette delle venti regioni sono sotto indagine della magistratura per l’indecenza con cui troppi consiglieri di troppe parti hanno usato il denaro pubblico. Quel “Senato delle autonomie” che avrebbe dovuto riscoprire l’Italia una e diversa, s’appresta invece e soprattutto a incoronare i governatori regionali.

E l’anacronistica distinzione legislativa e amministrativa fra le cinque e privilegiate regioni a statuto speciale e le quindici ordinarie che pedalano – il vero tabù istituzionale -, resterà intoccabile. Come se non bastasse, nell’attesa della riforma il ministero per gli Affari regionali da mesi impugna pochissime leggi regionali in nome di un malinteso autonomismo, se solo si considera, al contrario, che la Consulta fino a ieri ha dichiarato incostituzionali quasi tutte le leggi impugnate dal governo. Segno, quantomeno, che la legislazione regionale non merita l’improvviso buonismo di Stato (e non c’è pregiudizio dei giuristi: dieci anni fa a soccombere era il governo nel 62 per cento dei casi).

Sotto mentite spoglie (“riformare il titolo V”), il regionalismo uscirà paradossalmente rinvigorito, proprio nel momento in cui agli occhi dei cittadini sta dando la più infelice ed eloquente prova di sé.

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Lavorare sulla priorità lavoro

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Commento pubblicato oggi su Brescia Oggi

La disoccupazione ha fatto tredici, tredici per cento di persone senza lavoro. E’ il dato di febbraio, ma non accadeva da quasi quarant’anni che quattro giovani su dieci fossero a spasso, e non per diletto. “Sconvolgente”, ha commentato Matteo Renzi senza esagerare, perché nella realtà la situazione è ancor più grave dei numeri nudi e crudi che pur la fotografano. In epoca di rottamazione e con il presidente del Consiglio più giovane dell’intera storia nazionale succede che una generazione di ragazze e ragazzi sia sulle spalle dei padri e dei nonni. Succede l’innaturale per il ciclo stesso della vita, il mai accaduto neanche dopo le due guerre mondiali: sempre sono stati e sono gli adulti che prima accompagno con discrezione e poi assistono da lontano alla crescita dei loro figli. Come quei marinai che si abbracciano e salutano nel porto quando la bottiglia s’infrange contro la prua della nuova imbarcazione: “E la nave va”.

IL BINOMIO MATURITA’-LAVORO

Maturità e lavoro sono un binomio inscindibile che apre le porte all’indipendenza dei singoli. Che rende concreta la possibilità di costituire un’altra famiglia oltre a quella propria d’origine. Che alimenta il sogno di realizzare almeno un po’ le aspirazioni di studi e sacrifici per anni. Tutto inutile e bruciato, se al momento di tirare le prime somme, i giovani scoprono che l’indipendenza, la nuova famiglia e i sogni, cioè il lavoro, non c’è. Con l’ulteriore smacco per molti cinquantenni che prima c’era, quel lavoro perso all’improvviso. Il dolore nel dolore, perché alla mancanza di speranza subentra la disillusione, all’incoraggiamento verso i figli (“vedrai, prima o poi ce la farai”), il non saper più neanche che cosa raccontare in famiglia. Troppi suicidi di imprenditori e lavoratori hanno già dato il segno di quanto sia drammatico il fenomeno sociale rilevato dall’Istat, ma vissuto da ben oltre i tre milioni e trecentomila cittadini disoccupati. Bisogna aggiungervi l’esercito di padri, di nonni, di zii e zie che aiutano i familiari, e che perciò condividono l’angoscia. Offrendo quel che possono: un tetto, un pasto, soldi dalle loro mai ricche pensioni.

LA DIMENSIONE EUROPEA DELLA DISOCCUPAZIONE

Ormai la disoccupazione ha una dimensione europea. Ma da noi ha un peso maggiore, perché colpisce la terza società più industrializzata del continente. E allora la politica non ha bisogno di capire quale sia la priorità delle priorità. Essa si chiama lavoro ed è l’unica riforma che non preveda tempi lunghi. Lavoro oggi e subito. Il governo e le opposizioni sono chiamati al dovere nazionale: il diritto dei nostri figli e nipoti a salpare verso il futuro.

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Consigli utili per bravi manager statali

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Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Non spendere quello che non hai. Se nei decenni la politica avesse rispettato questa semplice regola che tante famiglie italiane conoscono a memoria, lo Stato non avrebbe accumulato il terzo debito pubblico del mondo. Con l’aggravante, oltretutto, che i cittadini sono stati capaci, nel tempo, di creare risparmi notevoli e imparagonabili, anch’essi, con quelli prodotti a livello privato nelle economie forti come la nostra: il piccolo, grande tesoro delle formichine italiane.

PROPENSIONE AL RISPARMIO

Non è un caso, allora, che nel così difficile e prolungato periodo di crisi che stiamo vivendo, l’osservatorio Prometeia, che queste questioni analizza, preveda il prossimo ritorno a una “propensione al risparmio” da parte dei consumatori. “Risparmio”, dunque, e non “consumo”, non appena -si spera presto, comunque non oltre il 2015- torneremo a rivedere un po’ di stelle.

Ma stavolta la tradizione popolare del mettere da parte quel che si può in attesa di momenti migliori, non sarà sufficiente per raddrizzare le cose e risanare i conti, come esigono il futuro dei nostri figli e i parametri, pur ciechi e anacronistici, dell’Europa. Al grande sforzo del risparmio collettivo devono partecipare quelli che più agevolmente possano permetterselo. A cominciare dagli alti dirigenti, attivi o in pensione, chiamati non a svenarsi, ma a dare il buon esempio. A costo di fissare un tetto massimo per i manager delle società statali non quotate di 311 mila euro lordi all’anno, agganciandolo allo stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione?

COSA FA UN BUON MANAGER

Se la sforbiciata, in arrivo da aprile, significa che la festa è finita per tutti, e che la parsimonia deve diventare un valore pubblico anche tra dirigenti e benestanti (non più soltanto l’antica virtù del popolo di formichine), ben venga. Ma non sarà certo il limite a fare del manager un buon manager. Sarebbe più giusto vincolare i compensi d’oro ai risultati ottenuti da parte di chi quell’oro percepisce. Guadagnino anche di più, se col lavoro manageriale i treni arrivano in orario e alle poste s’evitano le code.

SPECCHIO DELLE MIE BRAME

Ma non vengano pagati neanche come il più alto magistrato se, per esempio, non si risolve il problema dei treni pendolari, dove non si riesce neanche a capire chi sia il principale responsabile (Fs, Stato, Regioni?). Un degrado inaccettabile a fronte della più riuscita e coccolata Alta velocità. Il manager pubblico, al pari di quello privato, deve finalmente imparare la differenza che passa tra il far bene o no. E il suo compenso sia come lo specchio delle mie brame: chi è il più bravo del reame? Soldi e riconoscenza oppure arrivederci. Solo così si può sperare di cambiare in epoca di risparmio.

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Vi spiego il mio amore per l’italiano

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L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano il Messaggero.

“Fratelli e sorelle, buonasera!”. Se la lingua italiana cercasse un motto ispiratore della sua forza gentile e universale (un po’ come “liberté, égalité, fraternité”, proclama internazionale della storia e della lingua francese), dovrebbe adottare le prime parole pronunciate da Papa Francesco in mondovisione il giorno della sua elezione il 13 marzo 2013. Dal balcone di San Pietro quel saluto semplice di un uomo venuto “quasi dalla fine del mondo”, riassume tutta la modernità che oggi fa dell’antica lingua di Dante una delle cinque, e spesso quattro più studiate nelle scuole e nelle università all’estero.

Quelle parole rispecchiano il nuovo corso senza frontiere della nostra lingua, interpretate da un Papa che non è italiano, ma argentino-italiano. E perciò frutto lui stesso, come più di ottanta milioni di cittadini sparsi nei continenti, della felice mescolanza che ha reso l’italiano un canto universale. L’eterno “Volare” di Modugno o “Partirò” di Bocelli, che subito e ovunque si associano alla cultura e al modo di vivere italiani. Quando Francesco si rivolge agli altri, specie nelle occasioni “urbi et orbi”, lo fa in italiano, che è la lingua ufficiale d’uso nella Chiesa di Roma. Settanta Paesi si collegano in tv (ma via internet di più) e oltre un miliardo di persone, credenti oppure no, sentono in lontananza la voce di una lingua familiare e il suono dolce delle vocali alla fine di ogni parola: l’identità dell’italiano. “E’ la lingua più musicale di tutte”, disse il tenore spagnolo José Carreras per spiegare il suo amore professionale. Suo e di tanti artisti d’ogni nazionalità. In questo preciso istante nella metà dei teatri del mondo si stanno rappresentando opere italiane cantate in italiano. Rossini, Verdi e Puccini sono il nostro “buonasera” permanente.

Lingua parlata e cantata oltre ogni frontiera, dunque. Ma anche lingua virtuale: l’ottava più usata di Facebook. Una lingua giovane, il caro e vecchio italiano che quest’anno spegnerà 1.054 candeline a primavera. Per festeggiare quando, nel lontano marzo del 960 d.C., fu “firmato” in Campania il primo e celebre documento (“Sao ko kelle terre…”) in forma volgare italiana.

Lingua di sogni e di giochi, la nostra. Quando una radio di Buenos Aires chiese agli ascoltatori, naturalmente in spagnolo, quale potesse essere il complimento più accattivante per cominciare un corteggiamento, vinse “Buongiorno, principessa!” naturalmente in italiano. Espressione rimasta nell’animo di tanta gente grazie al film di Benigni “La vita è bella” molti anni prima, 1997. Il cinema come la musica: evocazioni d’Italia al di là dei confini.

Nel calcio, cioè nello sport più popolare del pianeta, la quantità di stranieri nelle serie A e B ha contribuito a rendere l’italiano una delle lingue per intendersi anche all’estero fra giocatori sudamericani ed europei, tra africani e asiatici (e nella Formula 1 o nel motociclismo grazie all’epica della Ferrari e della Ducati succede lo stesso).

Fateci caso, tutti i campioni del pallone, di oggi o di ieri, parlano italiano: dall’allenatore portoghese Mourinho al mito di sempre, l’argentino Maradona. Con Thohir presidente dell’Inter, nei club sportivi dell’Indonesia i tifosi inneggiano in italiano alla loro squadra, quando la vedono in campo in piena notte televisiva (per fuso orario).

Sorvolando sul peso della lingua nella moda, che è proporzionale allo stile di eccellenza nelle passerelle di Parigi, Milano, New York, e sul forte contributo nella fisica e nella ricerca aero-spaziale, persino nella cosa più comune di tutte, il cibo, l’italiano ha un risvolto planetario. Bene lo sanno gli imprenditori dell’industria non solo alimentare, costretti a denunciare le falsificazioni del “made in Italy” in America e altrove, difficili da riconoscere proprio perché si presentano in italiano per confondere le idee. E quanti menù ricorrono alla nostra lingua, inseguendola e storpiandola a ogni latitudine. Ma i ristoratori d’ogni dove sanno che anche con un italiano claudicante si attirano clienti.

Fra italiani d’Italia e del mondo, fra stranieri in Italia e nel mondo si calcola che esista un bacino potenziale di 250 milioni di persone che, per storia personale o familiare, per motivi economici o geografici, per amore di conoscenza e del bello, per voglia di viaggiare o di vivere in Italia, sia interessato alla lingua italiana. E’ un patrimonio culturale, popolare e trasversale immenso, che vive per conto suo nell’universo. E’ una rete che non trova un punto di appoggio a Roma: dateglielo e vi solleverà con allegria il mondo.

Ma fra i tanti e inutili ministeri, nessun importante “ministero per la lingua italiana” è mai stato neppure immaginato. Nessun coordinamento istituzionale esiste fra quanti -Società Dante Alighieri, Accademia della Crusca, Istituti Italiani di Cultura, le Università per stranieri, i dipartimenti di italianistica-, al tema si dedicano da anni con cognizione di causa. Eppure, una “politica della lingua” è un colossale investimento economico, come sanno i governi di Francia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e perfino del piccolo Portogallo. Dai vertici che dal 1991 Madrid promuove ogni anno per far dondolare i ventidue Paesi latino-americani sull’amaca dello spagnolo, all’orgoglio della Francofonia con cui Parigi coccola una cinquantina di Stati nell’orbita francese.

Dal rilievo che Londra assegna ai British Council per spingere con signorile discrezione una lingua -l’inglese- che pure si spinge da sé e da sola, alle sistematiche iniziative di Berlino per rilanciare la lingua di Goethe nella Mitteleuropa. Al ponte leggero del portoghese fra Lisbona e Brasilia: “Dalla mia lingua si vede il mare”, diceva uno scrittore innamorato.

Dalla lingua italiana si vede il sole. Eppure, nessun governo ha ancora scoperto l’alba di una conferenza internazionale a Roma per mettere insieme le personalità del mondo e i rappresentanti dei 39 Paesi -dall’Albania all’Uruguay, dalla Svizzera al Brasile, dalla Romania all’Australia-, per i quali l’italiano ha un futuro da raccontare e può costituire una grande opportunità.

La lingua italiana è un tesoro dell’umanità. Valorizzato nel mondo, sperperato solo in Italia. Ma non è mai troppo tardi per guardare fuori dalla finestra e fare la cosa giusta con chi ci vuole bene.

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Ecco come l’italiano viene usato e violentato

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Quando il Renzo (e non il Renzi) dei Promessi Sposi sente elencare in latino tutti gli impedimenti del diritto canonico che don Abbondio gli sta citando per non celebrare le nozze con l’amata Lucia, quel Renzo, dunque, lo interrompe così: “Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.

Reagendo col buonsenso, il giovane liquida i vari “error”, “conditio”, “votum”, “cognatio”, “crimen”, “Cultus disparitas”, “vis”, “ordo”, “ligamen”, “honestas” e “Si sis affinis” con cui il curato provava a boicottare, con l’oscurità della parola colta per un uomo semplice del popolo, quello che sarebbe diventato il più travagliato matrimonio della letteratura italiana. Un matrimonio, com’è noto, “che non s’ha da fare, né domani né mai”.

Il latinorum dei tanti che oggi rappresentano la classe dirigente del Paese, specialmente ma non solo in ambito politico, è più approssimativo e conformista. Tuttavia, l’esito non cambia: parole astruse, talvolta inventate di sana pianta, per non dire pane al pane in lingua italiana, bensì “spending review”, “welfare”, “jobs act”, “bipartisan”, “convention” e perfino “question time” presi a prestito dall’anglorum, cioè da quello che gli italiani poco abituati all’inglese credono che sia la lingua parlata a Oxford e a Cambridge. Come don Abbondio, i creduloni ma influenti iscritti al club di anglicisti alla Totò, che hanno fatto il militare a Cuneo, vogliono dare al pubblico un’alta considerazione di sé, esibendo confidenza internazionale: a tu per tu col mondo immaginato e immaginario, of course. Non sanno che neppure nel Parlamento europeo si usa l’espressione “question time”, tanto di moda in quello italiano per indicare uno degli atti più importanti della Repubblica italiana: il governo che risponde alle domande degli eletti del popolo. Il celebre “c’è qualcuno che parla la mia lingua?”, stile professor Marcus Brody nel terzo Indiana Jones, non è contemplato tra i parlamentari delle Camere pur italiane.

La sindrome del ricorso al “question time” al posto di “tempo d’interpellanza” (oppure l’”ora delle domande”, “il governo risponde” e altri cento modi di dire più espliciti e più belli nella lingua del Parlamento che pubblica le sue leggi sulla Gazzetta Ufficiale non a Londra, ma a Roma), l’espediente, dunque, di non usare la lingua nazionale per qualificare un atto pubblico, altrove sarebbe impossibile. In Francia già nel secondo articolo della Costituzione si ricorda che “la lingua della Repubblica è il francese”. In Spagna già nel terzo articolo della Costituzione si precisa che “il castigliano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti gli spagnoli hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla”. In Portogallo già all’articolo 9, tra gli elencati compiti basilari dello Stato, figura quello di “assicurare l’insegnamento e la valorizzazione permanente, difendere l’uso e promuovere la diffusione internazionale della Lingua Portoghese”. Ogni Paese considera la propria lingua un valore supremo per tutti, degno di essere tutelato, in patria e all’estero, con un principio costituzionale.

E noi come consideriamo, in Italia, la millenaria lingua di Dante?
Nei primi dodici articoli che esprimono i “principi fondamentali” della nazione, non c’è traccia della nostra lingua. Se non nel fatto che la nostra Carta sia stata scritta con chiarezza, sobrietà e in modo incisivo: i padri costituenti non ricorrevano al latinorum né all’anglorum. Per scoprire l’eleganza anche letteraria della Costituzione, basta metterla a confronto con le successive modifiche introdotte negli anni e scritte quasi sempre coi piedi. Sono piene di ripetizioni, contorte, in puro politichese. Brutte, le modifiche.

Paradossalmente, il rango costituzionale a cui è stata nel frattempo elevata la lingua italiana dimenticata dalla Costituzione, lo si deve al caso. Alla scelta della Repubblica italiana di salvaguardare non la nostra, bensì un’altra lingua: quella tedesca a Bolzano e dintorni.

E così all’articolo 99 dello statuto di autonomia, che dal 1972 è legge costituzionale, si dice “nella Regione (Trentino-Alto Adige nda) la lingua tedesca è parificata a quella italiana, che è la lingua ufficiale dello Stato”. L’italiano è salito in vetta in Italia solo per la necessità di proteggere il tedesco fra le Dolomiti. Incredibile, e meno male. Eppure, il ricorso continuo a un linguaggio che persino il giorno delle elezioni, pardon, l’election-day, fa dell’exit poll il know-how dell’endorsement comunicativo -così parlano gli Azzeccagarbugli del Palazzo-, conferma che il momento è arrivato. Il momento di fare quel che francesi, spagnoli, portoghesi e tutti i popoli che provano amore e rispetto per la propria lingua-madre, hanno fatto da tempo: aggiungere che “la lingua della Repubblica è l’italiano” nella prossima revisione della Costituzione che si annuncia in Parlamento. Sarà, quello, il tempo di Renzi, e non più di Renzo. Ma in nome della lingua italiana qualunque matrimonio politico-legislativo gli sarà, per l’irripetibile occasione, perdonato.

Intendiamoci, l’italiano scolpito nella Costituzione italiana, non eliminerà la sciatteria, la pigrizia, la banalità culturale e intellettuale, per esempio, dei titoli cinematografici lasciati in inglese nella versione doppiata in italiano. “The wolf of Wall Street” (con Leonardo DiCaprio) in tutto il mondo spagnolo e sudamericano è stato presentato come “El lobo de Wall Street”, esistendo la parola “lupo” anche nella nostra bella lingua. Ma noi no, noi siamo uomini di mondo, alla Totò. Preferiamo il timing e l’outing, la mission che è in e la fashion che è out, l’happy hour e la security, il costumer e la first lady, il briefing e il day hospital, il drink al party e lo share in prime time, che è più trendy e friendly, come il backstage nel trailer del movie. E chi più ne ha, più ne inventi. Liberi tutti, come a nascondino.

Ma l’introduzione dell’italiano in Costituzione quale “lingua della Repubblica”, ci aiuterà a diventare sempre più universali e poliglotti, anziché i provinciali dell’anglorum. E poi la soddisfazione di non sentire più invocare il “question time”, quando gli onorevoli se le cantano tra loro, varrà da sola questa piccola, grande riforma.

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Agenzia delle Entrate, la guerra un po’ da ridere agli evasori

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Articolo pubblicato da Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Regione che vai, evasione che trovi. “Trovare” soprattutto nel senso di “trovata”, qual è l’ultima dell’Agenzia delle entrate: elaborare una cartina per classificare il rischio fiscale per area geografica. Come in una caccia al tesoro fra le otto grandi zone territoriali in cui l’Italia è stata suddivisa, si scopre che il rischio “medio-alto” di tasse poco o per nulla pagate se lo contendono i contribuenti fra Roma e Milano. Ma la mappa entra nello specifico con definizioni a metà fra la goliardia e la statistica, e che vanno da “pericolo totale” (una sorta di versione moderna dell’antico latino “hic sunt leones”), al “stanno tutti bene”. Passando per aree classificate col “niente da dichiarare”, per arrivare, in un crescendo rossiniano, al “rischiose abitudini” e perfino al “non siamo angeli”: davvero tutto un programma.

Forse nelle intenzioni dell’Ufficio che l’ha ideato, questo lavoro, che raggruppa province prendendole in considerazione sulla base di diversi indicatori come le tasse, il tenore di vita, la quantità di popolazione e le infrastrutture presenti, dovrebbe servire per avere una radiografia, la prima a memoria di fisco, dell’Italia da cambiare. Cioè di quell’esercito di cittadini invisibile per la dichiarazione dei redditi, ma visibilissimo per abitudini di vita che da anni ogni governo giura che sconfiggerà per sempre. Un eterno “vincerò!” che ancora non si vede: e per esorcizzarne lo spettro, chissà, o per far sapere agli evasori che sappiamo dove sono i loro covi, ecco che l’Agenzia s’è inventata, si spera senza aver speso un euro nell’invenzione, la mappa dell’evasione.

Peccato che nelle otto macro-regioni testé disegnate non figuri anche l’altro rovescio della medaglia, e non meno ingiusto degli evasori ora e intanto inseguiti geograficamente, se non casa per casa, almeno città per città. Non figura il peso sopportato dagli italiani retti, sicuramente la grandissima maggioranza, che pagano imposte altissime per servizi mai alla loro altezza. Di là c’è l’evasione, di qua c’è la rabbia per un “tasso di tasse” -passi anche questa “trovata”- che ha superato da tempo la soglia dell’equità e il sentimento della pazienza. E allora s’aggiunga alla mappa un “non ne possiamo più” -definizione per nulla divertente- che potrebbe unire, dal Brennero a Lampedusa, ciò che le otto maxi-regioni hanno invece separato. “Non ne possiamo più” nel doppio senso di stanchezza per l’ingiustizia fiscale e dunque sociale a cui sono sottoposti i contribuenti più tartassati d’Europa, cioè gli italiani. E per gli annunci sul rischio-evasione. Prendeteli sul serio, gli evasori, anziché raccontarci un po’ per gioco e un po’ per dovere dove potrebbero essersi nascosti con le loro “pericolose abitudini”.

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Tutti i battibecchi sull’Italicum tra Renzi e Berlusconi

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

È cominciata la guerra a chi le spara più grosse. Il primo colpo si deve all’inventore della nuova terapia di gruppo, Matteo Renzi. Il quale, si sa, ha posto non solo il tema dei grandi cambiamenti elettorali e costituzionali da approvare, ma soprattutto le date entro cui farlo. Come una mela al giorno che toglie il medico di torno, così anche una riforma al mese per non avere il presidente del Consiglio quale dottor fiorentino che ausculta e prescrive dolori ai partiti inadempienti.

I BATTIBECCHI SULL’ITALICUM
A Forza Italia, l’alleato sull’argomento che però sta all’opposizione, l’hanno preso in parola. Ma il capogruppo alla Camera, Renato Brunetta, ha fatto il più realista del Re, che non è, in questo caso, Silvio Berlusconi, ma Renzi medesimo: “L’Italicum entro Pasqua oppure salta tutto”, ha detto all’indirizzo di chi, sui “tempi del fare”, s’è costruito buona parte della fiducia a sua volta “a tempo” che gli hanno concesso gli italiani. Botta e subito risposta, col giovane premier che ha respinto l’ultimatum e sfidato i berlusconiani: se essi non ci staranno più, lui e la sua maggioranza comunque faranno la riforma in Senato. Meglio soli che male accompagnati, ecco la piccata replica di Renzi. Che forse farebbe meglio a fare un po’ di conti parlamentari. Perché il mal di pancia dei senatori per il prossimo harakiri del Senato, destinato a diventare l’assemblea di condominio del regionalismo fallito, è trasversale. Il primo ad aver lanciato l’allarme sul rischio del “tante riforme/nessuna riforma”, non è stato il deputato Brunetta, che fa il gioco delle parti, ma il presidente del Senato, Pietro Grasso, che è parte del gioco. Oltre che parlamentare del Pd, lo stesso partito che Renzi guida senza esserne parlamentare: i paradossi di quel che resta dopo tanto rottamare.

EUROPEE ALLA PORTE
Ma l’improvviso tiro alla fune tra Berlusconi e Renzi per interposto Brunetta (ma anche la ministra Maria Elena Boschi è della partita col suo renziano “altolà” lanciato già in precedenza a Forza Italia), testimonia almeno due cose. Intanto che la campagna elettorale per l’Europa è iniziata con le solite beghe casalinghe. Dopo trent’anni di mancate riforme anche un marziano che sbarcasse a Roma (o a Firenze) capirebbe che tredici giorni in più o in meno, cioè da qui a Pasqua, non cambiano il destino del mondo, e meno che mai quello della Costituzione. La reciproca minaccia sui tempi vale quanto le sperimentate calende greche, l’unica “data” certa e da sempre indefinita dei riformatori incalliti, cioè regolarmente incagliati.

I TIMORI DI FORZA ITALIA
E poi Forza Italia alza la voce per non rischiare il silenzio a fronte dei proclami di Renzi “urbi et orbi”. Protesta per non restare schiacciata da “un patto” -così lo chiamano le parti-, in cui Matteo ha tutto da guadagnare e Silvio, che presto conoscerà anche il suo destino personale dal tribunale di Milano, molto da perdere. E perché sa, il partito dell’ex Cavaliere, che Renzi sarà pure un buon medico della politica, ma non al punto da curare tutti i mal di pancia del Pd nel Senato. Difficile che gli uni possano fare a meno degli altri, allora, e per questo, come nei matrimoni per puro calcolo, volano, oggi, piatti e parole.

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Caro Renzi, il tempo dei giochini mediatici quando finisce?

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Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Da tempo i muri dell’ideologia si sono sgretolati. “Ma che cos’è la destra, cos’è la sinistra?”, cantava Giorgio Gaber anni fa. Stare di qua o di là spesso è diventato un esercizio di puro trasformismo.

LE ACCUSE DEL PREMIER
Eppure, quando un leader di sinistra vuole criticare la politica degli avversari, ancora oggi impiega l’invettiva magica: “Politica di destra”.
Non poteva essere più dura, dunque, l’accusa che il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha appena rivolto alla sua stessa parte: “La sinistra che non cambia, diventa destra”. Dar dei conservatori ai progressisti, e per bocca del presidente del Consiglio: l’inedito nell’Italia del Gattopardo, dove ogni tentativo di riforma del lavoro, di rinnovamento istituzionale, di sussulto etico per la casta (il famoso “dare l’esempio”), ha prodotto il nulla. Ma in compenso ha riempito le pagine dei giornali e le antologie dei costituzionalisti.

LA FORZA DEL COMUNICATORE
Tuttavia, la forza della parola, anche quella di Renzi il comunicatore, non basta più nell’epoca in cui un elettore su quattro ha deciso di caricare a testa bassa il Palazzo affidandosi a Beppe Grillo. Non per caso diventato, quest’ultimo, “il nemico principale” del giovane premier, che cerca invece di proporsi come l’innovatore “concreto” al di là degli schieramenti. Trovando vecchie e nuove resistenze ovunque, come testimonia la mobilitazione della minoranza nel Pd che aspira a “diventare maggioranza”, secondo altre e non meno significative parole di Massimo D’Alema: rieccolo.

IL BIVIO DI RENZI
E allora il giovane Matteo si trova al bivio. Al bivio tra annunci di cambiamento e capacità pratica di rimettere l’Italia in cammino. Al bivio tra la fiducia dei cittadini ancora in luna di miele con lui (ma prima o poi il miele finisce persino sulla luna) e il sospetto dei partiti che tutto vogliono cambiare, ma solo per lasciare le cose come stanno. Al bivio, il presidente del Consiglio, tra un’Europa che s’aspetta una svolta dalla politica italiana e una politica italiana che non può ignorare il grido di dolore dei suoi cittadini per questa crisi infinita, per una disoccupazione inimmaginabile: ma vera.

LA SINTONIA CON GLI ITALIANI
La contesa non è più fra destra e sinistra, come conferma lo scossone di Renzi che scompagina ogni credenza. La sfida è tra chi vuole cogliere l’onda lunga degli italiani, che non sopportano più l’immobilismo a tutti i livelli e chiunque lo incarni, e chi spera di “salvare il salvabile”, magari cambiando un pochino, però non troppo. Né troppo in fretta. Ma il tempo dei giochini è finito. Anche per Renzi, chiamato a risolvere i problemi e non più a dirci che li risolverà.

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Perché Berlusconi tra gli anziani è una bella notizia

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Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

La notizia ha fatto il giro del mondo. Ma per capire l’”effetto che fa” tra noi, in casa Italia, forse bisogna citare le parole degli avvocati di Silvio Berlusconi. Hanno definito “equilibrata e soddisfacente” la scelta del Tribunale di Sorveglianza di Milano, che per un anno ha affidato il leader di Forza Italia a un centro milanese di servizi sociali: quattro ore alla settimana per dare una mano ad anziani e disabili. A conti fatti, sette giorni effettivi di impegno in esecuzione della condanna definitiva per frode fiscale.

Una decisione civile. Anche troppo, secondo i critici. “I normali cittadini vanno in prigione per molto meno”, ha subito rilevato Massimo D’Alema. E’ chiaro che il cittadino Berlusconi per l’età che ha (quasi settantotto anni) e per il ruolo politico che ricopre -oltre che per il risarcimento dei danni già pagato allo Stato, come hanno spiegato i magistrati-, ha potuto usufruire di un trattamento migliore rispetto a quello alternativo degli arresti domiciliari. Tant’è che potrà dedicarsi alla campagna elettorale europea e anche spostarsi a Roma.

Ma contrariamente a quel che potrebbe sembrare, l’attivismo probabile (anche se limitato nei tempi e nei luoghi) di Berlusconi, finirà per disinnescare la mina di tutti gli appuntamenti elettorali negli ultimi vent’anni: nessuno potrà dire che i giudici “ce l’hanno” con l’ex presidente del Consiglio. Né lui vorrà attaccare la magistratura a testa bassa, perché altrimenti rischierebbe di perdere i benefici di legge appena accordati. Almeno per le europee il tema della giustizia potrà rimanere sul terreno, più utile per gli italiani, del che fare perché la giustizia penale e civile funzioni con equità e rapidità.

Un dibattito inconcludente, e sempre più complicato dalla moltiplicazione dei cavilli e dall’introduzione di garanzie a senso unico (sempre pro-imputato e mai a favore delle vittime dei reati) che, negli anni, hanno reso difficile per molti “credere” nella giustizia. Anche il blando obbligo imposto a Berlusconi è frutto di una legislazione generale e di codici di procedura che, nel corso del tempo, si sono sempre più distanziati dal comune sentire del cittadino. Basti ricordare che proprio in questi giorni alti magistrati hanno lanciato l’allarme sul rischio che perfino il reato di furto presto non verrà più perseguito col carcere, secondo una precisa e nuova norma all’esame del Parlamento.

Ora che lo scontro sulla giustizia perderà la sua connotazione politico-ideologica, i partiti potranno affrontare la questione nell’interesse dei cittadini. Solo così la legge sarà “uguale per tutti”.

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Il braccio di ferro tra Renzi e Alfano sul lavoro

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Questo articolo è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Ma quanto saprà essere strana, la strana maggioranza? Ora che il governo-Renzi comincia a convertire in provvedimenti, i primi, i suoi molti annunci, ecco che il Nuovo Centrodestra alza la voce sul non meno nuovo Centrosinistra. E’ il lavoro il tema della discordia. Mentre il partito di Angelino Alfano esige maggiore flessibilità nelle norme del decreto-legge all’esame della Camera, il Pd vuole innovarle, ma non troppo. Rispunta, così, l’eterno duello fra destra e sinistra anche all’epoca delle ideologie pur date per morte e sepolte.

La novità di oggi, nell’epoca per fortuna senza più muri, ma di una politica che spesso mescola nell’indifferenza ogni differenza, è proprio nel braccio di ferro in corso sul lavoro. Per riformare il quale ogni punto di vista è importante, ma non tutti i punti di vista sono uguali. C’è chi vuole liberalità, c’è chi vuole garanzie: rieccole, la destra e la sinistra risorte dall’oblio.

Il dissenso di Alfano sul testo in Parlamento rispecchia al meglio il peggio della nostra bipolare politica: lasciare con voce flebile o addirittura afona una delle due parti in causa. Quella parte, oltretutto, che da quasi settant’anni rappresenta il volere della “maggioranza non progressista” dei cittadini italiani. Nel suo piccolo, la partita Renzi-Alfano, gli opposti costretti a governare ciascuno forzando il proprio ruolo politico, riflette la grande assenza di un partito popolare e conservatore in Italia, come ne esistono in Germania, Gran Bretagna, Francia, Spagna. Tocca, allora, al “democratico” Renzi interpretare anche le esigenze del centro-destra. E tocca al “moderato” Alfano contrapporsi all’intruso, non però fino al punto tale da mortificare, a sua volta, le richieste di chi invece si riconosce nel segretario del Pd e presidente del Consiglio. Risultato? Il rinnovamento piccolo. Così piccolo da risultare, alla fine, invisibile.

La frana che si è aperta con la fine dell’era-Berlusconi, rende nebuloso ogni tentativo di cambiamento. Anche quello generazionale di Renzi, destinato a recitare la parte del leader di sinistra che piace alla destra. Anche quello ribelle di Beppe Grillo, chiamato a fare il leader d’opposizione che attacca tutti, a cominciare dalla sinistra (senza perciò dispiacere a destra, come l’ultimo voto politico ha rilevato). Quel bacino elettorale che ha sempre determinato la navigazione dell’Italia, adesso è disperso non solo fra gli almeno quattro/cinque e litigiosi partiti che si candidano a rappresentarlo (il più grande dei quali, Forza Italia, oggi s’accontenterebbe di superare il modesto venti per cento alle europee), ma anche fra le lusinghe di Renzi e le sirene di Grillo.

Tuttavia, una coalizione di centro-destra non può immaginare né di parlare per interposte persone, né di affidarsi a quel che resta del Polo diviso per quattro. Come mostrano gli esempi di Angela Merkel, David Cameron e perfino Mariano Rajoy, nei momenti di crisi sono sempre i popolari e i liberal-conservatori a cercare di rimettere le cose e i conti a posto. Poi sarà il turno dei socialdemocratici per meglio distribuire le ricchezze e sanare le ingiustizie: questo racconta la storia d’Europa.

Senza controparte, senza un programma di governo e una visione dell’Italia diversi e alternativi a quelli del Pd, ogni riforma diventerà riformetta, ogni speranza di voltare pagina sarà ridimensionata all’insegna del necessario compromesso con i “non rappresentati” del centro-destra. Renzi il Ventriloquo e Grillo il Comico, ecco gli effetti paradossali, ma evidenti dell’elettore non di sinistra che si trova ai margini, del Partito Conservatore Italiano che non c’è.

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È vietato multare chi dà da mangiare a un povero. Grazie

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Il commento è stato pubblicato ieri da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

L’ordinanza della discordia almeno un risultato l’ha prodotto: da quando è scoppiato il “caso Verona”, in molte città d’Italia amministrazioni e cittadini hanno cominciato a discutere su come ottemperare a due obblighi, entrambi rilevanti.

Il primo: che fare per aiutare in concreto chi ha bisogno di un pasto e di un tetto. Il secondo, come restituire le piazze e i centri storici alla libertà e alla dignità di tutti i loro abitanti. Vale il clamoroso e recente esempio di Barack Obama in visita al Colosseo. Per consentire al presidente americano di passeggiare con tranquillità e apprezzare da vicino le rovine più ammirate al mondo, poche ore prima fu sgomberato l’indecente, ma quotidiano spettacolo di abusivismo che da sempre accompagna l’arena più antica di Roma. Ma già Obama era con un piede sul Air Force One per tornare a casa, che i banchetti senza licenza, i gladiatori improvvisati, quelli che fanno saltare le code a pagamento e ogni genere di ilarità e illegalità avevano rioccupato i loro posti di sempre.

E’ da qui, è da questo sentimento di collettiva impotenza e di pazienza delle persone andata oltre ogni limite (ogni limite ha una pazienza, ammoniva il buon Totò), che forse nasce anche l’irritazione di tanti residenti per il “bivacco” -così è stato battezzato dalle autorità- di aree nel centro storico. Analoga, dunque, è l’insofferenza, pur essendo le situazioni molto diverse tra loro, e diversi i rimedi adottati: la multa salata per chi porta da mangiare ai senza tetto. Una scelta, questa della multa, che finisce per colpire sia chi ha bisogno di cibo, sia i tanti benefattori con o senza nome che di giorno o di notte antepongono l’esigenza della persona abbandonata e affamata al diritto del “bene in comune”. Non occorre scomodare Francesco, il Papa, per elogiare senza retorica chiunque, privato o associazione, dedichi anche un solo minuto del suo tempo a favore degli ultimi. Pensare al barbone della via accanto, è un atto d’amore e d’onore per chi lo fa e per chi insegna, così comportandosi, che questa è la cosa giusta.

Ma una buona azione può essere compiuta nel rispetto non solo delle leggi, com’è ovvio, ma anche di quel buonsenso generale che si chiama civismo. Se, al di là delle polemiche di queste ore, i favorevoli e i contrari all’ordinanza sono animati dalla stessa e comune ambizione -dar da mangiare ai bisognosi ed evitare “bivacchi”-, non sarà difficile trovare insieme la quadratura del cerchio.

Ma la multa a chi dà da mangiare a un povero, mai.

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L’esempio dei 4 Papi

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Commento pubblicato domenica 27 aprile su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

E’ il giorno dei due Papi, anzi dei quattro: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II, che presto potremo anche chiamare Santi, e Francesco insieme con l’emerito Benedetto XVI, i celebranti. Basta questa circostanza, senza precedenti nella storia bimillenaria, profonda e pur ricca di sorprese della Chiesa, per cogliere l’importanza di un evento che ha già mobilitato più di un milione di pellegrini da tutto il mondo e decine di delegazioni di Stati.

Sarebbe un azzardo confrontare figure così diverse, che hanno rappresentato, oltretutto, periodi imparagonabili tra loro sia per i credenti, sia per l’universo sempre in bilico tra fede e secolarizzazione. Eppure, il destino, come cattolici e laici potrebbero concordemente definirlo, ha messo insieme Pontefici che si somigliano, e non poco. I Papi Roncalli e Wojtyla, che prima ancora delle gerarchie fu il popolo a proclamare “santi subito”, ebbero due virtù rare e dirompenti per il nostro tempo: il coraggio di cambiare e l’amore per gli altri. Furono innovatori e popolari, e sembra una contraddizione per una Chiesa che non può fare a meno di tradizione -quei riti e miti che si tramandano da secoli -, né di dottrina: il pensiero forte per attraversare epoche fragili, devastate da guerre, fame, malattie, ingiustizie.

Invece promuovendo il Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII fu un rivoluzionario. Un rivoluzionario dal cuore tenero, non per caso ricordato da tutti come il “Papa buono”. Anche “il Papa polacco”, com’è citato con altrettanto calore il più contemporaneo Wojtyla, ebbe la forza visionaria di far cadere ogni muro. Dall’ultimo e ideologico che ancora incombeva sull’Europa, a quelli geografici d’ogni frontiera. Lui viaggiò ovunque per portare il messaggio di Cristo da testimone. Fino al martirio degli ultimi giorni: un inno di dolorante umanità.
Ma il destino ha voluto che a canonizzare quei due Papi così amati in Italia e nel mondo, fosse Francesco col concelebrante Benedetto. Anche qui c’è continuità nel cambiamento. Nel caso del timido Ratzinger continuità ideale e personale, se si pensa che lui fu il più influente collaboratore di Wojtyla. Nel caso dell’invece esuberante Francesco una continuità, per così dire, di pensiero e azione, se si osserva quanto il suo approccio fra la gente lo renda quasi l’erede moderno e naturale di entrambi i Giovanni che l’hanno preceduto.

Per questo il 27 aprile resterà data dal fortissimo significato non solo per i cattolici, ma anche per chi guarda a San Pietro con la speranza di ricavare insegnamenti. I Santi e i loro celebranti sono qualcosa in più. Sono un esempio.

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Elezioni Europee, i partiti senza bussola nel Mare Nostrum

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Forse basterebbe passare dal latino al tedesco, da “Mare Nostrum” a “Unser Meer” perché l’Europa guidata da Angela Merkel capisse l’allarme italiano sul Mediterraneo. Allarme rosso. Al Viminale già scorgono all’orizzonte del Mare nostro e di tutti l’arrivo di ottocentomila essere umani che nessuna Lampedusa, per quanto generosa, potrebbe accogliere. Ma la polemica politica arriva ancor prima degli sbarchi annunciati, e allora al ministero dell’Interno mettono a fuoco i binocoli e si correggono: tranquilli, la situazione è complessa, ma sotto controllo. Le masse si vedono, in particolare in Libia. Ma non è detto che salperanno. Così suona la retromarcia.

Tuttavia, i dati statistici dicono che nei primi quattro mesi di quest’anno sono giunti via mare 25 mila migranti: più della metà di quelli contati nell’intero 2013. E non occorrono Sibille Cumane né vedette al Viminale per sapere che il futuro sarà sempre più drammatico per chi accoglie, e soprattutto per chi scappa arruolandosi, a rischio della propria vita e con tutti i pochissimi risparmi accumulati, nelle mani di trafficanti senza scrupoli.

Non è, dunque, soltanto l’enormità del fenomeno, incontenibile come ogni tempesta di mare e dell’animo, a esigere l’intervento dell’Europa. E’ la ragion stessa dei valori in gioco, che partono dal doveroso soccorso verso i fuggitivi dell’Africa, da considerare nostri fratelli non soltanto quando giocano da campioni di calcio nelle squadre europee. Che passa dalla capacità politico-strategica di saperli inserire e integrare con gradualità e buonsenso in tutti i Paesi del continente. Che richiede durezza nel punire il crimine di pochi trafficanti che sfruttano il dolore di tanti disperati. L’Europa non potrà consolare tutta la sofferenza del mondo, e meno che mai potrà farlo da sola la nostra piccola, grande Italia, che non si tira indietro quand’è in ballo il cuore suo e degli altri: le numerose operazioni navali e militari confermano che nessuna missione è impossibile, se fatta con lungimirante umanità.

“Meglio gli arrivati che i morti”, è il crudo, ma efficace pensiero di chi ha potuto salvare molte vite. Ma anche la carità si fa coi soldi, e qui è in ballo ben più di un atto caritatevole. E’ in ballo l’ambizione di aiutare gli africani in Africa, perché nessuno ama lasciare la famiglia e la patria. E’ un tema capitale per quest’Europa che non c’è. Ma che arriva, pure lei, con il voto di maggio. Ne discutano i vari partiti e candidati che navigano senza bussola nel Mare Nostrum.

Elezioni Europee, i partiti senza bussola nel Mare Nostrum -> Formiche.


Napoli-Fiorentina, la partita della vergogna

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Questo articolo è stato pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Ma per quale ragione al mondo i poliziotti devono rischiare la vita, ogni fine settimana, per separare presunte “tifoserie” in perenne guerriglia tra loro? In base a quale esigenza civica uno Stato deve impiegare centinaia di agenti e investire una montagna di denaro pubblico per “blindare” il quartiere adiacente a uno stadio, perché in arrivo non c’è la festa di una partita di calcio, bensì lo scontro armato fra teppisti opposti, ma tutti indegni dello sport?

TRISTI INTERROGATIVI

Quali e quanti altri colpi di bastone e perfino di pistola bisognerà ancora tollerare, prima che i legislatori, le forze dell’ordine, le società-proprietarie delle squadre e tutti i nostri beniamini della domenica si decidano a decidere che devono andare in galera, e non in curva, quanti inneggiano alla violenza e la praticano senza pudore?

LE FALSITA’ SPUDORATE SULLO SPORT

Non importa chi ha cominciato e perché. Conta che gli scontri di ieri a Roma, alla vigilia della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli, siano gli ultimi di una gara. Non è più accettabile un solo ferito – e feriti gravi qui se ne contano, pare, una decina -, in nome del pallone. Un pallone invocato falsamente, in realtà, perché la solita minoranza di facinorosi, purtroppo trasversale a troppe squadre, rovina la gioia della maggioranza di tifosi veri, di pacifici ragazzi, di semplici famiglie che vorrebbero andare allo stadio o “guardare la partita” – come cantava Rita Pavone già cinquant’anni fa -, perché non hanno finito di sognare.

GLI ACCORDI INCREDIBILI

Ma che c’entrano i cappucci, i bastoni, il lancio di bombe-carta di ieri e di tante altre volte con la voglia bella, innocente e popolare di gridare “gol” a squarciagola? Come si può consentire che nel giro dei tifosi più focosi s’intrufolino individui animati da ben altre intenzioni? E poi: non è incredibile che, nell’interesse della sicurezza per tutti, Marek Hamsik, il capitano del Napoli, sia stato costretto ad andare a rassicurare (lo abbiamo visto tutti in mondovisione!) un “capo della tifoseria” sulle condizioni di un ferito e tifoso? Cos’è, adesso dipendiamo dalla bontà delle curve e dei loro energumeni? E nulla cambia la circostanza che, secondo la questura, la sparatoria intorno all’Olimpico, sia dipesa da “cause occasionali” (ma quali?).

LE RACCOMANDAZIONI VIOLATE

Questa follia degli eventi, che non ha risparmiato neanche i fischi all’inno d’Italia, è avvenuta proprio all’indomani dell’appello di Francesco. Ricevendo giocatori e dirigenti delle due squadre, il Papa aveva raccomandato loro “lo sport, prima di tutto”.

Ma ieri lo sport è stato sepolto dalla vergogna, dalla delinquenza, dall’impotenza.

Napoli-Fiorentina, la partita della vergogna -> Formiche.

Renzi cacci chi ha deciso di andare a parlare con Genny ‘a Carogna

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Questo commento è stato pubblicato oggi su La Gazzetta di Parma

Sembra un brutto film della grande commedia italiana. Invece non è cinema, e tutti l’hanno visto in tv. Sabato sera, finale di Coppa Italia nella capitale tra Fiorentina e Napoli. Poco prima dell’inizio della partita con notevole ritardo a causa degli scontri che erano scoppiati intorno all’Olimpico (dieci feriti, uno dei quali gravissimo), lo spaesato Marek Hamšík, capitano slovacco del Napoli, si dirige dal prato dello stadio verso la curva dei tifosi partenopei, scortato da diverse “Autorità”.

Quel capitano-mio capitano parlotta col cosiddetto capo degli ultras. Tale “Genny ‘a carogna”, e basta il soprannome. Ma se non bastasse, era sufficiente leggere la scritta sulla maglietta che l’uomo indossava. “Speziale libero”, diceva. Speziale è il “tifoso” del Catania che sta scontando otto anni di carcere per l’omicidio dell’ispettore di polizia Filippo Raciti il 2 febbraio 2007. Dunque, la Repubblica italiana in quel momento rappresentata da Hamšík con tutto il seguito delle Istituzioni al suo fianco, ha trattato con “Genny ‘a carogna” il proseguimento della finalissima. Per fortuna Genny era di buon umore. La notizia del ferimento di un tifoso napoletano a colpi di pistola sembrava meno grave di quanto fosse (la vittima, si accerterà molte ore dopo, è purtroppo in pericolo di vita). Così l’uomo che vorrebbe libero il condannato per Raciti, s’è seduto sul bordo della ringhiera di protezione e con gesti eloquenti delle mani, alzandole e abbassandole stile imperatore romano col pollice in alto al Colosseo, ha concesso che sì, che si poteva giocare. La Repubblica italiana ha potuto tirare un sospiro di sollievo.

Ora, se “Genny ‘ a carogna” fosse un nostro vicino di casa, nessuno di noi incoraggerebbe i propri figli a frequentarlo. Perché, allora, noi no, ma lo Stato sì? Come se David Cameron, premier d’Inghilterra, invitasse il leader degli hooligans a Downing Street per bere il tè delle cinque e decidere, insieme, l’agenda di football. Se in Gran Bretagna la delinquenza da stadio è stata estirpata, è perché i violenti sono finiti non in tribuna, ma in galera. L’unico luogo dove meritavano di stare.

L’irrisolto problema degli scontri per il calcio d’Italia non si affronta trattando, ma buttando fuori dalle curve chi inneggia alla violenza e spesso (Raciti insegna) la pratica. Solo ieri s’è scoperto che anche il presunto sparatore sarebbe, a sua volta, una testa calda della tifoseria romana. Tale “Gastone”. Era riuscito a bloccare il classico Roma-Lazio nel 2004. Pollice verso, all’epoca: Gastone non era di buon umore.

E poi Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio era in tribuna d’onore e perciò ha visto. Che aspetta, allora, a cacciare chi ha deciso di interloquire con chi non aveva alcun titolo morale né giuridico per essere la controparte di nulla? Non il calcio italiano, ma la Repubblica italiana, il cui inno è stato ignobilmente fischiato da quella brava gente, non può restare in balia di pochi facinorosi, che rovinano l’amore sportivo dei tanti. La festa tra i tifosi del Parma e della Samp gemellati con bandiere, canti e sorrisi, testimonia che un altro modo e mondo del calcio è possibile. L’altra faccia, la bella faccia di chi sogna, ancora e soltanto, di fare gol.

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Expo, il monito insito negli arresti

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Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Ventidue anni dopo, ma a volte ritornano. Riecco la nuova Tangentopoli in versione, si fa per dire, universale. L’Expo di Milano, straordinaria vetrina dell’Italia sul mondo a partire dal 2015, s’”inaugura” un anno prima con sette arresti, uno più clamoroso dell’altro. Si va dal direttore della pianificazione acquisti, Angelo Paris, a nomi già finiti a suo tempo nel ciclone di Mani Pulite, come Primo Greganti, il celebre “compagno G” dell’allora Pds, al non meno famoso Gianstefano Frigerio, democristiano di lungo e vecchio corso. Vien da chiedersi con amara ironia: “Ma dove eravamo rimasti?”.

La bufera giudiziaria colpisce una “cupola degli appalti” che mescola affari, imprenditori e politici. Le accuse degli inquirenti riguardano episodi legati all’evento internazionale, e vanno dalla corruzione alla turbativa d’asta. L’indagine accerterà, ma intanto l’effetto sui cittadini italiani e, temiamo, sull’opinione pubblica di tanti Paesi che esporranno a Milano, è devastante. E’ come se vent’anni di processi, di nuove leggi, di estenuanti dibattiti, di una politica che a furor di popolo e di magistrati è stata costretta a rinnovarsi, non siano serviti a niente.

D’improvviso torna quel consumato film in bianco e nero che pensavamo -o speravamo- fosse archiviato definitivamente. Torna l’idea che nell’oscurità e all’insaputa dei sempre più informati e perciò indignati cittadini, gli illeciti proseguano come ieri e più di ieri. Torna la sensazione che quell’addio senza rimpianti alle pratiche disoneste della cosiddetta prima Repubblica -come venne battezzata dai protagonisti della “seconda” che promettevano la svolta e per questo ebbero il consenso degli italiani-, sia stata solo una grande finzione. La moviola ci riporta a quell’epoca di manette e di mazzette, di conti e soldi che non tornano mai, di un andazzo che era “in voga” in troppi e da troppo tempo. Ma che, da quel 17 febbraio 1992, con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio non sarebbe stato più tollerato. E allora s’aprì la corsa dei partiti a “voltare pagina”. Ma oggi ripeschiamo i Greganti e i Frigerio, quasi il binomio di un passato che non passa.

C’è da augurarsi che quest’inchiesta possa servire anche da deterrente per evitare il peggio nei sei mesi dell’Expo, che richiamerà venti milioni di cittadini dall’estero. Che gli investigatori siano implacabili, oggi e sempre, nel buttare fuori in tempo il malcostume e qualunque rischio di criminalità da quella finestra italiana sul cortile del mondo.

Expo, il monito insito negli arresti -> Formiche.

Perché l’ascensore sociale non funziona più

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Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona

Sarà perché è più facile chiedere ai poveri che ai ricchi, come scriveva Anton Cechov: a volte la letteratura c’azzecca più della politica. Certo è che, archiviata da tempo l’utopia comunista con i suoi fallimenti sociali, oggi è molto semplice, paradossalmente, cogliere l’ingiustizia nelle diseguaglianze. L’ultima rilevazione e rivelazione del Censis aiuta a farlo in Italia: i dieci uomini più ricchi del Paese hanno un patrimonio corrispondente a quello di 500 mila famiglie operaie messe insieme. Il tesoretto è di 75 miliardi di euro.

L’aspirazione per una società più equa non passa attraverso l’idea di punire il capitale e chi l’accumula, bensì di creare le condizioni perché il maggior numero possibile di persone possa beneficiarne. Eppure, dieci Paperoni rispetto a cinquecentomila lavoratori che tirano la carretta senza speranza di poter un giorno – anche uno solo di loro! – diventare il Paperone numero undici, è qualcosa che fa molto male. Come se si accendesse una spia rossa per segnalare un guasto grave nel motore dell’economia. Perché, dunque, dagli anni del meraviglioso e contagioso boom (quel miracolo italiano che cinquant’anni fa diffuse un benessere di massa), le distanze fra chi ha moltissimo e chi ha pochissimo sono diventate, oggi, un abisso? Anche tralasciando la solita globalizzazione, che di colpo ha arricchito troppi e troppo nel settore finanziario senza la benché minima e tradizionale fatica del lavoro (e con le ricadute altrettanto repentine e disastrose delle “montagne di carta” sulle nostre pur solide economie), quel che è cambiato in modo profondo è il cosiddetto ascensore sociale.

L’Italia è piena di figli e soprattutto nipoti di contadini, di artigiani, di impiegati e lavoratori che vivevano ai minimi livelli di salario e massimi di sacrificio. Figli e nipoti che sono riusciti ad affermarsi. In passato i figli del ceto medio e basso non agiato avevano la possibilità, se bravi e perseveranti, di fare molta più strada dei loro onesti, ma sfortunati padri. Ora questa prospettiva di riscatto sociale e morale è diventata molto più difficile. I figli di quei dieci Paperoni non avranno problemi per formarsi nelle migliori e costose Università del pianeta. Per ricorrere all’assistenza sanitaria più all’avanguardia. Per usufruire di maggiori opportunità di lavoro e di svago ovunque. Buon per loro.

Ma ai figli dei cinquecentomila lavoratori il merito e la tenacia oggi non bastano più, a differenza di ieri, per un futuro migliore. Quel sostegno istituzionale e di protezione sociale che serviva per consentire a tutti di partire eguali e poi “vinca il migliore”, da tempo è malconcio, asservito a logiche clientelari e di potere, carissimo (ogni genitore sa bene quale sia il costo di un’Università pubblica in Italia), e perciò non aiuta più a fare la differenza fra chi ha già tutto in famiglia e chi deve invece guadagnarsi il pane partendo da zero o quasi. L’ascensore sociale non sale più. E’ fermo al primo piano di una politica rissosa, di una burocrazia ottusa, di una classe dirigente che, a ogni livello, poco si cura di “guardare al domani”.

E allora riscoprire il senso dello Stato significa provare a far ripartire l’ascensore. Per consentire ai più bravi o bisognosi, a prescindere dalla provenienza sociale, di sognare se non la ricchezza, che nella vita non è mai tutto, almeno un po’ di felicità.

Perché l’ascensore sociale non funziona più -> Formiche.

Obama e Mujica, così distanti eppure così vicini

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Questo commento è uscito oggi su l’Arena di Verona

Il presidente più potente del mondo ha incontrato il presidente più popolare del mondo. Casa Bianca, mattino di lunedì 12 maggio. Da una parte Barack Obama, l’alto e prestante nordamericano del “yes we can”, premio Nobel per la Pace nel 2009. Dall’altra José Mujica Cordano detto Pepe, il sudamericano basso e tarchiato che propugna la sobrietà al potere, già guerrigliero tupamaro incarcerato e torturato negli anni della dittatura militare in Uruguay. L’uno, 52 anni, rappresenta l’America del grande sogno, il comunicatore che “sa parlare” in patria e fuori.

L’altro, politico di 79 anni (li compirà martedì 20 maggio), è il simbolo dell’America che non ha trovato l’America, il comunicatore che dice pane al pane per farsi capire dalla sua gente. “La prima cosa che mi ha detto? Che i miei capelli si sono ingrigiti”, racconta il divertito Obama del suo implacabile interlocutore, che si è presentato, come al solito, senza cravatta. Entrambi molto amati e molto criticati. Barack per la sua incerta politica economica ed estera. Pepe per le sue controverse bizzarrie, come il sì alla legalizzazione della marijuana in Uruguay. Presidenti che piacciono, presidenti che dividono.

I giornali e siti d’ogni lingua hanno ribattezzato Mujica “il presidente più onesto del mondo”. Perché l’uomo ha rinunciato al novanta per cento dello stipendio di circa novemila euro al mese, devolvendone la notevole differenza ai bisognosi. E ha scelto di non abitare nel Palazzo, bensì nella modesta fattoria dove vive da anni coltivando agrumi e fiori con la moglie e senatrice Lucía Topolansky.

Due mondi così distanti e così vicini, due Americhe con tanta ricchezza e tanta povertà. Se Obama ha dimostrato che negli Stati Uniti nulla è precluso a chi ha il coraggio di osare, Mujica testimonia con l’esempio di saper “fare la cosa giusta”, interpretando una politica parca e parsimoniosa, com’è la vita delle persone comuni. Un messaggio semplice, ma destabilizzante nell’epoca dell’anti-politica, dei privilegi nelle istituzioni, degli scandali nei partiti e nei governi d’ogni continente. Da qui l’universale popolarità di cui gode Mujica per la sua condotta, che ha fatto incoronare l’Uruguay “il Paese dell’anno” dall’Economist nel 2013. Da qui la curiosità di Obama per questo Pepe pieno di pepe, che non le manda a dire ai potenti della Terra, e che li mette in imbarazzo vivendo con mille euro al mese. Più “rivoluzionario” oggi di ieri.

Obama e Mujica, così distanti eppure così vicini -> Formiche.

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