Quantcast
Channel: Formiche.net » Federico Guiglia
Viewing all 441 articles
Browse latest View live

L’epopea del Maracanà

0
0

Articolo pubblicato sul Messaggero

Prima di entrare in campo per sfidare, a casa loro, i calciatori più forti del mondo, Obdulio Varela, che era l’alto e corpulento capitano dell’Uruguay, si voltò per l’ultima volta verso i suoi compagni, e disse: “Ragazzi, qui siamo undici contro undici. Quei giapponesi che urlano là fuori, non contano”.

SALVARE L’ONORE DELL’URUGUAY

Per lui, che mai prima di quel giorno, il 16 luglio, aveva lasciato il suo Uruguay, e mai più dopo quel giorno l’avrebbe lasciato, “giapponesi” voleva dire “stranieri”. Ce l’aveva coi duecentomila brasiliani che già festeggiavano sugli spalti la cronaca di una vittoria annunciata. “Brasile campione del mondo!”, strillavano in prima pagina i quotidiani pronti in tipografia. Il discorso ufficiale era stato scritto per celebrare gli invincibili, e solo loro, a fine partita. “Perder por poco”, perdere di misura, era l’unica raccomandazione che i dirigenti uruguaiani facevano ai giocatori della Celeste. Salvare l’onore, ecco, della tradizione calcistica dell’Uruguay, vincitore del Mondiale nel 1930 dopo i due ori olimpici del ’24 e del ‘28.

L’EPOPEA DEL MARACANA’

Perciò, l’epopea del Maracaná, che per il Brasile rappresenterà la più dolorosa disfatta della sua storia (e la storia del Brasile è soprattutto storia di calcio), comincia con quell’atto ribelle e orgoglioso del “negro jefe”, il capo nero, come i “ragazzi” chiamavano Obdulio Varela con affetto e con rispetto, dandogli del Lei. Il capitano veniva dalla povertà. Non aveva finito la scuola dell’obbligo e aveva nove fratelli. Maglietta e ruolo da numero 5 in campo, per guadagnarsi la vita aveva fatto il muratore, il venditore di giornali per strada (“el canillita”, come dicono nella capitale Montevideo), e il pugile. Sul terreno di gioco comandava a gesti e a parole. Era “el negro jefe”, un vero capo dalla pelle scura come molti tra i talenti migliori, a cominciare dal più bravo dei bravi, Edson Arantes Do Nascimento, detto Pelé. Che per la fortuna dell’Uruguay, nel 1950, l’anno della leggenda, aveva nove anni. Eppure, neanche quel bambino ha dimenticato il “Maracanazo”, come fu battezzata in spagnolo la sconfitta dei più forti ad opera dei più agguerriti. La “garra”, la grinta uruguaiana è diventata, da allora, uno stile di gioco, l’identità della squadra che non molla un pallone, pur vestendo la maglia più delicata dell’universo: la Celeste, che a Maracaná, Rio de Janeiro, è il divino colore del cielo.

UNDICI CONTRO UNDICI

Ai padroni di casa, dunque, bastava un pareggio per sollevare la Coppa. E dopo due minuti del secondo tempo stavano addirittura vincendo 1 a 0. Ma Obdulio il capitano prese il pallone sottobraccio e andò a lamentarsi con l’arbitro per un’azione confusa. Non gli interessava l’impossibile annullamento del risultato, ma soltanto prendere tempo per far sbollire gli animi del popolo in estasi. E così il gioco riprese non più sull’onda della baraonda nelle tribune, ma “undici contro undici”. Come voleva il capitano.

ITALIA CONTRO BRASILE

E allora entrano in scena gli altri due miti dell’impresa, e attenzione Azzurri che affronterete l’Inghilterra proprio nel girone con l’Uruguay: forse c’è un insegnamento, per chi sogna la rivincita al Maracaná. Forse quella favola racconta qualcosa a chi può battersi quattro Mondiali contro cinque, Italia contro Brasile, chissà, l’ennesima finale delle finali tra le due Nazionali più titolate nella storia del calcio.

ONORE SALVO, MONDIALE PERSO

La prima lezione è firmata da Juan Alberto Schiaffino, detto Pepe, che al sessantaseiesimo pareggia. Pepe fu uno dei più grandi registi di sempre e indossò sia la maglia Celeste, sia l’Azzurra, giocando inoltre nella Roma e nel Milan. Un uruguaiano-italiano “che spense ogni nostra ambizione”, come dissero i brasiliani battuti e feriti. Tuttavia, col pareggio l’Uruguay salvava l’onore, ma perdeva il Mondiale.

L’ULTIMO SOPRAVVISSUTO

E perciò a dieci minuti dalla fine è il momento di Alcides Ghiggia, detto Chicco, un altro uruguaiano-italiano che giocherà per entrambe le Nazionali, “provando lo stesso orgoglio”. Ghiggia, che oggi ha ottantasette anni ed è l’ultimo sopravvissuto del Maracaná dopo aver giocato anche con la Roma, la rivive con semplicità: “Ho visto un buco nella porta e ho tirato lì”. Piccoletto e indomabile. Era l’ala destra di altri tempi che volava verso l’area avversaria e colpiva implacabile, come fece al Maracaná, ammutolendo lo stadio all’istante.

Il resto dell’epopea continua con Obdulio, il capitano che, nel dopo-partita, per festeggiare passa di bar in bar stando bene attento a non farsi riconoscere, e abbraccia i brasiliani affranti (per lui non erano più “giapponesi” che urlano, ma solo sudamericani che piangono).

UNA TRAGEDIA NAZIONALE

Per i brasiliani la vittoria che non venne, si trasformò in tragedia nazionale. “Quello è l’uomo che ha fatto perdere il Brasile”, dicevano i genitori ai figli, indicandolo col dito puntato, del povero portiere Barbosa, accusato di non aver saputo parare il gol immortale di Ghiggia. Furono cambiati per sempre i colori della maglia nazionale e, per anni, le guide hanno continuato a mostrare con sofferenza ai turisti in visita allo stadio la porta dell’uno-due Schiaffino-Ghiggia.

Ma Ghiggia rimette un po’ di verità nella leggenda: “Prima della finale li avevamo affrontati tre volte nell’ultimo mese e mezzo e anche battuti una volta. Non c’era una grande differenza fra noi. Ma noi li conoscevamo meglio di quanto loro conoscessero noi”.

LA PROFEZIA

Sessantaquattro anni dopo, è di nuovo Mondiale in Brasile. Ghiggia, Schiaffino e capitan Varela, gli artefici del Maracanazo, furono tre stelle del glorioso Peñarol di Montevideo, “la squadra sudamericana del ventesimo secolo” – com’è stata proclamata dalle autorità competenti- con un’antica e meravigliosa storia italiana fin dal nome, che discende da Pinerolo.

Ma questa è un’altra storia. Per ora basti la profezia del Maracaná: i grandi sogni non muoiono all’alba.

L’epopea del Maracanà -> Formiche.


Mose, ecco cosa fare per voltare pagina

0
0

Articolo pubblicato su Il Messaggero

Papa Francesco ha evocato l’Inferno per i corrotti e gli schiavisti. Pochi giorni fa il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, invocava l’”alto tradimento” per i politici corrotti. E adesso arriva un’altra bufera dalla Procura di Napoli, che nell’ambito di un’altra inchiesta per ipotesi di corruzione ha indagato il comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi (e arrestato il colonnello Fabio Massimo Mendella con l’accusa di concorso in concussione per induzione).

Ma per misurare lo sdegno degli italiani, bisogna partire dall’onda lunga. L’onda lunga dei trentacinque arresti in Laguna, a Venezia, che ha sommerso perfino quella della “cupola” coi suoi arresti all’Expo di Milano. E che da giorni ha lasciato un segno indelebile: nessuno è più disposto a tollerare che un eletto del popolo rubi il denaro del popolo.

In attesa che la magistratura accerti caso per caso e situazioni differenti tra loro, che si può fare, ora e subito, per voltare pagina? Forse al male estremo della corruzione dilagante si può rispondere con l’estremo rimedio: revocare o sospendere la cittadinanza italiana a quanti risultino condannati in via definitiva dalla magistratura per tangenti. Se rubi il mio denaro, cioè il denaro dello Stato che appartiene a tutti i cittadini, tu non sei più degno d’essere cittadino italiano. A meno che l’imputato restituisca il maltolto alla collettività, indichi i complici e le modalità delle mazzette e si tolga per sempre dalla vita pubblica e politica.

Se il corrotto merita l’Inferno, come dice il Papa, se il corrotto politico dev’essere indagato per “alto tradimento”, come ha detto Renzi, la revoca o sospensione della cittadinanza è quasi un atto dovuto. Significherebbe, oltretutto, che ciascuno di noi non è “italiano” a prescindere e qualunque cosa succeda, ma deve guadagnarsi ogni giorno questo meraviglioso diritto anche col dovere della rettitudine. Un dovere facile, peraltro: l’onestà è patrimonio comune, diffuso e condiviso a tutti i livelli sociali, anche se “esercitato” in silenzio e in solitudine. Nessuno si vanta di essere onesto: semplicemente lo è.

La cittadinanza, dunque, divenga non un valore bollato all’anagrafe, ma un valore civico e civile espresso nella vita. L’importante riforma della Costituzione all’esame del Parlamento può essere l’occasione per questa svolta mentale e culturale: italiani non si nasce soltanto, ma si diventa soprattutto. E così come la cittadinanza potrà essere tolta agli “alti traditori” di Stato si potrà, all’opposto, attribuirla a persone come Lokman e Saliou, bambini di nove anni d’origine rispettivamente marocchina e senegalese, che a Bergamo, come riportato del Corriere della Sera, hanno salvato un bimbo di cinque anni, Hatim, colpito da una scarica elettrica in un parco. La scuola pubblica ha insegnato loro che fare in una eventuale e simile disgrazia, e loro l’hanno fatto.

Come nell’essere probi, anche per aggiornare l’italianità della Costituzione basta poco. Basta prevedere che la cittadinanza italiana possa essere revocata, sospesa o, al contrario, attribuita secondo le modalità disposte da una legge successiva. Magari riconoscendo al presidente della Repubblica questa facoltà (che in parte ha già), allargandola, però, sulla base delle sentenze della magistratura nei casi di delittuosa corruzione, e dei comportamenti esemplari di tanta e bella gente che non ce l’ha ancora.
Ridefinire, allora, l’onere e l’onore d’essere italiani: persone perbene che non rubano, e che all’occorrenza sanno fare la cosa giusta.

Mose, ecco cosa fare per voltare pagina -> Formiche.

Orsoni e un sacchetto di verdure. Due pesi e due misure per la giustizia

0
0

Commento pubblicato ieri da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

C’è una giovane di ventisei anni, tale Maria N., che sta subendo un processo a Verona. Al momento di mettere sulla bilancia del supermercato il sacchetto con la verdura che aveva scelto, la ragazza l’avrebbe sollevato per ridurre il peso dello stesso e poter così risparmiare sull’acquisto. Ma la giovane è stata vista e fermata da un vigilante e, poiché la legge è uguale per tutti, è finita sul banco degli imputati. Dovrà rispondere di un guadagno che l’accusa considera illecito per la somma complessiva di ben 7,58 euro. Che Dio l’assista.

Poi non lontano da Verona, per la precisione a Venezia, c’è un sindaco di 67 anni, l’avvocato Giorgio Orsoni, indagato per finanziamento illecito nell’ambito dell’inchiesta colossale sul Mose: quell’onda lunga in Laguna che finora ha portato all’arresto di trentacinque persone. Lui, l’Orsoni, non era in carcere, ma ai domiciliari. Ha appena concordato un patteggiamento a quattro mesi e 15 mila euro di sanzione ed è di nuovo tornato uomo libero. Di più: è di nuovo tornato a fare il sindaco della sua Venezia, pur avendo concordato il patteggiamento e pur rimanendo indagato nell’inchiesta dello scandalo. “Non mi dimetto”, ha risposto a chi gli chiedeva lumi al riguardo. La legge è uguale per tutti e il prefetto, che nell’attesa degli eventi l’aveva sospeso dall’incarico, ora gliel’ha ridato: Orsoni è primo cittadino a tutti gli effetti. Non ha bisogno che Dio l’assista.

Naturalmente, le due vicende sono molto diverse tra loro. E solo la giustizia, che farà il suo corso, accerterà torti e ragioni delle parti in causa. Ma il punto non è la presunzione di innocenza per tutti, né l’obbligo degli investigatori di cercare la verità, qualunque essa sia. Qui non occorre attendere il verdetto di alcun tribunale per constatare quanto lo Stato riesca a essere inflessibile nel pretendere il pagamento di 7,58 euro e al contempo generoso nel consentire a un indagato che ha concordato di patteggiare quattro mesi e 15 mila euro di sanzione di proseguire la sua tranquilla navigazione istituzionale.

Se c’era bisogno di un esempio dei “due pesi e due misure”, temiamo di averlo appena trovato fra chi rischia la condanna per un po’ di verdura al supermercato e chi, avendo concordato il patteggiamento, e indagato, non rischia di perdere neanche l’alta poltrona che occupa.

Alla viglia del decreto-legge del governo per dare poteri al magistrato Raffaele Cantone contro gli scandali, Matteo Renzi intervenga con la severità che il buonsenso degli italiani, allibiti, esige.

 

Orsoni e un sacchetto di verdure. Due pesi e due misure per la giustizia -> Formiche.

C’eravamo tanto amati

0
0

Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Se la posta in gioco non fosse importante – dare una nuova legge elettorale all’Italia -, l’ultimo siparietto tra Matteo Renzi e Beppe Grillo per interposti parlamentari sarebbe perfino divertente. Il primo entra in scena e non la beve, cioè non si fida dell’improvviso e imprevisto abbraccio dei Cinque Stelle sulle riforme. E perciò pretende, come il notaio, risposte scritte dai suoi interlocutori. Gli dicano su quali e quanti punti concordano: altrimenti, che s’incontrano a fare? Ma anche i grillini giocano d’abilità sul palco, non volendo perdere la faccia né la partita con l’astuto presidente del Consiglio e leader del Pd. Noi non ci alziamo dal tavolo, fa sapere il pentastellato Luigi Di Maio, restituendo al mittente l’accusa di avere poche idee e confuse. Ed ecco che compare Grillo in persona e fa saltare tutto (non solo il già saltato incontro fra Pd e Stellati): “Una dittatura di sbruffoni”. Tiè, Renzi e Pd, la festa è finita. Siamo al “c’eravamo tanto amati”. Tutto scoppia ancor prima di sbocciare. Con colpo di scena e ripensamento finale: ma sì, dialoghiamo ancora, concede il Beppe un po’ meno furioso.

Succede, perché non è un mistero che la politica sia in subbuglio sulla grande riforma. Oltre al meccanismo elettorale su cui s’è consumata la baruffa, è il futuro del Senato che spacca in modo trasversale dal Pd a Forza Italia, provocando dissensi in tutti i partiti. E’ l’altra contrapposizione, e ben più profonda, che vede da un lato Renzi con la sua ansia del “qui si rinnova l’Italia o si muore”. Dall’altro lato un fronte composto sia dai conservatori gelosi di un ordinamento antiquato e spento -il bicameralismo perfetto nell’era supersonica e universale di internet-, sia da quanti vorrebbero, invece, cambiare sul serio le cose. Ma non col testo né coi modi spicci, da prendere o lasciare, suggeriti dal Rottamatore e dal suo governo.

E’ una brutta contrapposizione, perché c’è del vero in entrambi i campi. Spalleggiato dall’appello del Quirinale contro l’”inconcludenza”, Renzi fa bene a non mollare, come insegna la trentennale e fallimentare esperienza di chi, discutendo sempre e decidendo mai, ha perso tutti i treni che passavano per rinnovare l’Italia di stazione Bicamerale in Bicamerale. E così oggi siamo al capolinea.
Ma è altrettanto difficile sostenere che possa essere buona riforma quella che trasformerà il Senato in un dopolavoro gratuito per consiglieri regionali trombati e ripescati. Il tutto accompagnato da una legge elettorale che, per carità di patria, nessuno osi sottoporre al giudizio della Corte Costituzionale, bastando il parere di una matricola di giurisprudenza per esprimerne il misurato orrore.

Come spesso succede quando si mettono insieme interessi troppo diversi fra loro, il compromesso tra il fare e il disfare è peggiore del male che si vuol curare. In fondo basterebbe una riga per cambiare, evitando pasticci: “E’ abolito il Senato della Repubblica”. Così come non occorrerebbe un trattato di politologia per una legge elettorale decente. A meno che le parti in causa vogliano andare allo scontro in omaggio alla cinica saggezza: tutto cambi, affinché nulla cambi, e chi s’è visto, s’è visto. Con il solito arrivederci alle prossime elezioni.

C’eravamo tanto amati -> Formiche.

La politica si ispiri a Papa Francesco

0
0

Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Tutto comincia con tre donne e tre uomini senza nome e senza volto (per rispetto) che vengono da Germania, Irlanda e Gran Bretagna. Sono stati vittime di violenza sessuale in passato – un passato che per loro non passa – da parte di religiosi. Il Papa ha voluto riceverli e ha chiesto perdono per quel grave peccato (“anche di omissione”, ha precisato Francesco). E ha pronunciato parole contro i pedofili che di rado s’ascoltano e ancor meno si applicano in politica su tanti temi: “tolleranza zero”.

La nuova Chiesa del perdono e della tolleranza zero si schiera contro i crimini compiuti dai suoi stessi e indegni rappresentanti. Essi hanno tradito la fede dei credenti e la fiducia dei fedeli, specie se bambini. Gesti e pensieri inequivocabili del Papa venuto da lontano. Dal lungo incontro con le vittime di abusi, al messaggio nella poco usata madrelingua spagnola, quasi a voler dire che è convinzione personale dell’uomo Bergoglio e non solo visione pastorale del papa Francesco.

Ma non c’è da stupirsi. Pochi giorni fa lo stesso pontefice aveva scomunicato i mafiosi. “Abbiamo aspettato un secolo e mezzo che un Papa lo facesse”, ha sottolineato il magistrato Nicola Gratteri, tra i più esperti nella lotta alla ‘ndrangheta. Questa scomunica ha reso indecente, durante una processione, l’inchino a cui è stata costretta una Madonna davanti alla casa di un boss di paese ed ergastolano.

In neanche un anno e mezzo, dall’insediamento di Bergoglio in Vaticano, è successo quel che molti, in Calabria e altrove, mai avrebbero immaginato. Ormai sul carro di Francesco sono saltati tutti. Ma non tutti hanno colto l’importanza del cambiamento: e ogni riferimento ai politici è voluto. A volte le parole giuste al momento giusto hanno più forza del vento. Ma gli esempi e la coerenza dei comportamenti alimentano un ciclone. Chi predica bene e razzola bene, sarà sempre più credibile. Anche quando sbaglierà (neppure un Papa è infallibile).

Se la politica scomunicasse con gli atti e fatti i suoi corrotti e chiedesse scusa per gli errori compiuti, e vivesse con probità e coerenza, l’intera società civile ne trarrebbe enorme beneficio. Tolleranza zero anche in politica, forse l’unico miracolo che neanche Francesco riuscirebbe a compiere.

La politica si ispiri a Papa Francesco -> Formiche.

Se l’Expo vale più di un Mondiale di calcio

0
0

Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Il giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Vale più di un Mondiale di calcio, anche se la cadenza è quasi la stessa: si gioca un Expo ogni cinque anni. Ma a differenza del campionato internazionale fra le Nazionali, che tra le lacrime di molti e le gioie per uno solo dura trenta giorni di speranza, l’Esposizione universale va avanti per un semestre intero. E non prevede sconfitti, né dolori: o si vince o si vince. E’ una partita imperdibile.

Per questo la sfida che si aprirà a Milano il primo maggio del prossimo anno, è di importanza capitale. Sarà in ballo non soltanto il tema – che più attuale non si può – di come nutrire il pianeta, ma anche una certa idea dell’Italia agli occhi dei venti milioni di visitatori previsti. E quale effetto grandioso l’evento potrà produrre in tutto il globo. Il made in Italy che si mescola alla tecnologia, all’innovazione e alla creatività dei tanti Paesi partecipanti. Sarà la scommessa italiana più universale che si possa concepire. Una scommessa che non può, perciò, avere ombre né, tantomeno, macchie. Raffaele Cantone con la sua Autorità anti-corruzione è stato chiamato proprio per rendere l’appuntamento, di per sé bello, anche pulito. Irreprensibile. Ora il commissario straordinario annuncia che, d’intesa col Viminale, si prevedono le stesse e dure misure di prevenzione, per esempio nel settore degli appalti, che la legislazione già stabilisce per i mafiosi. Cacciare i corrotti prima che facciano del male, e punirli dopo che l’hanno fatto.

Ma la lezione “speciale” applicata all’Expo non deve restare un’eccezione d’impegno estivo. Deve diventare, al contrario, regola implacabile di comportamento tutto l’anno, quando girano molti soldi e tanti interlocutori a vario titolo interessati ai grandi avvenimenti. Dunque, prevenire in tempo per non rovinare questa grande festa di conoscenza e di confronto per l’Italia e per il pianeta. A volte basta poco per sporcare il cammino di lavori colossali, difficili da controllore in ogni loro passaggio. E’ bene che il magistrato Cantone vigili anche su quel poco: neanche una mela marcia deve poter spuntare in questo “campionato” che Milano promuove per la seconda volta dopo il lontano 1906 dedicato, allora, al tema dei trasporti.

Un’Autorità che punta a estirpare il crimine prima che si manifesti e infesti l’evento, sarà utile esperienza anche dopo l’Expo. Cacciare i corrotti e fare l’Esposizione al meglio sono i due obblighi a cui un grande Paese non può rinunciare, per vivere con l’onore e non solo con l’amore che il mondo già gli riconosce.

Se l’Expo vale più di un Mondiale di calcio -> Formiche.

Il risveglio di Berlusconi è una sveglia per Renzi

0
0

Viene in mente il Manzoni col suo celebre “s’ode a destra uno squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo”. Ma se dal Conte di Carmagnola, la prima tragedia del grande scrittore italiano, si vola alla politica dei giorni nostri, la metafora atterra fra il risveglio di Silvio Berlusconi e la sveglia che dovrebbe suonare dalle parti di Matteo Renzi, chiamato a reagire ben più che con un semplice “squillo”.

La piena assoluzione del Cavaliere in appello dai reati pesanti di cui era accusato, e per i quali era stato condannato in primo grado, ha riaperto una questione che il presidente del Consiglio più amato dagli italiani, o giù di lì, pareva aver sepolto con le sue rottamazioni approvate dal quaranta per cento degli elettori alle europee: la questione di un centro-destra fino a ieri diviso e sconfitto, ma che ora, con Silvio redivivo, vuole tornare a rappresentare quel che ha sempre rappresentato con sigle, nomi, formule e tempi diversi nella storia della Repubblica. Il punto di riferimento per due italiani su tre. Una bussola scombussolata da Renzi, che è riuscito a interpretare la novità più interessante della sua parte, il centrosinistra, raccogliendo inoltre la fiducia dei delusi del fronte opposto. Renzi è cresciuto in questo per lui felice equivoco. Tra un Pd che non vince e una Forza Italia e alleati che perdono. E’ cresciuto al punto da poter snobbare il terzo incomodo, Beppe Grillo.

Ma adesso il vuoto non sarà più così vuoto. Come anche le bellicose intenzioni del riconfermato Matteo Salvini alla guida della Lega testimoniano, l’intero schieramento avverso intende riorganizzarsi. All’insegna non solo di un Berlusconi con tanta voglia di rivincita, ma soprattutto delle debolezze imputabili, strada facendo, a Renzi e al suo governo che poco governa. Cominciando da una politica economica che nulla ha finora cambiato nella testa, nelle tasche e nella crisi degli italiani, per finire alla riforma del Senato all’esame del Senato. Una riforma che non sarà quella “svolta autoritaria” citata polemicamente e liquidata con durezza dal ministro Maria Elena Boschi (a sua volta contestata dai Cinque Stelle), ma che si presenta come un pasticcio inverecondo e lontano dal forte cambiamento reclamato dai cittadini.

Ma per mostrare che fa sul serio, Renzi, è costretto a portare a casa, e di corsa, il suo pasticcio. Eppure, gli effetti sui cittadini saranno pari a zero per molto tempo: quello che ci vorrà per approvare tale riforma in Parlamento. In compenso, gli effetti pratici di un’economia che langue si sentono ogni giorno. Lavoro, produzione, esportazione, ecco le “riforme” che contano. Specie sotto il semestre europeo presieduto dall’Italia, e che già ha collezionato l’autogol di voler imporre una “matricola” -Federica Mogherini-, alla guida della diplomazia europea.

Si dirà: il quasi settantottenne Berlusconi, a prescindere da qualunque giudizio su di lui e sui suoi governi, rispecchia il passato. E sul presente nessun’altra figura, da Alfano a Casini, da Fitto a Meloni, ha le sembianze di un Renzi all’incontrario. Ma così come Matteo è nato dal combinato disposto del vuoto fra il Pd e l’ex Pdl, un nuovo leader di centro-destra può sorgere dal vuoto di Renzi. “Vuoto” e non “voto”, anche se il primo porta, per reazione, al secondo.

Il risveglio di Berlusconi è una sveglia per Renzi -> Formiche.

L’immigrazione e le emergenze ignorate a Bruxelles

0
0

Articolo pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e BresciaOggi. 

Tre settimane e poche ore di presidenza italiana del semestre europeo sono poche per pretendere miracoli continentali da Matteo Renzi e dai ministri del suo (e nostro) governo. Ma bastano e avanzano perché il presidente del Consiglio, d’intesa col folto gruppo di eurodeputati italiani a Strasburgo -qualsiasi sia il loro partito di elezione-, ponga con determinazione la questione che scotta ai distratti interlocutori dell’Unione: come affrontare la tragedia universale dell’immigrazione che dal Sud del mondo, tramite l’Italia, cerca una speranza di vita nell’Europa che non c’è.

Ormai la cronaca degli sbarchi quotidiani a Lampedusa e vasti dintorni è la cronaca di tante morti annunciate. Offende la coscienza del mondo libero e ferisce il cuore degli italiani generosi constatare la nobile e disperata impotenza di “Mare Nostrum” a fronte di tanta e tale disperazione quotidiana. La nostra Marina e i numerosi operatori e volontari che si dedicano giorno e notte a salvare quanta più gente possano salvare, meriterebbero il premio Nobel per la pace. Che subito devolverebbero -ne siamo certi- a favore della loro benemerita operazione di soccorso e di conforto ai sofferenti, agli affamati, ai perseguitati di altre e spesso lontane e povere terre.

Ma questo meraviglioso e corale salvagente tricolore non può diventare un alibi, come lo è diventato, perché gli europei applaudano i soliti “bravi italiani” e, un minuto dopo, continuino a voltare la testa dall’altra parte. “Signornò!”, dovrebbe dire il presidente Renzi a ciascuno dei suoi ventisette e indifferenti colleghi dell’Unione. No che non potete più far finta di niente. Il Mediterraneo non è un piccolo e privato lago d’Italia. E’ l’immenso ponte d’acqua sognato e attraversato da persone che rischiano l’unica cosa che ancora hanno -la propria vita- pur di cambiare il loro destino.

Come in ogni emergenza ignorata dalle parti di Bruxelles, ora si prospetta anche la necessità di trasferire i migranti dal Mezzogiorno verso Comuni e Regioni che possano accoglierli altrove. Un umiliante giro d’Italia per tutti: per le persone sballottate senza mèta, per chi li assiste senza comprendere, per le istituzioni impreparate per gestire l’emergenza dell’emergenza. E poi: conterà qualcosa la volontà dei migranti? Se essi vogliono andare, per esempio, in Germania, perché negargli il diritto? Eppure, pensare che i soli tedeschi, così come i soli italiani, possano risolvere un dramma planetario, significa vivere su Marte. Ma ai marziani d’Europa adesso bisogna dire “basta!”.

L’immigrazione e le emergenze ignorate a Bruxelles -> Formiche.


Non ammazzate la famiglia

0
0

C’era una volta la famiglia in Italia. Anzi, c’è ancora, nonostante l’oblio a cui la politica la sta condannando. E non inganni il diluvio di parole che i partiti, specie in campagna elettorale, usano dedicare a quest’istituzione così antica e moderna. La esaltano sempre e giurano che le daranno tutti gli sgravi fiscali dell’universo. E che le costruiranno tutti gli asili-nido del pianeta. E che le faranno dare tutti i crediti e la fiducia finora negati dalle banche. E che la aiuteranno, la famiglia, a ricostruirsi e a rinnovarsi con tante norme semplici e ragionevoli. Ma passata la tempesta elettorale, resta il niente. Come se la ripresa economica non dipendesse proprio dalla capacità delle famiglie e dal loro spirito di osservazione e di condivisione, di impegno e di risparmio, di speranza per sé e per i giovani figli e nipoti. La dimenticata famiglia italiana è un pilastro perfino agli occhi degli stranieri. Dalla cinematografia alla letteratura ovunque nel mondo si riconosce quasi con affettuosa invidia il ruolo insostituibile della famiglia italiana. Mai tanto importante nell’epoca dei conflitti permanenti e violenti tra popoli e tra persone. Invece gli italiani sembrano “volersi bene”, è il messaggio percepito dagli altri. La famiglia, dunque, come punto di riferimento per la serenità e per quel po’ di felicità che riesce a sognare e donare, pur in tempo di crisi.

Solo i politici italiani, paradossalmente, riescono nell’impresa di ignorare in concreto, cioè sul piano legislativo, ciò che gli altri additano come modello. Il modello di una tradizione che un tempo si celebrava anche a tavola, col pranzo domenicale pieno di nonni, zie e cugini, e che oggi si rinnova in tante altre forme: il piacere dello stare insieme magari anche e solo parlando coi propri familiari ore al telefonino o su Skype, che annulla le distanze e le bollette. Legami forti e amorevoli di una famiglia che cambia, naturalmente. Una famiglia che spesso s’allarga ad altri e nuovi parenti acquisiti o perduti, riscoperti o “cancellati”, perché le circostanze della vita mutano anch’esse imprevedibilmente. Ma anche il più solo dei cittadini, anche la donna o l’uomo che più abbiano sofferto dal rapporto difficile coi genitori, competitivo coi fratelli, diffidente con i nuovi genitori arrivati “in aggiunta” dopo dolorose separazioni di quelli originari, tutti, insomma, sanno che c’è la tua famiglia pronta a darti conforto e aiuto nel momento del bisogno. E’ il tesoro più importante che abbiamo, sperperato dall’eterna politica che promette e non mantiene.

Non ammazzate la famiglia -> Formiche.

Morire per una bomba d’acqua

0
0

Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

E’ ancora il momento del dolore, ma già si sente il rumore della polemica. Morire per una bomba d’acqua, e mentre si partecipa a una festa, fa molto male, ovunque succeda e qualunque ne sia la causa. Per accertarla, ora la Procura indaga per disastro ambientale e omicidio colposo plurimo.

Ma in attesa di quanto potrà stabilire l’inchiesta, i quattro morti e cinque feriti nel Trevigiano dopo l’esondazione del torrente Lierza, nella notte di sabato scorso, ripropongono una questione che va al di là dell’aspetto giudiziario. Una questione più complessa persino della solita discussione sulla mancanza di prevenzione all’origine di tanti, troppi disastri sul nostro territorio. Dal Vajont in poi l’opinione pubblica è vaccinata. Più di quanto le stesse e molto attente, da allora, amministrazioni possano immaginare.

La cura non superficiale che tanti nutrono, oggi, per l’ambiente e un interesse generale e quasi quotidiano, da telefonino consultato in permanenza, per il “tempo che farà” nel posto in cui viviamo o andremo in vacanza testimoniano, nel loro piccolo, il grande cambiamento avvenuto. Siamo allo stesso tempo più informati degli eventi, e più consapevoli dei pericoli che discendono quando l’uomo pretende di impadronirsi della natura. Sappiamo che, di tutte le catastrofi, soltanto i terremoti sono imprevedibili, anche se ipotizzabili e non invincibili (basta costruire bene le case). E sappiamo che, salvo casi eccezionali, è difficile che soltanto la pioggia, per quanto abbondante, possa da sola provocare danni e lutti tanto irreparabili.

Gli ambientalisti già accusano gli “assalti ai territori” di questi anni, mentre il presidente della Regione, Luca Zaia, contesta l’eventuale responsabilità di troppi terrazzamenti di vigneti nella zona del disastro. Naturalmente, soltanto le indagini chiariranno. Ma guai se anche la bomba d’acqua diventasse un braccio di ferro ideologico tra persone, istituzioni e associazioni che dovrebbero stare tutti dalla stessa parte di verità e legalità. Niente sarebbe più triste e ingiusto che improvvisare una sorta di guerra del vino per partito preso o leso, con gli ecologisti che protestano per i loro allarmi inascoltati e con le amministrazioni che a loro volta negano eccessi di cementificazione o troppi vitigni nei posti sbagliati.

Qui non le opinioni, ma i fatti dovrebbero contare non solo per il lavoro investigativo in corso, ma soprattutto per la nuova coscienza che tanti italiani hanno acquisito di tempo in tempo, e di temporale in temporale.

Morire per una bomba d’acqua -> Formiche.

Cosa conta adesso per Matteo Renzi

0
0

Questo articolo è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Il conto alla rovescia è cominciato e il gioco si fa duro. In vista dell’8 agosto, il traguardo immaginato per l’eutanasia del Senato, chi non ci sta ora minaccia il tutto per il tutto contro il disegno di legge che a palazzo Madama archivierà il bicameralismo perfetto. Ma per lasciare il posto a che cosa, e in quanto tempo -trattandosi di modifica costituzionale-, in realtà ancora nessuno lo sa.

La riforma più importante, ma inafferrabile della Repubblica, che pur ne cambierà l’ordinamento istituzionale alla radice, viaggia, allora, tra mole di voti a raffica ed emendamenti inutili. Di poco fantasiosi insulti (“è una porcata”, tuonano i Cinque Stelle). Di diserzione dei lavori in aula per protesta. Ma anche di tanti e forti mal di pancia sofferti perfino tra i senatori della maggioranza proponente e marciante. Ormai l’imbarazzante e pasticciato contenuto del nuovo Senato che sorgerà dal vecchio, una sorta di mastodontico Consiglio regionale allargato e non eletto quale incredibile omaggio ai pessimi risultati finora ottenuti dalle Regioni, è passato in second’ordine.

Quel che adesso conta per Matteo Renzi e per il governo, che su questa riforma hanno scommesso buona parte della loro credibilità, è seppellire in fretta la Camera alta caduta in basso. Dunque, è una “maratona per la vita” quella che il presidente del Consiglio e il suo esecutivo stanno correndo in queste ore. Essi devono poter presto affermare che, dopo trent’anni di parole e svariate Bicamerali all’opera, la “grande riforma” l’hanno finalmente portata a casa, loro.

Ma, come succede quando a parlare è la politica, il decisionismo costituzionale è soltanto una parte della verità. Vero è che i cittadini sono stufi di una procedura legislativa anacronistica (le due Camere che fanno e si rimpallano le stesse cose come a ping-pong), e di una casta pagata a peso d’oro, e di privilegi di pochi subìti da tutti.

Ma l’8 agosto il Senato chiuderà solo per ferie. La vittoria di Renzi rischia di diventare l’ennesima vittoria di Pirro della politica nazionale non solo perché il ping-pong è necessario anche per abolire il ping-pong (e alla Camera già s’odono squilli di guerra, o almeno di tamburo), ma soprattutto perché nessuna riforma può riformare qualcosa in un’economia che stenta a ripartire. Dire agli italiani che i futuri cento senatori saranno senza stipendio in un Paese che non consuma, che mal compete, che lavora sempre meno, né vede risolto uno solo dei suoi atavici problemi, significa non avere il senso del contentino offerto. Il senso fra l’urgente e necessario (rilanciare l’economia) e un maquillage istituzionale per addetti ai lavori. Come la già vista e fantasmagorica “abolizione delle Province”, che si è tramutata in un elefantiaco e costoso rinnovo di funzioni e di nomi (“città metropolitane”, et voilà), in barba all’abolizione proclamata.

Poi arriverà anche la legge elettorale con tanto di incontro Renzi-Berlusconi. E il lavoro, l’economia, la produzione? Non adesso, per carità. “Odio l’estate”, si cantava un tempo, e si canta ancora.

Cosa conta adesso per Matteo Renzi -> Formiche.

Caro Renzi, la rondine del nuovo Senato non fa primavera

0
0

Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Non è una riforma che cambia il mondo, anche se manda in archivio il vecchio bicameralismo perfetto del potere legislativo. Non è una riforma che entra in vigore subito perché, trattandosi di modifica costituzionale, dovrà andare avanti e indietro, e a lungo, fra Camera e Senato. Inoltre è una riforma che si presta a molte critiche, alcune fondatissime, perché la novità che sorgerà dalle rovine di palazzo Madama, somiglia più a un ripiego regionalista, che non a un ammodernamento istituzionale della Repubblica. Ma pur con molti, solidi e trasversali “mah”, da ieri la prima e più complicata promessa di Matteo Renzi è stata mantenuta: onorevoli senatori, si cambia.

Essi diventeranno un terzo degli attuali, avranno funzioni diverse, non prenderanno un euro di stipendio e soprattutto non rifaranno quel che già faranno i deputati. E’ da trent’anni (prima commissione-Bozzi) che il Parlamento prova, invano, a rinnovare la Costituzione. E le uniche due volte che c’è riuscito, in un caso la sua riforma è stata bocciata dal popolo sovrano con referendum. Nell’altro ha creato un pasticcio di competenze fra Stato ed enti locali all’origine dell’urgente e necessaria riforma che ieri ha mosso il suo primo passo. A buon diritto, il presidente del Consiglio può dunque rivendicare di aver osato con successo quel “nuovo inizio” che ha visto fallire una Bicamerale dietro l’altra e una maggioranza dopo l’altra.

Ma dato a Matteo quel che è di Matteo, cioè la partenza di una riforma dal traguardo ancora lontano, restano all’orizzonte, e più vicine, altre priorità che meriterebbero la stessa dedizione. La “recessione tecnica” appena indicata dall’Istat e il monito di Mario Draghi che sferza l’Italia ad usare nei confronti dell’economia la stessa caparbietà che Renzi e il governo hanno dimostrato per rinnovare le istituzioni, stanno lì a testimoniarlo: non basta la rondine del Senato che fa harakiri, per annunciare che è arrivata primavera. Ben altre e più corpose riforme aspettano i cittadini per cose che più li riguardano e coinvolgono, e che passano tutte dal rilancio dell’economia.

Sapere che i cento senatori di domani non prenderanno una lira dalle nostre tasche consola poco, se l’Italia in cui viviamo nel frattempo non consuma, non produce, non esporta, non lavora nei termini in cui sarebbe fondamentale per stare al passo con gli altri e già ripartiti Paesi europei, e per infondere fiducia, che è il bene più prezioso. La riforma dell’economia che sarà, vale di più della riforma del Senato che fu.

Caro Renzi, la rondine del nuovo Senato non fa primavera -> Formiche.

La lezione degli scout di San Rossore

0
0

Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Nell’Italia in bilico fra crisi e rilancio, ma sempre alla ricerca di fiducia, anche dalla “marcia dei trentamila” può arrivare un segnale importante. Sono i giovani dall’inconfondibile camicia azzurra che, nel parco di San Rossore (Pisa), in queste ore stanno concludendo la Route Nazionale dei rover e delle scolte, rinnovando i valori antichi dello scoutismo. Valori semplici e perfino romantici, che possono far sorridere un tempo così cinico e complesso come il nostro.

Quant’è facile fare battute su lupetti e coccinelle e un modo forse un po’ antiquato di organizzarsi e di concepire il rapporto con gli altri: campi piantati su un prato per conoscersi e parlarsi per ore, quando basterebbe un clic su Facebook per scoprire l’identità di persone senza neppure doverle frequentare. Essere parte attiva di una comunità viva, il calore dell’insieme, ecco, anziché far ruotare il mondo attorno all’ombelico del proprio «Io» per arida via telematica.

È proprio l’idea che la vita vada vissuta sempre con sacrificio e con lealtà, e vissuta fin da piccoli, a rendere lo scoutismo italiano una risorsa per la società.
Dalla buona azione del boy scout che aiuta la vecchietta ad attraversare la strada -lo stereotipo-, il passaggio all’impegno concreto che tanti di questi giovani hanno dato e danno in molti modi alla società, magari affiancando associazioni come «Libera» di don Luigi Ciotti, è naturale.

In un certo senso un servizio civile e laico, quasi la prosecuzione con altri mezzi dell’«imparare facendo» che si insegna, e poi insegnano, esploratori e guide animate dal movimento cattolico. Principi indicati come il rispetto delle regole e l’amicizia disinteressata possono trasformarsi nel corso degli anni e delle circostanze in promozione sociale, in solidarietà non proclamata per farsi belli, ma esercitata per sentirsi meglio. Succede quando si ha la sensazione d’aver fatto qualcosa di buono per gli altri.

Ma forse delle diverse cose che i trentamila giovani riunitisi a San Rossore cercano di interpretare, è soprattutto l’idea della responsabilità -ciascuno con il suo piccolo compito e nel suo piccolo gruppo, a rendere maturo e paradossalmente innovativo lo scoutismo.
Nel vuoto generale di una politica e di istituzioni dove nessuno si prende «la grana» di decidere, e dove la colpa degli errori è sempre di qualcun altro, la prospettiva opposta che si può essere maturi, anche da bambini o da ragazzi, semplicemente facendo la cosa giusta al momento giusto, è un insegnamento fondamentale. Per la persona e per il cittadino che ognuno di loro sarà, ma anche per tutta la comunità in cui vivranno e saranno chiamati ad operare.

Qualcuno potrebbe dire che l’ex boy scout Matteo Renzi abbia preso da qui (e non dall’ambiente politico in cui è cresciuto), questa insolita propensione per un leader di partito e presidente del Consiglio a decidere comunque, come ha appena fatto portando a casa la pur discussa riforma del Senato.
Del resto, solo chi non decide, si sa, non sbaglia. Ma sbagliare è un atto di maturità. Vuol dire assumersi una responsabilità e farla valere, a costo di restare soli o di perdere la sfida. E allora anche i giovani scout in cammino possono contribuire a rendere l’Italia un po’ più adulta. E più capace di osare, come invita a fare la «Carta del coraggio», elaborata dai giovani rover e scolte in questi giorni di incontro nazionale.

La lezione degli scout di San Rossore -> Formiche.

La ricetta di Renzi e Conte per sbloccare l’Italia

0
0

Questo commento è stato pubblicato su La Gazzetta di Parma

Matteo Renzi ha confermato che presto, il prossimo 29 agosto, presenterà il cosiddetto sblocca-Italia per rilanciare l’economia. L’ha fatto col solito tweet, proprio mentre Antonio Conte presentava le sue prime idee per rimettere la Nazionale in cammino nella conferenza-stampa d’esordio da nuovo allenatore. Calcio e politica, mondi distinti e distanti. Tuttavia, entrambi accomunati dalla necessità di una scossa per la quale Renzi e Conte hanno un po’ il ruolo, o almeno l’aureola, da salvatori della patria. Poi sappiamo che un uomo solo al comando non risolve un bel niente, se la sua azione non è accompagnata da una buona squadra e, soprattutto, se il salvatore non ha un progetto in testa, la volontà di condividerlo, la forza di realizzarlo.

Nel caso di Conte, chiamato a suon di milioni (quattro e oltre) a far dimenticare in fretta l’ingloriosa disfatta dei quattro volte campioni del mondo in Brasile, la scelta dei giocatori sarà decisiva per il gioco. A Renzi, invece, accade l’esatto contrario: poiché il gioco s’è già fatto duro, lui deve decidere dove e come calciare. Pressione fiscale al 44 per cento, il massimo, ma entrate in lieve calo dello 0,4: neanche il limone tutto spremuto basta più per condire la macedonia. Moltissimi contribuenti tartassati hanno chiesto di pagare le imposte dovute a rate. Una specie di amarissimo -a proposito di limone-, “mutuo per il fisco” che mai s’era visto in precedenza.

E poi c’è la quotidiana cronaca nera: il lavoro che manca, la produzione che arranca, le esportazioni che frenano anche per l’embargo europeo decretato alla (e, per reazione, dalla) Russia. La circostanza che Francia e Germania non ridano più, poco consola. E che i francesi abbiano già detto che, per uscire dalla crisi, non rispetteranno quei parametri a cui noi invece eroicamente continuiamo a proclamare fedeltà, testimonia solo che ci sono tanti modi per essere europei. Quello nostro, di immolarci per la cattiva coscienza dell’enorme debito pubblico accumulato e delle notevoli riforme promesse e non mantenute, non appare il più giusto né lungimirante.

Renzi, dunque, va alla prova generale del generale Agosto per ora solo annunciando le buone intenzioni del medico al cospetto del paziente-Italia. Ma troppe volte troppi decreti-legge di governi che dovevano, anch’essi, trovare il rimedio alla patologia, si sono rivelati aspirine.

Tutti sanno, ormai, di che cosa soffra la nazione: non cresce e non crede. E’ imbrigliata dalle tasse, è imbrogliata dalle spese. Come Antonio Conte, ma più di lui, l’allenatore del governo, Matteo Renzi, deve ora mostrare il coraggio di uno “sblocca-Italia” che non sia l’ennesimo brodino per riscaldare questa o quella fetta di elettori.
Senza un radicale taglio delle tasse, specie nel lavoro, senza un drastico abbattimento dei costi -oltre che dei privilegi di casta-, senza trovare una via equa nel tempo tra pensioni da fame e pensioni d’oro, il 29 agosto manderemo giù la solita aspirina.

In attesa del solito antibiotico della successiva manovra d’autunno. Ma qui serve una cura d’urto e ricostituente. Renzi ne sarà capace?

La ricetta di Renzi e Conte per sbloccare l’Italia -> Formiche.

Il crollo dell’università italiana nel mondo

0
0

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza, Bresciaoggi

È la più antica Università d’Europa. Gloriosa e universale, ma è finita soltanto al posto numero 150 della classifica nel mondo. Dove, a fare la parte del leone con una cinquantina di presenze, sono le istituzioni americane, e si poteva immaginarlo. Inimmaginabile, invece, è che la “nostra” Università di Bologna sia così indietro, pur essendo la migliore fra le italiane prese in considerazione, secondo i parametri di una ricerca internazionale promossa nel lontano Giappone. È un Paese nel quale l’amore per la nostra cultura, dall’opera lirica alla storia dell’arte (della Primavera di Botticelli esposta a Tokio anni fa, ancora oggi si parla), è enorme, a prova del tempo.

Dunque, se anche agli occhi di un popolo che stravede per noi risultiamo poco attrattivi proprio nel campo della formazione e del sapere, forse qualche ragione ci sarà. La principale risiede nell’assoluta mancanza di visione e di programmazione che, da troppi anni, un governo dopo l’altro hanno dedicato al sistema scolastico in Italia, del quale l’Università rappresenta il suggello nazionale e la vetrina internazionale. Nel primo caso e nonostante la cronica assenza di tutto (dai laboratori degni alla carta igienica nei bagni, e non è una frase fatta), la trasmissione della conoscenza ancora funziona. E funziona a un livello alto, come testimoniano, paradossalmente, i tanti cervelli che fuggono e che si affermano ovunque nel mondo.

Ma se la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento tiene, in barba a un sistema generale dove il criterio del merito è mortificato da pratiche borboniche e baronali, il profilo internazionale dell’Università italiana ne risente. Abbiamo tra le più basse frequenze di studenti stranieri, compensate, si fa per dire, dalla più vecchia classe docente per età. Mancano, quindi, il confronto e il ricambio, che sono il sale e il pepe del far bene anche nell’istruzione.

E poi con una riforma dopo l’altra i ministri si sono limitati a cambiare, quasi sempre peggiorandola, la pura e semplice forma organizzativa: l’ordinamento del cosiddetto “tre più due” ne è prova lampante. Lo sanno tutti che dopo tre anni è difficile considerarsi buoni ingegneri, senza ulteriore specialistica. E così torniamo ai cinque anni di una volta. Forma, ecco, non sostanza. Ma all’estero cercano la sostanza.

Purtroppo la politica vive di facciata anche all’Università. Invece che pochi e ben valorizzati poli di eccellenza, pullulano sedi universitarie dappertutto. Di nuovo regna la logica clientelare della politica, invece che lo stimolo per i bravi professori e i valenti studenti che ancora non si sono arresi.

Il crollo dell’università italiana nel mondo -> Formiche.


Ma il Pil della criminalità è anche il Pil della felicità?

0
0

Commento pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

C’era una volta il Far West. Si parla dei fuorilegge che dettavano legge in varie attività criminali in Europa. Ma adesso il Far West non c’è più. Finito. Perché chi avrebbe dovuto fronteggiarlo, ha invece scoperto che anche le attività illegali contribuiscono alla ricchezza di un Paese. E allora tanto vale prevederle, almeno quando si tirano le somme del celebre pil, il prodotto interno lordo. Così hanno stabilito quei cervelloni che governano l’Unione dei ventotto da Bruxelles, e grazie ai quali d’ora in poi l’Italia dovrà o potrà considerare anche le voci “droga”, “prostituzione” e “contrabbando” per indicare il valore totale di beni e servizi resi, e dunque il peso della propria macroeconomia di anno in anno. Lecito e illecito si daranno teneramente la mano per alzare il reddito nazionale.

Storia vecchia, si sa. “Pecunia non olet”, dicevano già i Latini, gente di mondo per la quale il denaro “non profumava”, appunto, perché in fondo era solo denaro. Duemila anni dopo, non potendo sradicare dal continente, Penisola compresa, le attività illegali e fiorenti, tanto vale fotografarle e prenderle, economicamente, in considerazione.

Per carità, polizie e magistrature continueranno a perseguire delinquenti e imbroglioni. La caccia al ladro non si ferma. Ma intanto la cifra del loro e per loro proficuo giro d’affari sarà conteggiata col puntiglio del ragioniere, anzi, della Ragioneria dello Stato. Secondo i primi calcoli il conto sommerso dei senza legge oscillerebbe fra i 30 e i 35 miliardi di euro. Non proprio bruscolini. Anche se la ricchezza autentica e non calcolata delle famiglie italiane è quella del risparmio sudato, dei beni condivisi di padre e madre in figli, dei redditi prodotti col lavoro.

Ma questa fetta di economia invisibile eppur potente, questa spina dorsale frutto di fatica onesta e trasmessa di generazione in generazione, non fa numeri né percentuali: li farà, invece, il mercato oscuro della droga, della prostituzione, di tutto quel che diciamo ai nostri figli di non fare, perché ancora sappiamo distinguere il bene dal male. Li farà -novità positiva- la ricerca: ma sapremo approfittarne con gli investimenti ridicoli che le dedichiamo?

Da tempo si discute di come aggiornare i criteri per determinare il pil, cioè il ritratto del benessere di un Paese. Un dibattito importante, nel quale è entrato anche il tema della felicità, ricchezza suprema.
Ma dalla felicità alla criminalità siamo scesi decisamente in basso.

Ma il Pil della criminalità è anche il Pil della felicità? -> Formiche.

La scuola è quel che sarà l’Italia

0
0

Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

“Sarà una grande sorpresa”, sono state le sue ultime parole famose al riguardo, e molti si domandano quale nuova scuola abbia in testa Matteo Renzi, ora che s’avvicina il Consiglio dei ministri di venerdì con le linee-guida dell’annunciata riforma. Neanche le prime anticipazioni sui principi già da tutti afferrati in materia, cioè che il governo intende puntare a valorizzare il merito e a risolvere il problema del precariato, aiutano a capire la svolta promessa. Da troppi anni il ministro dell’Istruzione di turno impegna il proprio esecutivo in ambiziosi cambiamenti dell’ordinamento scolastico che poi si rivelano, nel migliore dei casi, irrilevanti. Nel peggiore, catastrofici, così che i governi successivi devono correre ai ripari degli errori commessi dai governi precedenti, e il circo della “riforma della scuola” va avanti col suo spettacolo già visto per essere, ancora, creduto e applaudito.

Neppure l’assicurazione di Renzi sul “cambieremo l’Italia”, può bastare perché i cittadini, i quali sono stati tutti studenti, e poi padri di studenti e poi nonni di studenti e perciò hanno il diritto alla massima voce in capitolo, s’accontentano dei buoni propositi. E la gente si chiede come possano i governi prestare alla scuola un’attenzione inversamente proporzionale ai risultati prodotti per aggiornarla ai tempi e alle esigenze di una società più ricca di stimoli e più fragile di punti cardinali. Dopo la famiglia -ma a volte anche prima-, la scuola è la maestra delle nostre vite. Sui banchi impariamo a impegnarci. Scopriamo l’importanza dello stare insieme. Apprendiamo materie che ci piacciono e che detestiamo, luci e ombre che mai più ci abbandoneranno. Amicizie e amori, saperi e regole, educazione e divertimento, sport e “sogni da grande”: tutto si svolge nei cicli d’insegnamento che ogni governo giura di voler migliorare.

Ora Renzi scommette sul merito, che è il miglior alleato dell’uguaglianza. Incentivare la bravura che ogni alunno ha dentro di sé, e che ogni buon professore sa riconoscere e valorizzare, significa dare l’esempio per la vita: chiunque può farcela, se si applica. Significa sradicare la mentalità della raccomandazione, che rende arretrata la società progredita. Significa consentire ai figli di un Dio minore o povero o straniero di stare alla pari coi figli di papà. Il criterio del merito è la cosa più rivoluzionaria, perché egualitaria, che un governo possa sostenere dall’asilo all’Università. Bravi studenti oggi diventeranno bravi italiani domani: la scuola è quel che sarà l’Italia.

La scuola è quel che sarà l’Italia -> Formiche.

Dov’è la Vittoria

0
0

Questo articolo è uscito giorni fa su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Per la distratta stampa nazionale la cerimonia è passata sotto silenzio, nonostante la presenza importante di un ministro – Dario Franceschini, titolare dei Beni Culturali – e quella imponente del simbolo “riscoperto”: il Monumento alla Vittoria. Ma il 21 luglio scorso con l’inaugurazione del percorso museale allestito accanto alla restaurata cripta del monumento, è finalmente caduto il “muro di Bolzano”. E’ caduto quel muro invisibile e anacronistico di diffidenza e contrapposizione etnica che, negli anni, non aveva risparmiato neppure l’emblema monumentale sorto nel capoluogo dell’Alto Adige, e a lungo consacrato come luogo-simbolo per onorare la memoria dei Caduti e celebrare la Vittoria dell’Italia nella prima Guerra Mondiale.

Era sempre di luglio, un 12, quando nel 1928 il monumento, progettato da Marcello Piacentini, ebbe il suo battesimo. Ottantasei anni dopo, si chiude il cerchio della storia, consegnandola alla normalità della vita quotidiana. E si chiude nell’anno in cui l’Europa sta ricordando ovunque con mostre e celebrazioni i cent’anni dell’inizio della Grande Guerra. Dalla terra di frontiera arriva un segnale forte e bello di riconciliazione col proprio futuro, prima ancora che col proprio passato fonte di tante e assurde divisioni.

Quel che nessun governo della Repubblica aveva finora osato, cioè provare a trasformare il monumento in un momento di vita reale e condivisa fra le comunità di lingua italiana, tedesca e ladina, lo hanno fatto con serenità e intelligenza due persone allergiche all’ideologia: l’architetto Ugo Soragni, direttore regionale dei Beni culturali e paesaggistici del Veneto, tra i massimi conoscitori della storia urbanistica del monumento, a cui ha dedicato anche un prezioso volume ventun anni fa. E Arno Kompatscher, che sembra incarnare la più interessante novità di leadership finora espressa dalla Svp, il partito più votato dalla comunità alto-atesina di lingua tedesca. Quarantatré anni, Kompatscher guida la Provincia che fu di Durnwalder, a cui si deve l’avvio dell’iniziativa.

Il giovane Arno sembra evocare la nuova frontiera della politica. Ha studiato giurisprudenza fra Innsbruck e Padova. Ha fatto il fabbro nell’azienda paterna per mantenersi agli studi, e l’alpino tra Brunico e Merano per assolvere il servizio militare. Crede nell’autonomia e nella famiglia: è padre di sei figli. Questa biografia non poteva restare prigioniera dei fantasmi di ieri.

Fra l’uno e l’altro, fra l’architetto dello Stato e il politico della Provincia sono stati prima messi in piedi comitati di studiosi per preparare il racconto, a più mani, di quel che è successo nel periodo tra le due guerre. Un racconto che accompagna il percorso del visitatore fra sedici saloni di immagini e parole, affreschi riportati a nuovo e filmati d’epoca dell’Istituto Luce mai visti. “Bolzano ’18-’45, un monumento, una città, due dittature”, dice l’anello luminoso e introduttivo attorno a una delle colonne: il fascismo e il nazismo nelle vicende dell’Alto Adige. Poi sono stati coinvolti, anche finanziariamente, gli enti che si affacciano sul monumento, a cominciare dal Comune. E così il simbolo è stato avvicinato con naturalezza ai residenti e ai turisti con scritte in italiano, tedesco e inglese. Senza nulla nascondere. “Servono il dialogo e la trasmissione di questa conoscenza storica, perché -recita un modo di dire tedesco- “Wenn man’s nicht weiss, kann man’s nicht sehen”, quello che non si sa, non si riesce a vedere”, ha sottolineato il giovane Kompatscher all’inaugurazione. Primo giorno già 3.500 persone d’ogni lingua. Come se gli alto-atesini avessero fatto pace non solo tra loro, ma anche in nome dei loro nonni su opposte trincee.

Un po’ di storia. Voluto da Mussolini e con la posa della prima pietra nel 1926 alla presenza di Re Vittorio Emanuele III, il monumento ebbe i fondi da una pubblica e popolare sottoscrizione. Costo dell’opera 3.700.000 lire dell’epoca (e avanzarono soldi). Ad essa contribuirono artisti del calibro di Pietro Canonica, Arturo Dazzi, Guido Cadorin, Libero Andreotti, Giovanni Prini e Adolfo Wildt. Non mancarono polemiche fin dall’origine. Lo stile dell’arco trionfale ottocentesco scelto da Piacentini fu criticato dai futuristi, “perché lontano dalla modernità agile, dinamica (…) dove tutto dovrebbe essere coraggioso”. Ma per troppo tempo il Monumento alla Vittoria è stato volutamente frainteso e strumentalizzato anche nel dopoguerra: si prestava in modo perfetto al braccio di ferro fra politici “italiani” e “tedeschi”, specie a destra e soprattutto in campagna elettorale. Paradossalmente, più passavano gli anni e ci si allontanava dal periodo mussoliniano dell’impronta, più il monumento diventava “fascista” agli occhi di chi lo contestava per partito preso. Anche se le istituzioni democratiche e le autorità civili e militari ogni 4 novembre vi portavano una corona di fiori per i Caduti. Finché la pilatesca politica ha abolito i fiori.

Oggi l’Alto Adige riscopre e si riconcilia con un monumento nazionale che da quasi novant’anni vive guardando le Dolomiti. Le polemiche di chi “non riesce a vedere”, mai finiranno. Ma la svolta è grande almeno quanto la Vittoria.

Dov’è la Vittoria -> Formiche.

Ecco la favola scolastica di Renzi

0
0

Non mancava niente alla cronaca di una riforma annunciata. C’era, per cominciare, l’artefice e narratore Matteo Renzi, che con un video racconta la “Buona Scuola”. C’erano 126 pagine (più allegati) messi in rete per descrivere le molte novità. Tra le quali figurano la fine dell’eterno precariato con 150 mila assunzioni. E poi il riconoscimento del merito, con aumenti di stipendio ai professori che saranno giudicati i più bravi. E pure la valorizzazione di materie trascurate o ignorate, come la storia dell’arte, la musica, lo sport. C’era, infine, un bagno di modernità, con l’introduzione di tecnologie ovunque e la promozione dello studio dell’inglese con maggiore serietà rispetto all’oggi. Se anche allo studio della lingua italiana sarà dedicato un po’ più di zelo e di impegno, la rivoluzione potrà dirsi completa.

Ma non chiamatela “riforma” della scuola: è molto di più. E’ un “patto educativo”, come l’ha da poco battezzato il presidente del Consiglio, tanti e tali sono i cambiamenti mai visti fin dai tempi (forse) della lontana, ma concreta riforma-Gentile.

Ecco a voi la bellissima scuola che non c’è. Perché merito e precariato, musica e arte, inglese, internet, e l’auspicabile italiano, insomma tutto quanto l’appena accennato, è solo un racconto. Un grande e incompiuto racconto a cui gli stessi italiani potranno aggiungere il loro capitolo personale. Essi avranno due mesi di tempo per romanzare sul web, perché la Scuola è dei cittadini, mica appartiene al governo. E neppure appartiene al ministro dell’Istruzione, nel caso Stefania Giannini, che giura di “camminare insieme” con Renzi in questa straordinaria avventura. Che per ora somiglia molto a una favola.

Una bella favola, intendiamoci, piena di buoni propositi e frutto di una visione che mai i governi avevano dimostrato in precedenza. Ognuno dei quali si limitava a modifiche parziali e quasi sempre peggiorative dell’istituzione scolastica, per esempio togliendo e rimettendo il maestro unico alle elementari come se fosse un prodotto da supermercato. Era la pedagogia di maggioranze politiche che decretavano la propria ideologia in nome del popolo italiano.

Invece adesso non si decreta né si legifera: si racconta. Adesso s’aspetta di ascoltare la voce dei cittadini, prima di decidere. Di decidere anche dove si troveranno le risorse, nell’epoca degli stipendi bloccati per gli statali e della “più Tares per tutti”, per dar corso alla buona novella: qualcosa come nove miliardi per i prossimi tre anni.

Sono dettagli e quisquilie? E’ la solita ricerca del pelo nell’uovo, che per troppi anni ha reso immobile la politica prima dello scossone di Renzi coi suoi mille giorni di attività programmata? (e mille asili già da lui promessi, a proposito di scuola). E’ troppo chiedere di non scambiare un’intenzione, pur encomiabile, per una svolta allo stato inesistente?

Non il web, i video, le diapositive, i tweet e tutto quanto fa comunicazione, ma è la Gazzetta Ufficiale della Repubblica, dove si pubblicano le leggi dello Stato, a dare l’unica assicurazione ai cittadini che i patti educativi esistono anche nella realtà.

Ecco la favola scolastica di Renzi -> Formiche.

Referendum in Scozia, un passo verso l’Europa dei muri e del provincialismo

0
0

Commento pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Già nella sua parte orientale e più distante l’Europa è alle prese col conflitto, militare ed economico, fra Russia e Ucraina. Se poi sul versante occidentale del continente, cioè nel giardino di casa, l’antica Gran Bretagna si spacca, vien da chiedersi che senso potrà ancora avere la conquista più grande dei settant’anni di pace. Una conquista che ha una parola precisa per essere evocata e definita: unione.

Unione europea, com’è diventata l’Europa dei ventotto Paesi, ormai. I quali si sono lasciati ogni rancore o recriminazione alle spalle per stringersi la mano e cercare di vivere insieme e al meglio. Un futuro da amici o da alleati, al posto del passato da nemici o separati in casa. E’ la più importante rivoluzione della modernità: aver scoperto non solo che la guerra è orribile, ma che farla (o avallarla) porta solo altro male.
Ma la doccia scozzese sull’Inghilterra, questo pur democratico (ci mancherebbe!) referendum del distacco che vedrebbe i secessionisti in vantaggio, rischia d’avere un effetto esplosivo devastante, perché imprevedibile, su tutti i Paesi vicini e lontani.

Se dopo trecento anni di convivenza gli scozzesi diranno addio senza rimpianti, e oltretutto in un contesto benestante e pacifico con Londra che ha, inoltre, riconosciuto da tempo ampi poteri di auto-governo, che faranno, allora, i catalani in Spagna? E i corsi in Francia? E perfino i leghisti nel Nord Italia: torneranno mica a sognare la loro Padania? A quale invito di “far fronte comune” tra europei si potrà ricorrere -sull’economia, in politica estera, con l’Erasmus-, se neppure le nazioni europee sono capaci di restare unite? Non i muri, ma i ponti rappresentano la svolta del nostro tempo. Giusto venticinque anni fa la Germania divisa, si riunificava.

Ora il Regno Unito -Unito, appunto-, rischia di dividersi: l’esatto contrario dell’intero processo europeo che a Berlino ha visto e vissuto il suo momento più libero e felice. Dividersi per ragioni fiscali, distruggere decenni di storia e di geografia per meri calcoli di potere, decidere di rompere tutto anche per le più nobili motivazioni culturali o linguistiche o di orgoglio nazionale, significa buttare nel cestino l’insegnamento che i grandi statisti -e i loro popoli- hanno dato dalle rovine dell’ultima, davvero ultima guerra mondiale.

Ogni nazione ha un suo De Gasperi nelle vene. Qualcuno che all’indomani della catastrofe ha detto: proviamo a fare l’opposto di quel che abbiamo fatto per secoli. Proviamo a camminare insieme, a condividere, a mescolare le nostre meravigliose diversità. Il referendum in Scozia è un passo verso l’Europa del provincialismo, che è la fine dell’Europa.

Referendum in Scozia, un passo verso l’Europa dei muri e del provincialismo -> Formiche.

Viewing all 441 articles
Browse latest View live




Latest Images