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L’amnistia non serve a risolvere il problema delle carceri

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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sull’Arena di Verona.

Da sessant’anni tondi il Parlamento crede di poter “aggiustare” l’indecenza di istituti vecchi, malfunzionanti e sovraffollati con provvedimenti libera-tutti: tredici amnistie a volte con o senza indulto sono state approvate dal 1953 a oggi.
Ma anche in politica non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Sentire il fallimento perfino dell’ultimo indulto accordato nel 2006 sull’onda della clemenza richiesta da Karol Wojtyla, il primo pontefice della storia che varcava la soglia di Montecitorio per rivolgersi a deputati e senatori riuniti in seduta congiunta per ascoltarlo.

Come finì quell’indulgenza parlamentare e plenaria? Per ricordarlo, basta leggere l’importante e onesto messaggio che il presidente della Repubblica ha inviato alle Camere. Nero su bianco, Giorgio Napolitano ha raccomandato al legislatore ulteriori misure amministrative e di reinserimento sociale “onde evitare il pericolo di una rilevante percentuale di ricaduta nel delitto da parte di condannati scarcerati per l’indulto, come risulta essere avvenuto in occasione della legge n.241 del 2006”. Non solo.

Prima di prospettare l’amnistia e l’indulto per rimediare all’ingiustizia e alla disumanità dei troppi detenuti in cella, il capo dello Stato elenca ben sette e diverse soluzioni possibili. Vanno dalla depenalizzazione di reati minori alla costruzione di nuove carceri, alla “messa alla prova” del condannato non necessariamente in galera, e così via. Ma così come l’indulto del 2006 fu determinato, certo, dalle condizioni già allora insopportabili dei nostri istituti di pena, e soprattutto dall’intervento eccezionale del Papa, anche stavolta c’è un’eccezione che spinge. L’eccezione si chiama Europa.

Se entro il 28 maggio 2014 lo Stato non interverrà per sanare la situazione, saremo condannati dalla Corte europea per una valanga di ricorsi già depositati o in arrivo. Dunque, il problema è come evitare i preannunciati e pesanti risarcimenti rischiando, inoltre, di passare agli occhi del mondo come il Paese che non solo viola i principi di “senso di umanità” e “rieducazione del condannato” inseriti nella sua stessa Costituzione (articolo 27), ma che conserva un sistema carcerario barbaro e umiliante. Oltre al danno, sarebbe la beffa, visto che il carcere da noi rappresenta l’ultimo stadio di un sistema penale e di procedura penale che brilla non per severità né durezza ma, al contrario, per la difficoltà di individuare, processare in tempo e punire con equità gli autori di reati e delitti.

Proprio l’impunità che regna sovrana, e che ogni volta è testimoniata con dati allarmanti alle cerimonie di apertura dell’anno giudiziario, dovrebbe indurre il Parlamento a non ricorrere al solito (e quattordicesimo) colpo di spugna. Otto mesi di tempo al 28 maggio 2014 sono più che sufficienti per far sorgere nuovi e moderni penitenziari. E poche settimane basterebbero per trasformare caserme dismesse in luoghi civili per condannati dopo ben tre gradi di giudizio – dunque non più “presunti innocenti” -, o in attesa di giudizio se accusati di gravi delitti.

La disparità di trattamento che c’è fra l’imputato super-garantito e la dimenticata vittima del reato o i suoi familiari, la totale mancanza di “certezza della pena” e il criterio del tutto disatteso del “chi sbaglia, paga”, dovrebbero scoraggiare il legislatore dall’approvare il perdono di Stato. “Il senso di umanità” e la “rieducazione del condannato” non c’entrano proprio niente col “tutti a casa”, dettato soltanto dall’incapacità della politica e dell’amministrazione pubblica di fare le cose per tempo e per bene.

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Ciò che la legge contro il negazionismo non può fare

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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sul quotidiano Il Tempo

Fino a pochi anni fa perfino i migliori vocabolari della lingua italiana riportavano -e alcuni ancora riportano- alla voce “foiba” soltanto il significato morfologico di “tipo di dolina costituita da un avvallamento imbutiforme sul fondo del quale si trova comunemente un inghiottitoio”. Così lo Zingarelli, edizione Zanichelli 2010. Che però aggiunge una seconda e più aggiornata spiegazione, dalla geografia alla storia: “Nel periodo dell’occupazione jugoslava di Trieste (maggio-giugno 1945), fosse comuni per le vittime di rappresaglie militari e assassinii politici.

Estensivamente: Il fenomeno degli eccidi e delle rappresaglie ad opera di partigiani comunisti jugoslavi nell’ultima fase della seconda Guerra mondiale e subito dopo”. Manca un dettaglio che non è un dettaglio: le vittime erano italiane con la sola “colpa” d’essere italiane. Ma la verità dei fatti pur taciuta o addirittura negata per decenni in Italia, oggi è diventata patrimonio comune e ufficiale. Ogni 10 febbraio una legge del 2004 celebra il “giorno del ricordo” in omaggio, tardivo ma importante, alle vittime istriane, giuliane e dalmate, almeno ventimila, della pulizia etnica anti-italiana. Postuma solidarietà anche ai trecentocinquantamila connazionali costretti a lasciare la terra in cui erano nati o vissuti per evitare persecuzioni e salvare la propria identità, e talvolta la propria stessa vita.

Il “giorno del ricordo”, significativamente agganciato all’anniversario del Trattato di pace che nel 1947 staccava dall’Italia territori italiani, si commemora a pochi giorni di distanza dal “giorno della memoria”, che ogni 27 gennaio ricorda al mondo le vittime del nazismo e dell’Olocausto. Una data, a sua volta associata al giorno della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, per mai dimenticare un crimine contro l’umanità che ha colpito sei milioni di ebrei nel cuore dell’Europa. La “Shoah”, che in lingua ebraica vuol dire catastrofe. Per citare di nuovo il dizionario, “lo sterminio degli ebrei a opera dei nazisti durante la seconda guerra mondiale”.

Esistono, dunque, delle verità così orribili che, chi non le ha vissute, ormai la maggior parte delle persone nate dopo, spesso domanda e si domanda: “Ma come è stato possibile?”. Per questo la storiografia e le testimonianze dei sopravvissuti ci hanno consegnato il dovere di continuare a raccontare e a ricercare, di discutere sempre e di tutto -guai se così non fosse-, ma non sorvolando o facendo finta di niente su quanto è stato accertato. Non si gioca col dolore delle persone né con gli orrori della storia. Sono eventi incancellabili. E ogni tentativo di minimizzarli o addirittura di negarli, dev’essere percepito come un’offesa non soltanto alla verità, ma alla stessa volontà di conoscenza che anima uomini e popoli.

Chi nega quei crimini di cui conosciamo nomi e cognomi sia delle vittime, sia dei carnefici, nega anche la nostra intelligenza. Nega quel diritto di sapere che è alla radice di ogni cultura. Nega il diritto dei giovani di chiedere ai padri e ai nonni “ma com’è potuto accadere?”. Ecco perché il testo contro il negazionismo, da poco approvato dalla commissione Giustizia del Senato, è un segnale incoraggiante di “buon civismo”. Chi nega i massacri avvenuti, violenta l’evidenza acclarata, aggiungendo altro dolore al dolore senza fine dei sopravvissuti e dei loro familiari. Il reato d’opinione non è un’opinione: è un reato. Altrimenti regnerebbe la diffamazione libera e gratuita. La libertà di parola, principio costituzionale non negoziabile, nulla ha da spartire con l’offesa, il vilipendio, l’insulto ai morti e ai vivi.

La nuova legge colpirà con pene aumentate della metà chi istiga o fa apologia “di delitti di terrorismo, crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra”. Lo stesso criterio riguarderà “chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità”. Dunque, in attesa del voto in aula al Senato e poi della Camera, la Shoah e la sua terribile unicità avranno, alla fine, un’importante tutela legislativa (dai cinque ai sette anni e mezzo di carcere per il condannato). Come avviene in quattordici nazioni. Ma tutela avrà pure la dimenticata tragedia delle foibe, termine che dal vocabolario ora entra anch’esso, moralmente, nel codice penale, essendo chiarissimi lo spirito e la lettera dell’emendamento approvato. Con questa legge la patria protegge la memoria, la sofferenza e il rispetto di tutti i suoi figli.

Al resto dovranno pensare gli storici, le scuole, le famiglie, tramandando il racconto dei crimini del Novecento di generazione in generazione. Perché il Male venga estirpato dal futuro, e mai cancellato dal ricordo.

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Su cosa Monti non sbaglia

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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma.

Niente sembra così instabile come la legge di stabilità da poco approvata. Ormai l’attaccano tutti, e i sindacati annunciano di marciarvi contro. Al punto tale che Enrico Letta, uomo mite, ha risposto con un temerario “bisogna saper dire di no” rivolto all’intero e vasto arco politico e sociale in fermento.

Ma che sia una manovra non esattamente rivoluzionaria né incisiva come avrebbe richiesto la situazione del Paese, lo vede chiunque. E il rischio, oltretutto, è che possa perfino peggiorare all’esame del Parlamento, dov’è triste prassi che ogni partito cerchi di infilare qualche costoso emendamento a beneficio del proprio elettorato, e chi se ne importa dell’interesse generale e nazionale. La crisi vale sempre e solo per “gli altri”.

Non è, allora, senza significato che Mario Monti, l’ex presidente del Consiglio a cui l’immaginario collettivo e gli italiani in carne e ossa associano una politica di austerità e sacrifici, abbia rovesciato il tavolo del suo stesso partito, dimettendosi da presidente di Scelta Civica. E soprattutto condendo la sua decisione con una salata polemica. Il Professore s’è l’è presa con la politica economica del governo, “succube del Pdl”, e anche con quanti, dal “suo” ministro Mario Mauro al “suo” alleato Pierferdinando Casini, stanno tramando nell’ombra per far rinascere una specie di Democrazia cristiana nel terzo millennio. Al costo – ha accusato il Monti furioso – di non pretendere dal centro-destra, cioè dall’interlocutore naturale di questa nuova Dc, di lasciare Silvio Berlusconi al suo amaro destino. Anzi, cercando di salvarlo al momento, in arrivo, di votare pro o contro la sua decadenza dal Senato della Repubblica.

Ira e ripicche personali a parte, sulla questione politica di fondo, che è l’evocato centro di gravità permanente, Monti non sbaglia. Le grandi manovre per rifare, come lo chiamano, un “Partito popolare europeo” in Italia sulle rovine del Pdl e del Pd, sono partite da tempo. I nostalgici di quel che da vent’anni non abbiamo più, cioè un partito che una volta sta di qua e un’altra di là ma sempre col vincitore delle elezioni, rivendicano senza nasconderlo il vecchio/nuovo tentativo in corso. Da una parte essi attendono che la componente centrista nel Pd, pur minoritaria, levi le tende dopo l’arrivo dell’invincibile Matteo Renzi alla segreteria. Quasi paradossale, se si pensa che il sindaco di Firenze è un anti-comunista nato, ed è pure cattolico praticante, non un bolscevico mascherato. Ma il suo bisogno di accreditarsi come leader di sinistra per fare del Pd un partito compiutamente social-democratico, rende già sospettoso l’esercito degli ex democristiani in agguato. Dunque, gli ambiziosi “popolari” avranno nel Pd un bacino in cui pescare.

L’altro e ben più esteso lago si sta formando nel Pdl, dove l’acclarata divisione fra “diversamente berlusconiani”, cioè i governativi di Angelino Alfano, e i “lealisti” al Capo qualunque cosa succeda, lascia ampi margini per operazione stile “caccia al moderato”. Casini, d’altronde, proprio da lì, dal centro-destra viene (e prima ancora fu bravo allievo della scuola democristiana). Poi s’è schierato contro quel mondo berlusconiano per dissenso politico e personale.

Ma la domanda è: con questi chiari di luna, davvero si può immaginare che un Ppe in versione italica farà il pieno fra i delusi del Pd e del Pdl per candidarsi a governare la nazione? Con quali voti, innanzitutto, e con quale programma? Rigore o manovrine, della serie che purtroppo già stiamo sperimentando? Radicale riforma dello Stato e dello Stato sociale o buffetti alle Province neppure ancora abolite, sempre per restare all’indeciso presente? Legge elettorale per consentire a chi vince di prendere decisioni per cinque anni o per disfare l’esecutivo ogni nove mesi, come accadeva nella prima Repubblica che i centristi d’ogni dove rimpiangono di un amore spento e consumato?

Non è più il tempo né delle etichette insignificanti (destra, sinistra, centro), né dei giochini di posizione. La stessa prospettiva di uno scontro atomico per palazzo Chigi fra il democristiano Enrico Letta e il socialdemocratico Matteo Renzi infiamma solo i frequentatori del Palazzo. I cittadini esigono scelte, tagli dei cunei fiscali e dell’asfissiante burocrazia, una giustizia rapida ed efficace, sicurezza e accoglienza all’insegna del buonsenso. Esigono che i politici la smettano coi girotondi in cui solo loro si divertono. E che sappiano essere anche impopolari, se questo è il bene del Paese e dei nostri figli.

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La strage di Ustica e il dovere della verità

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi 

Trentatré anni dopo, la giustizia civile ha “consacrato”, com’è scritto in un importante sentenza della Cassazione, quel che la politica e i governi hanno sempre evitato di certificare e talvolta addirittura negato. Che fu un missile ad abbattere un tranquillo aereo dell’Itavia il 27 giugno 1980. Portava ottantuno ignari passeggeri da Bologna a Palermo. Nessuno sopravvisse. Fu la “strage di Ustica”, come s’è scritto e ricordato per decenni, senza però mai arrivare a una verità consolidata neppure in sede penale. A oggi i colpevoli di quell’eccidio nei cieli del nostro Paese non sono stati individuati.

Ma un’altra sentenza di un’altra sezione civile della Suprema corte, la terza, pochi giorni fa ha aggiunto un ulteriore tassello di amara verità su quel massacro impunito. “Il depistaggio nelle indagini deve considerarsi definitivamente accertato”, hanno sentenziato i giudici, accogliendo il ricorso presentato dagli eredi di Aldo Davanzali. Era il proprietario dell’Itavia. Morto nel 2005, fino all’ultimo giorno ha ripetuto che nessun cedimento strutturale poteva aver colpito quell’aereo né vecchio né in cattive condizioni e con tutti i controlli a posto. Anche lui aveva prospettato la tesi del missile, prima ancora che essa diventasse l’ipotesi prevalente di quanti si sono dedicati a cercare di capire che cosa fosse successo sul volo di linea del Dc9 squarciato e scomparso all’improvviso fra le onde del mare senza un perché. Senza una risposta definitiva in tanti anni di ricerca. Senza che gli interventi delle autorità politiche e istituzionali preposte, dai primi interventi agli ultimi, abbiano fatto luce su una tragedia violenta da ogni punto di vista. A cominciare da quello dei familiari delle vittime, che continuano a pagare quell’urlo del silenzio: non sapere chi è stato a sparare il missile “da aereo ignoto, la cui presenza sulla rotta del velivolo Itavia non era stata impedita dai ministeri della Difesa e dei Trasporti”, come aveva scritto la Cassazione mesi fa. Concludendo che la tesi del missile, “risulti ormai consacrata pure nella giurisprudenza di questa Corte”.

E allora è arrivato il momento, pur così tardivo, per chiedere, a chi sa, di parlare. Di raccontare finalmente tutto. Sparare “un missile da un aereo ignoto” non è un’operazione promossa da e per pochi intimi, per quanto riservata possa essere stata, all’epoca. Per quanto taciuta sia ufficialmente rimasta in tutti questi anni. Molte persone sanno, diversi Stati sono stati nel tempo coinvolti per avere informazioni, tante inchieste giudiziarie, giornalistiche e perfino cinematografiche si sono succedute con l’unico, fondamentale e comune obiettivo di sapere. Sapere chi è stato, sapere perché è accaduto, sapere chi ha coperto o girato la testa dall’altra parte.

Il nuovo processo civile a cui la Cassazione ha dato via libera per esaminare eventuali colpe altrui nel fallimento della compagnia, che avvenne sei mesi dopo il disastro, impone anche il più alto atto di giustizia a tutti i livelli: ci dicano come sono andate le cose. Un obbligo che anche il governo ha tutto l’interesse a spingere con forza. Nessun segreto, nessuna eventuale (ma quale?) ragion di Stato, nessuna polemica tecnica o politica fra diverse ricostruzioni dei fatti, può più coprire il dovere della verità. Trentatré anni dopo.

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Il telefono di Merkel non è la priorità dell’Europa

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Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Non della crescente e soprattutto giovanile disoccupazione nel Vecchio Continente. Neppure dell’immigrazione disperata che si aggrappa a Lampedusa, ultima isola e ultimo sogno di tanta gente per non morire. Nemmeno di un’economia ancora malconcia e sottoposta allo stress dello spread.

Macché: all’ultimo Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea, Lorsignori hanno invece discusso a lungo del telefonino di Frau Angela Merkel. Come se la scoperta – e sai che scoperta – che gli americani hanno spiato i loro amici europei, cancellieri tedeschi in testa, fosse il problema numero uno in questo momento.

Il momento drammatico del lavoro che non c’è, dei popoli del mondo che si muovono per cercarlo, dei governi che non sanno più cosa fare per inventarselo. Ma loro, i massimi rappresentanti dell’Europa riuniti in vertice, ieri l’altro si sono dedicati alla questione planetaria degli 007. Chiedendosi tutti: ma Obama sapeva o non sapeva delle intercettazioni? Chissà, forse si attendevano che anche lui, come il più celebre Sean Connery, rispondesse: “Mi chiamo Obama, Barack Obama”.

Con tutto il rispetto per il sacro principio della riservatezza, che non per caso gode di tutela costituzionale anche in Italia (dove pure non si nega un’intercettazione a nessuno), la politica europea e italiana dovrebbero imparare a cogliere le priorità dei loro rappresentati.

Tranne i diretti interessati, che sono i soggetti ingiustamente e anche un po’ stupidamente ascoltati dal Grande Orecchio (quale segreto inconfessabile, per dire, avranno mai carpito e capito da Frau Angela?), non c’è un solo europeo disposto ad anteporre tale indiscutibile questione di principio alle difficoltà concrete vissute di giorno in giorno. E’ evidente che la sola idea di essere ascoltati al telefono o nelle private conversazioni in casa o in ufficio e, oltretutto, senza neppure capir ancora bene da chi e perché, fa rabbrividire. E che tale pratica venga, inoltre, promossa da alleati nei confronti di alleati fa ben più che indignare: fa piangere.

Ma una volta chiarito il concetto e chiaritisi a muso duro i protagonisti, come Frau Angela ha fatto con 007 Obama, strapazzandolo dal proprio cellulare (che bella ripicca!), proviamo a voltare pagina. D’accordo, guai a loro se ficcheranno ancora il naso dove e con chi non devono. Ma sarebbe altrettanto importante che, ai massimi livelli dell’Unione nostra e cara, lo stesso impegno venisse profuso per farci uscire dalla crisi, dando un futuro ai giovani.

Poi dedichiamoci pure a Goldfinger.

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Cancellieri e il governo cincischiante

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Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi sulla Gazzetta di Parma

Lei ha offerto per due volte le dimissioni, e lui per due volte ha detto di no. Lei e lui, Annamaria Cancellieri ed Enrico Letta, la metafora di un governo che sembra, e non soltanto per le origini del presidente del Consiglio, come la Torre di Pisa: pende, ma non cade. Oggi il ministro della Giustizia spiegherà al Parlamento perché s’è comportata bene, interessandosi alla salute di Giulia Ligresti, detenuta comune dal nome potente. Ma il Movimento 5 Stelle chiederà che Annamaria Cancellieri se ne vada proprio per come s’è comportata.

Ormai, però, lo scontro oltrepassa l’imbarazzante caso, e poco ha a che fare persino con le ragioni di umanità e della buona fede invocate dal governo per sostenere il suo ministro nella tempesta. A parte i radicali, che ne hanno fatto una storica e coerente battaglia, a nessuno preme un granché di dibattere sul serio sulle condizioni delle carceri e sull’opportunità che un ministro intervenga per porre l’attenzione sulla situazione di questa o quella persona. Oltretutto, come se l’intera amministrazione penitenziaria, e l’esercito degli avvocati e dei magistrati, e i riflettori della stampa fossero strumenti insufficienti per denunciare sofferenze, ingiustizie ed eventuali rischi per la vita dei reclusi. Ma tant’è.

Da tempo la politica ha scelto di snobbare i fatti e di ignorare i problemi di vita vissuta. I partiti preferiscono invece manovrare all’accademia delle promesse, delle polemiche, dei tanti “non detto”. Perciò si scrive “Cancellieri”, ma si legge “Letta”. Nel senso che colpendo il ministro, si spera d’affondare l’esecutivo. Questo spiega perché da una parte il Pdl difenda il ministro (rivedendo, inoltre, il film della telefonata del Cavaliere per Ruby, e perciò rimarcando l’imparità di trattamento), dall’altra perché nel Pd attendano la versione-Cancellieri alle Camere prima di esporsi nella difficile difesa. Forse non sarà solo un caso se l’ala renziana, timorosa che il futuro voto politico slitti alle calende greche, sia sul chi va là e conceda poco alle “ragioni umanitarie” del ministro sott’accusa.

Come se non bastasse, i convergenti paralleli del Pd e Pdl sul governo, proprio in queste ore sono dilaniati dalle crisi interne. A un mese dalle elezioni dell’8 dicembre per la segreteria con Matteo Renzi favorito, volano gli stracci nelle sezioni. Guglielmo Epifani, segretario uscente e non rientrante, deve riunire il vertice del Pd per mettere ordine nella “guerra delle tessere” e tra le contestazioni incrociate dei candidati.

Se il Pd se le canta, il Pdl se le suona. A sorpresa, Angelino Alfano ha riproposto le primarie per scegliere l’aspirante a palazzo Chigi e Raffaele Fitto, il suo eguale ma contrario, le ha subito respinte: “No, qui decide Berlusconi”. E così la costruzione del centro-destra di domani già s’impantana nel braccio di ferro di oggi, e negli effetti che ogni tipo di contrapposizione finisce per avere sul governo. Perché mentre il Pd e il Pdl preparano la successione di se stessi, mentre il Parlamento si divide sul ministro Cancellieri (e presto tornerà a spaccarsi sulla decadenza del senatore Berlusconi), la legge di stabilità è diventata figlia di nessuno. Pur essendo, fra tutte queste battaglie, l’unica utile per il destino dell’Italia. Sia sul versante del lavoro, caro al centro-sinistra, sia su quello delle tasse a cui è più sensibile il centro-destra, tutti reclamano “cambiamenti”.

Con questi chiari di luna, da un esecutivo di larghe intese ci si aspetterebbe una forte scossa per l’economia: altrimenti perché averli messi insieme, i Letta e gli Alfano di lotta e di governo? Il coraggio di grandi scelte e la capacità di spiegarle ai cittadini: almeno questo si pretende da una maggioranza che rischia, viceversa, d’essere presto cancellata, più che Cancellieri.

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La PlayStation è solo un gioco

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Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Non c’è retorica che tenga: prima o poi ogni generazione finisce per rimpiangere i valori del tempo che fu. Si rimpiangono i vent’anni che non tornano. Si ricorda il primo e dolce amore. Si rievoca un modo meno frenetico di vivere ogni momento della vita. Neanche il Sessantotto ha potuto cancellare il sentimento della solitudine che tante volte ha accompagnato, agli occhi di chi ascoltava, il racconto di nonni e di padri. I nostri “vecchi” che faticavano e faticano a riconoscersi nella società che cambia, e che cambia sempre più in fretta. E perciò la generazione di ieri si rifugia nella sua epoca lontana, che mai appare perduta. Come del resto l’infanzia, che – diceva uno scrittore – “quando diventiamo grandi, rincorriamo per tutta la vita”.

Ma quali valori potremo domani rimpiangere, nel ricordare che a Bergamo un ragazzo di tredici anni s’è buttato dal balcone di casa perché il padre gli ha rotto la PlayStation per punirlo dei brutti voti a scuola? Quali “sogni di famiglia” potremo mai tramandare ai giovani, a fronte di quella madre che a Roma s’è resa complice della prostituzione della figlia minorenne? E di altre bambine quattordicenni spinte a prostituirsi, come ha denunciato il vescovo dell’Aquila, Giovanni D’Ercole, per potersi comprare una ricarica del telefonino?

Tra una parte sempre più visibile dei giovani c’è un disagio sociale che va oltre la crisi economica. C’è una fragilità interiore che va al di là di qualunque frettolosa amicizia. C’è un bisogno di comunicare che quell’evocato ma concreto esempio della ricarica del telefonino rende, se possibile, ancor più urgente.

Tuttavia, guai a credere che rovesciando ogni colpa sui padri (o sulla scuola), risolveremo il problema di quanti, tanti ragazzi, non capiscono che la PlayStation è solo un gioco. E che un gioco non può durare in eterno, perché un giorno si diventa adulti. In un’epoca piena di bisogni e sempre più “condivisa”, tanto essa s’è estesa oltre ogni confine, non si può restare perennemente soli, a tu per tu col monitor che ha preso il posto degli incontri.

Ecco, ogni famiglia, ogni donna e uomo, ogni insegnante è chiamato nel suo piccolo al principio della responsabilità. Responsabilità nel dare una mano ai ragazzi perché imparino a scegliere. Perché sappiano distinguere l’importante dal superfluo. Perché si preparino al corso tormentato della vita. Un saliscendi fra dolori e felicità, tra speranze e delusioni, fra realizzazioni e ricerche all’insegna, però, di una bussola che i nostri nonni e padri, senza sbagliare, chiamavano “valori”.

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Le larghe intese delle tenniste azzurre della Fed Cup

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Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Il tennis non gode della stessa attenzione televisiva del calcio. Ma la Nazionale femminile d’Italia è paragonabile a quella maschile del Brasile nel pallone: la più forte al mondo.

Il tennis non è uno sport di squadra, animato, com’è, dall’individualismo artistico alla Roger Federer, atletico alla Novak Djokovic, potente alla Rafael Nadal. Ma le cinque ragazze che hanno appena conquistato la quarta “Fed Cup”, cioè l’equivalente della Coppa Davis tra gli uomini, hanno mostrato che l’unione fa la forza persino fra regine e principesse abituate a vincere ognuna per sé.

Il tennis non è la politica. Ma che bella lezione di “larghe intese” arriva dalle sorelle d’Italia. Dopo aver portato a casa l’ennesimo trofeo internazionale, domenica scorsa a Cagliari, le azzurre si sono abbracciate, si sono fatte i gavettoni, si sono asciugate le lacrime di gioia cantando l’inno di Mameli a squarciagola. Sembravano coriste della marcia trionfale dell’Aida nell’arena in festa che le invocava per nome, perché la felicità si condivide a tu per tu: regine e principesse, ma orgogliose figlie del popolo che le riconosceva e applaudiva.

Chissà se Enrico Letta ed Angelino Alfano avranno seguito l’impresa delle tenniste. Ma la notizia non è la vittoria scontata delle italiane, dato che la Nazionale avversaria ha scelto di presentarsi in Sardegna senza le giocatrici più temibili, impegnate “singolarmente” -appunto-, altrove. La novità è capire come hanno fatto Sara Errani, Roberta Vinci, Flavia Pennetta, Karin Knapp e Francesca Schiavone, cioè il quintetto invincibile a diventare invincibile: quattro Fed Cup dal 2006. Hanno fatto poker col tennis. Soltanto la Russia tiene il passo.

E così si scopre che Corrado Barazzutti, già tennista fra i migliori e da tempo capitano non giocatore sia degli uomini, sia delle donne, ha fatto quel che nessun capitano osa fare in altre Nazionali: convocare anche gli allenatori personali di ogni tennista, in modo da far diventare cooperativo quel che prima era competitivo. Mettere insieme, al servizio dell’Italia, i segreti, le intuizioni, i talenti di tutti e di tutte. Dalla Vinci di Taranto alla Knapp di Brunico. Una felice mescolanza all’insegna del merito, perché Barazzutti ha puntato e punta sulle “più brave” del momento. E il solo fatto che “Sarina” Errani e “Robertina” Vinci siano le doppiste numero uno nella classifica mondiale, e che Flavia Pennetta sia stata la prima italiana della storia a entrare nella rosa delle dieci tenniste più forti del pianeta, e che Karin Knapp abbia strappato l’ottavo di finale nientemeno che a Wimbledon, e che “Franci” Schiavone sia stata la prima italiana ad aver vinto un torneo del Grande Slam come il Roland Garros, tutto ciò conferma che qui, in questa casa Italia dove la competenza, la fatica e l’amicizia si mescolano e si confondono, sanno “come si fa”. Come si fa a raggiungere l’eccellenza in barba alla crisi, alle risorse economiche esigue, alla realtà di ragazze spesso costrette ad allenarsi all’estero.

Il tennis femminile è la fotografia dell’Italia che siamo e che potremmo essere ancor di più, se solo la nostra politica fosse capace di adottare lo stesso metro di far squadra e di solidarietà in campo, anziché darsi perennemente le racchettate in testa. Tra i fischi di un’arena che non sopporta più chi non riesce neanche a mandare la palla oltre la rete.

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Bullismo o violenza?

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Questo editoriale di Federico Guiglia è uscito oggi sull’Arena di Verona

Prendere a calci una ragazza di quattordici anni, fa rabbrividire. Ma prenderla a calci perché s’è permessa di protestare per il comportamento incivile di suoi coetanei in un mezzo pubblico, va al di là dell’indecenza: significa che stiamo rovesciando i ruoli non meno delle parole.

Finiamo per chiamare “bullismo” quel che è, invece, “violenza”. Rischiamo, così, di sbagliare due volte. La prima sminuendo il gesto giusto dell’adolescente che ha reagito. Per questo, a fronte della richiesta innocente di “non disturbare più”, è stata insultata anche fuori dall’autobus, ferita sul volto con un graffio e nell’animo con gli insulti. Quasi che, “se si fosse fatta i fatti suoi…”, oggi non avrebbe una prognosi di dieci giorni e una brutta storia da ricordare. E i carabinieri non sarebbero stati costretti a intervenire per individuare i sei aggressori. Ma in barba all’indifferenza imperante, specie fra gli adulti, è importante far sapere alla ragazza che ha fatto bene a non tacere. Il civismo comincia anche dentro un autobus, chiedendo agli interlocutori sconosciuti di abbassare il tono della voce, se esso molesta o addirittura offende gli altri.

L’altro rischio è di ridurre la vicenda a una saga di paese, alla ragazzata di un gruppo di amici sul bus verso la scuola, alla bravata di cinque ragazze e ragazzi minori (e di una diciannovenne) che in fondo volevano solo divertirsi a spese del resto della comitiva. Insomma, i passeggeri dovevano sopportare, anziché denunciare, l’innocua provocazione dei pochi.
Ma nel suo piccolo, che tanto piccolo non è, la notizia di una ragazza picchiata perché ha osato chiedere a sei giovani un po’ di educazione, è la conferma di un mondo capovolto. Dove la paura addormenta le coscienze, e la violenza prima verbale e poi fisica la fa da padrona. Dove la mancanza di insegnamenti in famiglia e nella scuola produce i suoi effetti vistosi e dolorosi. Dove il menefreghismo a ogni livello fa vacillare quel che resta del principio di autorità. Ormai tanti ragazzi salgono sull’autobus considerando il conducente non già la persona responsabile del viaggio (a cui un tempo era perfino “vietato parlare”), ma come un individuo qualsiasi, all’occorrenza da prendere anche a male parole.

Certo, scavando nelle storie di ciascuno dei sei denunciati, non sarà difficile trovare i perché della loro ”impresa” prontamente finita sul social network. Sono ragazzi che hanno tutta la vita davanti per cambiare, e si può sperare che lo faranno: guai a una società che non aiuta chi ha sbagliato. Purché però dica, alto e forte, che ha sbagliato.

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I perché del divorzio consensuale fra Berlusconi e Alfano

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Pubblichiamo il commento uscito oggi su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

In politica è del tutto inedito che, chi resta, tenda la mano a chi se ne va. Ma la scelta a sorpresa di Silvio Berlusconi di non riservare allo scissionista Angelino Alfano lo stesso durissimo trattamento già inflitto, nell’ordine ultimo di strappi, agli alleati Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini e Umberto Bossi, è fondata su un paio di pragmatiche ragioni.

La prima è che, piaccia o no, l’arrivo di Matteo Renzi sulla scena già occupata da Enrico Letta, cioè la doppia novità nel centro-sinistra, si sta riflettendo anche sul centro-destra. E per quanto la leadership del Cavaliere appia indiscussa ai più, è evidente che pure nell’ex Pdl qualcosa si muova. Il ritorno a Forza Italia da parte dell’ala cosiddetta lealista al Cavaliere può, dunque, essere distinto, ma non certo distante dalla nascita del Nuovo Centrodestra da parte dei cosiddetti governativi. Tant’è, che il leader pur ferito dall’addio di Alfano, ancora ne parla come di un figliol prodigo. E la prima conseguenza di questa divisione degli affetti nel partito, è l’inevitabile meccanismo che ora s’apre anche nel centro-destra alla ricerca del candidato perduto, ma non perdente, domani.

Se stavolta Berlusconi non ha sbattuto la porta ai dissidenti lasciandola, al contrario, socchiusa, è perché sa che l’influenza sul governo per interposto Alfano è la più forte carta politica che possa tuttora giocare. Anche se lui, il Cavaliere, si prepara a un’opposizione dura e pura, specialmente se sarà dichiarato decaduto dal Senato, come i numeri lasciano supporre. Avremo, così, un centro-destra diviso in due, di lotta e di governo. Avremo, forse, il già ribattezzato “esecutivo delle piccole intese”, sostenuto con quella parte del centro-destra che lo stesso centro-destra considera, ancora, “alleata”.

Ragioni personali, politiche, giudiziarie (altre inchieste sono aperte), tutto, insomma, spinge il paradosso di Berlusconi: non rompere con chi ha deciso di rompere. Tanto più che tra Renzi e Grillo lo scenario è in cambiamento. D’altra parte, anche agli alfaniani non conviene il muoia Sansone. Se lo scontro nel centro-destra fosse così devastante da sfociare in elezioni anticipate, essi dovrebbero rivolgersi a un centro a sua volta scisso e senza bussola. Perciò, la “separazione consensuale” nell’ex Pdl in questo momento può andar bene a tutti. In attesa di vedere come finirà la partita alla guida del Pd, come se la caverà il governo nell’ennesimo braccio di ferro con Bruxelles per i conti e chi sarà il leader di un dopo-Berlusconi che i fatti di queste ore mettono ancor più “in movimento”.

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Renzi, D’Alema… e Crozza

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Pubblichiamo il commento uscito oggi sulla Gazzetta di Parma

Il Pdl s’è diviso in due, Scelta civica s’è divisa in due e nel Pd siamo ai materassi tra Matteo Renzi e Massimo D’Alema. Ma per tutto il resto c’è il governo-Letta, che naviga tra alleati colpiti dalla sindrome dei fratelli-coltelli a Roma e quei partner dell’Unione europea che a Bruxelles non hanno digerito la nostra legge di stabilità, ossia la ragione per la quale è nata la maggioranza delle larghe intese. O “meno larghe intese” da quando, sabato scorso, l’un tempo Popolo della libertà ha scelto di diventare partito di lotta con Silvio Berlusconi e di governo con Angelino Alfano.

Ma se il centro-destra piange e rimpiange gli anni di palazzo Chigi in cui avrebbe potuto fare e non ha fatto, il centro-sinistra non ride. E lo scontro per la segreteria del Pd si riverbera anche sul governo, come il sempre più in bilico “caso-Cancellieri” testimonia. Deve o non deve lasciare il ministero, l’Annamaria finora non indagata, ma politicamente accusata di comportamento inopportuno al vertice della Giustizia per il suo interessamento sull’allora detenuta Giulia Ligresti? Ormai i “sì” e i “no” alle dimissioni della Cancellieri attraversano anche il Pd, che pure assieme all’ex Pdl aveva finora salvato il ministro a costo di provocare le ire dei Cinque Stelle, propugnatori della mozione di sfiducia.

In questo clima, che definire incandescente è pietoso eufemismo, arriva un botta e risposta nel Pd che più duro non si può. D’accordo, tutto è ammesso in piena campagna elettorale di iscritti e militanti per scegliere il successore del transeunte Guglielmo Epifani. Ma sentire Renzi che rovescia su D’Alema la colpa che gli attribuiscono con l’eventuale elezione, cioè di “distruggere la sinistra”, e ascoltare il leader Massimo che ricambia, dando a Matteo, nell’ordine, dell’ignorante, del superficiale e del bugiardo, è qualcosa che non s’era raggiunto neanche con la migliore caricatura renziana di Crozza: va al di là persino della burla televisiva.

Volano, dunque, gli stracci a sinistra, il che pone almeno due problemi. Il primo: come farà il favoritissimo Renzi per le primarie dell’8 dicembre, fresco ora di vittoria nei circoli del Pd -46,7 per cento contro il 38,4 del principale sfidante Gianni Cuperlo- a guidare un partito in cui buona parte della pancia (e della testa: D’Alema) lo considera un usurpatore? E poi, come non potrà tale contesa all’ultimo sangue, qualunque ne sarà l’esito finale, avere un effetto destabilizzante, alla lunga o alle corte, sul governo? Tanto più che né Beppe Grillo con la sua rivolta né il Cavaliere in procinto delle barricate si lasceranno sfuggire l’occasione di un Pd lacerato e con due direzioni di marcia -Renzi e quel che rappresenta di qua, D’Alema e quel che rappresenta di là-, per chiudere il prima possibile con l’ingombrante esperienza-Letta. Operazione che diventerebbe più complicata se il governo governasse. Ma le critiche dell’Europa agli impegni economici assunti e presentati dall’Italia con la sua Finanziaria, come si chiamava, impegni considerati insufficienti e poco incisivi, non aiutano a reggere la baraonda.

Non è detto, intendiamoci, che il contesto del tutti contro tutti, che non risparmia neppure i moderatissimi parlamentari di Mario Monti a loro volta scissi in due centrini, né che l’arrivo del giorno del verdetto sulla decadenza del senatore-Berlusconi avranno la meglio sulla stabilità, indispensabile per far fruttare i sacrifici compiuti dagli italiani. Ma il punto è la ripresa, la concreta inversione di tendenza: lavoro, produzione, esportazione, ecco la svolta richiesta. Altrimenti, se il governo sta in piedi non per cambiare, ma solo perché non ha la forza di cadere, i conflitti tra i partiti e dentro i partiti lo faranno esplodere. Letta punta e spera di arrivare a presiedere il semestre europeo, che tocca all’Italia nel luglio 2014. Ma di europeo c’è anche il voto in arrivo nel precedente mese di maggio dello stesso anno. A fronte di un esecutivo fragile e indeciso, che continuasse a non trattare con Bruxelles con la durezza necessaria, la tentazione di mandare tutto all’aria crescerebbe di giorno in giorno e di piazza in piazza.

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Numeri e misfatti prodotti dalla devoluzione

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Questo commento è stato pubblicato oggi sul quotidiano L’Arena di Verona

Anche in politica la matematica non è un’opinione. Ecco qual è l’esito dei conflitti fra Stato e Regioni davanti alla Corte Costituzionale: un risultato che suggella il fallimento legislativo dell’illusione federalista. Delle settantuno sentenze che la Consulta ha pronunciato quest’anno sui ricorsi promossi dal governo contro leggi regionali, nel 90,1 per cento dei casi Roma aveva ragione, a fronte del 9,9 in cui aveva torto. Nove volte su dieci le leggi provenienti dalle venti Regioni e dalle due province “autonome” di Trento e di Bolzano sono state bocciate. Né si può parlare di pregiudizio centralista. Fino a pochi anni fa l’esito delle controversie era molto diverso: nel 2004 le Regioni avevano la meglio nel 62 per cento delle controversie, e il governo solo nel 38.

Le cose sono cambiate col passare del tempo e l’applicazione della caotica riforma del titolo V della Costituzione oggi da tutti criticata. Ma all’epoca, 2001, esaltata come la panacea del federalismo che avrebbe reso più responsabili le amministrazioni e più vicini i cittadini ai loro eletti. La statistica del flop regionale non contempla, inoltre, l’attività dell’ufficio preposto presso gli Affari regionali anche a mediare con le amministrazioni di tutta Italia per segnalare rischi di incostituzionalità nelle loro leggi. Una novità che tiene conto del principio di leale collaborazione invocato dalla Corte Costituzionale in varie sentenze, e che ha portato a estinguere il giudizio in altri quattordici casi, proprio perché le Regioni hanno modificato i loro provvedimenti nel senso indicato dai rappresentanti dello Stato.

D’altra parte, non occorre essere giuristi per capire l’importanza della posta in palio. Qui è in ballo il dovere per ogni istituzione di rispettare sempre lo spirito e la lettera della Costituzione. E se questo non avviene nove volte su dieci nel caso del legislatore regionale, i motivi bisogna cercarli soprattutto nella demagogica riforma del titolo V, che oggi sembra figlia di nessuno.

Una riforma che, rovesciando la saggia e competente elencazione dei poteri fra Stato e Regioni prevista dai padri costituenti con l’articolo 117, ha devoluto alle Regioni “la potestà legislativa in riferimento a ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Dunque, tutto e il contrario di tutto, se si pensa alla quantità di materie che, dalla sicurezza ai rapporti internazionali, dalla ricerca all’istruzione, alla salute sono di tipica natura unitaria. Viceversa, troppe di queste prerogative sono state spezzettate e ridefinite “materie di legislazione concorrente”, cioè in condominio fra Parlamento e Consigli regionali. Grande confusione sotto il cielo senza che, oltretutto, sia stata prevista alcuna “clausola di salvaguardia” nazionale, pur vigente in tutte le Costituzioni federali del mondo.

E così a fronte degli scandali sulle spese pazze, con inchieste giudiziarie aperte a vario titolo in ben sedici Regioni sull’uso indecente del denaro pubblico, ora fa acqua anche la devoluzione, dodici anni dopo la sua enfatica introduzione. “Potremmo senza danno (lo sussurro e basta) sopprimere anche le Regioni”, ha scritto di recente il professor Giovanni Sartori, massimo politologo.

In altri tempi sarebbe stato sommerso dai fischi dei partiti. Oggi rischia di ricevere gli applausi di molti cittadini.

f.guiglia@tiscali.it 

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Iuc, ovvero Imposta unica delle complicazioni

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Questo commento è stato pubblicato oggi su su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza, Brescia Oggi.

Contrordine, contribuenti. Se cercate la nuova tassa sulla vecchia casa, dimenticate l’Imu che fu. E non inseguite, per carità, la Trise che non sarà.

Per scoprire l’imposta che farà per voi, pronunciate il nome Iuc, e apriti Sesamo: avrete indovinato come si chiamerà, dal 2014, la più odiosa scelta fiscale in arrivo, che è quella del “vincere facile” per lo Stato. Vale a dire del colpire gli immobili che, come rivela la parola stessa, stanno lì, fermi fermi in attesa d’essere censiti e presi di mira. Con l’assicurata eccezione della prima casa, che dopo la corsa a ostacoli fra Ici e Imu dovrebbe essere lasciata fuori dalla lista dei tributi, cioè finalmente e definitivamente in pace.

Per il conforto di otto italiani su dieci, tanto alta risulta la percentuale di possessori di un tetto per sé e per la propria famiglia. Sempre cittadini paganti essi sono, ma non più per la prima casa. Purché non sia “casa di lusso”, anche se il concetto del lusso è stravagante almeno quanto quello del nomignolo -Iuc- appena da Lorsignori battezzato. Ma, si sa, al cuor e all’esenzione non si comanda.

Dunque, impariamo a conoscerla subito la Iuc – imposta unica comunale – che presto sarà tra noi. La fervida fantasia dei legislatori ha partorito l’ultima e impegnativa sigla, peraltro destinata a conglobare la Tasi (tassa sui servizi) e la Tari, l’imposta sui rifiuti. Ma evitate di chiedere che cosa in concreto significhi, e che cosa corrisponda in termini di denaro all’una o all’altra, ché in questo momento di legge di stabilità e di fiducia instabile nemmeno Loro, gli elucubranti della maggioranza e del governo, bene ancora lo sanno. Sanno solo che il bambino si chiamerà Iuc. E che comincerà a reclamare il biberon immediatamente, come d’altronde esige il tempo della crisi: inventare ogni strada e ogni toponimo pur di incamerare soldi, è il loro ingrato mestiere.

Ma ai maghi dell’Iuc, a parte il suono che suona non di tassa, ma di tosse, da brutto raffreddore, bisognerebbe fare almeno un paio di domande. Posto che la “casa, dolce casa” è il bene primario dell’ancora risparmiatore popolo italiano, non sarebbe l’ora di affrontare la materia una volta per tutte e con duratura serietà, anziché montarla e rismontarla di mese in mese e di governo in governo? E poi: se proprio volete che i cittadini s’affezionino all’idea che con le loro imposte rimetteranno l’Italia in cammino, non sarebbe il caso di evitare nomi-beffa, come quelli del “Tasi” che molto poco ispirano gli italiani già largamente tartassati?

Fra lo scomodare l’Accademia della Crusca e l’ennesima trovata Iuc, esisterà pure una via di mezzo politica e semantica per dare il senso del sacrificio compiuto, dell’equità con cui viene preteso, della lungimiranza con cui viene richiesto. Tasse giuste e mai ridicole: è chiedere troppo?

f.guiglia@tiscali.it

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Letta, Renzi e le piccole intese che fanno traballare l’esecutivo

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Non che gli italiani, dopo trent’anni di chiacchiere vibranti, ci avessero fatto molto affidamento. Ma adesso che le grandi intese, come il caffè, si sono ristrette, svanisce l’illusione di quella riforma con tanto di “comitato dei saggi” che l’ispirava e di Quirinale che l’invocava. Addio sogni di gloria. Sarà già molto se quel che resta di una legislatura con meno di un anno di vita pericolosamente vissuta, riuscirà ad approvare una nuova legge elettorale. Magari sperando in un aiutino della Corte Costituzionale, che domani è chiamata a pronunciarsi sulla legge-porcata detta Porcellum (col latinorum suona meglio).

UN ACCORDO DIFFICILE
D’altra parte, era difficile immaginare che una maggioranza destra-sinistra, divisa su tutto, potesse trovare un accordo proprio sulle regole del gioco. E così il fallimento delle Bicamerali compie il suo trentesimo compleanno, se si ricorda che fu il liberale Aldo Bozzi ad accendere, da presidente della prima commissione istituita in Parlamento per rinnovare la Costituzione, la prima candelina nel lontano 1983. Ci risparmino, allora e per favore, ulteriori promesse che taglieranno il numero sopraelevato di 945 parlamentari, che aboliranno il Senato, che restituiranno allo Stato le competenze sottratte nel raptus federalistico a favore delle incapaci, inefficienti e scandalose -in tutti i sensi- Regioni. L’unica verità sotto gli occhi di tutti è che una buona parte dei contribuenti continuerà a pagare una parte dell’Imu, oggi Iuc, che era stata eliminata per la prima casa. L’ennesima e pietosa bugia di una legge di stabilità che ha deluso quanti speravano che il governo di “pronto soccorso” soccorresse almeno l’economia.

L’ASCESA DI RENZI
Festeggiate, politici, festeggiate, che fra pochi giorni arriva un altro compleanno. Salvo improbabili sorprese, Matteo Renzi sarà incoronato alla guida del Pd. Da quel momento il sindaco di Firenze diventerà, per il governo, un leader potente e perciò insidioso. Ancor più insidioso del Cavaliere disarcionato dal Senato e desideroso di “fargliela pagare” a Enrico Letta e ai suoi infidi alleati, a cominciare dalla pattuglia del cosiddetto Nuovo centrodestra. Ma la moda dei governi appesi alle assisi di partito era roba da prima Repubblica! La seconda anche in questo ha preso al meglio il peggio di essa, se si pensa che perfino la “verifica” della maggioranza – altro vocabolo di quella preistoria -, è stata posticipata all’esito dell’8 dicembre, il giorno delle primarie che chiuderanno il cerchio. Con Renzi finalmente insediato, Letta confida o forse solo spera di ribattezzare senza scossoni la maggioranza di sinistra-centro di cui è alla guida. Un’altra fiducia per superare il rischio di elezioni anticipate a primavera e tagliare l’agognato traguardo della presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea, che scade alla fine del prossimo anno, e inizio dell’Expo universale a Milano.

UN ESECUTIVO DI EMERGENZA
Ma anche le parole perentorie usate da Renzi dopo il grigio dibattito televisivo con i suoi competitori Gianni Cuperlo e Giuseppe Civati detto Pippo, forse la sola novità “mediatica” dei tre, autorizzano a nutrire dubbi e a coltivare sospetti. “Riforme e lavoro o usciamo dalla maggioranza”, ha già avvisato il segretario del Pd in pectore, chiedendo un “esecutivo di emergenza”. Anche dal punto di vista temporale il concetto di emergenza implica un periodo limitato e delimitato del governo che rinascerà. Con un’ulteriore aggravante: che succede se tale esecutivo, bombardato dagli extra-parlamentari Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, con i “vaffa” anti-istituzionali in piazza e la campagna per le europee alle porte, non riesce ad affrontare neanche l’”emergenza”? E può un esecutivo dalle piccole intese riuscire laddove s’è finora impantanato l’esecutivo delle larghe intese, cioè nell’avviare la benedetta ripresa con forza, serietà e durata nel tempo?
Intanto, il partito secondo Matteo è in fibrillazione. Ma se anche lui, il predestinato da Firenze, dopo le primarie di domenica prossima si presenterà scamiciato, a metà tra Kennedy e Perón, Enrico Letta faccia attenzione: tre extra-parlamentari comincerebbero a essere troppi anche per le sue larghe spalle di democristiano.

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Così Letta può togliere i “forconi” dalle mani di Grillo (e Renzi)

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

E al terzo giorno di proteste, Silvio Berlusconi decise di non inforcare i Forconi. Salta l’incontro del Cavaliere con i rappresentanti del movimento per molti versi ancora indecifrabile e con troppi ultrà. Ma che, piazza dopo piazza, sta infiammando il disagio degli italiani. Intanto in Parlamento va in scena un altro film. Prima alla Camera e poi al Senato il presidente del Consiglio presenta la sua nuova maggioranza. Meno larga “ma più coesa”, rivendica Enrico Letta per ottenere la fiducia, e l’ottiene. E invoca un “nuovo inizio”. E giura che il suo governo non tollererà più il caos di dimostranti che mescolano, pericolosamente, indignazione civica con azioni e minacce incivili. Con piglio insolito il sempre gentile Letta ha aperto una polemica durissima con Beppe Grillo, esortandolo a “non incitare alla violenza”. E sollecitando i grillini a non mettere la gogna ai giornalisti, con urla e accuse di “fascismo” volate in un’aula tesa come lo è il Paese. La replica di Grillo (“Letta offende e mente”) conferma il dialogo tra sordi che più sordi non si può.

UNA NUOVA STRATEGIA
È la prima volta dell’intera, ancorché breve, legislatura, che il Movimento 5 Stelle è indicato in modo tanto plateale come una sorta di “avversario principale” di tutti gli altri partiti. Non è tattica, stavolta. È l’effetto-Renzi, cioè nuova strategia, visto che, in tutte le sue dichiarazioni da leader del Pd fresco di vittoria, Matteo da Firenze non ha perso occasione per contrapporsi ai grillini, anziché per corteggiarli come faceva il precedente e più gongolante Pierluigi Bersani, colpito e affondato dallo streaming che non divenne feeling.
Delle notevoli differenze che, almeno a parole, già si intravedono dopo il terremoto nel partito-guida del centro-sinistra, questa della sfida a Grillo sul suo terreno è la più evidente.

EFFETTO RENZI
Così si spiegano le tre questioni quasi pregiudiziali poste da Renzi alla maggioranza, e finora ignorate dal Palazzo (ma cavalcate dagli stellari): robusto taglio ai costi della politica, nuova legge elettorale bipolare e misure rapide per rilanciare il lavoro che non c’è. “Nuovo inizio”, ha riassunto Letta, che ha tutto l’interesse ad assecondare la marcia trionfale di Matteo, e a rassicurare i cittadini sul rischio, molto concreto, che la protesta per strada degeneri di giorno in giorno e di luogo in luogo. Coi Forconi che già prospettano il blocco dei Tir e una prossima manifestazione nazionale a Roma.

IL CORRIDOIO STRETTO DI LETTA
Proposta e protesta sono, dunque, divise dal portone del Palazzo. Ma nel primo caso il tempo è scaduto per la maggioranza. Il Letta ora coeso e sostenuto da Renzi alle condizioni di Renzi, non può più permettersi di rinviare le decisioni per cambiare musica, né di liquidare la furia un po’ “forchista” e un po’ forcaiola della piazza come pura questione di ordine pubblico. Il dilemma non è se i poliziotti debbano o non debbano togliersi il casco davanti a chi urla la sua rabbia per strada posto che, a fronte di episodi di illegalità, è dovere dello Stato la difesa del cittadino, del consumatore, del negoziante vittima di soprusi o di violenze. Senza indugi.

RISPOSTE CHE MANCANO
Il problema davvero insidioso è come rispondere subito al disagio sociale e alle difficoltà economiche che sfociano o diventano l’alibi pericoloso della protesta. Mai come adesso è chiaro che il governo potrà arrivare e persino superare l’agognato traguardo del 2014. Ma vi riuscirà soltanto se la gente avvertirà che le cose stanno cambiando, che i tanti sacrifici già fatti avranno un senso, che l’esistenza di un esecutivo che decide è mille volte meglio di un esecutivo che promette. Nessun “impegno 2014”, per citare le parole di Letta, nessun nuovo piano per la ripresa potrà godere di credibilità, se non avrà la fiducia non delle Camere, pur necessaria, ma degli italiani. Se ai Forconi sono bastati tre giorni per guadagnarsi i titoli in prima pagina, e gli avvertimenti del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e i dubbi su chi veramente essi siano, è perché la pazienza di tanti è finita. Anche di quelli che hanno scelto l’innovatore Renzi nel partito più organizzato: voglia di cambiare, basta tramandare. Sarebbe un disastro, allora, se il governo non sapesse ascoltare il grido di dolore che si leva, e non in piazza ma in silenzio, in tante parti, case e famiglie d’Italia.

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Ecco perché Letta ha (forse) i mesi contati

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza, Brescia Oggi

Portata a casa la fiducia delle Camere, ora Enrico Letta dovrà guadagnarsi anche quella degli italiani. E il tempo del governo, come la pazienza di tanti cittadini, è scaduto. Se il presidente del Consiglio non farà subito le due o tre cose che darebbero il senso della svolta, nessun Matteo Renzi potrà salvarlo.

L’ESASPERAZIONE DELLA GENTE
Nessuno spread – mai così basso come in queste ore – potrà aiutarlo. Nessuna prospettiva di tagliare il traguardo finale del 2014, e da oggi la prospettiva è realistica, potrà confortarlo. Parafrasando, qui si governa o si muore. E non perché i Forconi con i loro strani equivoci e pesanti incognite crescano di piazza in piazza e di minaccia in minaccia (l’ultima è la prossima marcia su Roma, preceduta dalla penultima: il blocco dei Tir). La protesta vera non è di chi urla in piazza, dove l’estremismo da curva e la prepotenza dei violenti si mescolano con l’esasperazione di chi vuole lavoro e della rabbia anti-casta.

I NODI DA SCIOGLIERE
L’insidia più temibile per la nuova maggioranza senza più Berlusconi ma con la novità di Renzi è di non modificare la legge elettorale, come invece dovrebbe, e presto. Anche per non dare alle piazze la pazza idea che gli elettori non decidono niente, neanche i nomi dei parlamentari a scelta. Il rischio è che restino sulla carta i provvedimenti per tagliare i costi insopportabili della politica, unico antidoto serio e simbolico perché la classe dirigente dia l’esempio dei sacrifici già ampiamente provati dagli italiani in ogni ambito. Il pericolo autentico è che a questo “nuovo inizio” evocato da Letta non corrisponda la necessaria scossa in economia: atti e misure per agganciare la ripresa, per dare lavoro, per impedire che il disagio sociale sia inforcato dai Forconi, anziché lenito in Parlamento.

UN SEGNALE CONCRETO
Serve un concreto segnale che le cose stanno cambiando, che le intenzioni di Letta e le parole di Renzi non diventeranno l’ennesimo “vorrei, ma non posso” a cui ci ha abituato la politica delle promesse. Esiste un problema di credibilità che ormai ha sormontato anche quello della fiducia. La credibilità di fare quel che si dice, di farlo subito, di farlo con buonsenso.

CHI SALE E CHI SCENDE
Altrimenti, anche questa ripartenza del meno largo “ma più coeso” – giura Letta – esecutivo finirà in balia di un’altra e ben più incisiva protesta: quella dei grillini, dei berlusconiani, dei leghisti, di chiunque potrà rimproverare a Letta di non aver colto il prorompente “effetto-Renzi”. E a Renzi d’aver vinto alle primarie, ma non convinto nel Paese. La sfida è cominciata, e l’”impegno 2014” ha già i mesi contati.

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Il provincialismo internazionale di chi vuole vietare l’italiano in Italia

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona

La petizione dice così: “Ministro, ritira la firma che vieta d’insegnare in italiano all’Università!”.
Il ministro è Maria Chiara Carrozza, l’Università è il Politecnico di Milano e la petizione è promossa dall’Associazione radicale per l’esperanto, che si batte da tempo e con sensibilità per valorizzare la lingua nazionale, sottoposta a ogni genere di mortificazione. La più grave delle quali è la pretesa, purtroppo in corso, di cancellare l’insegnamento in italiano nei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca presso il già citato Ateneo.

IL CASO DEL POLITECNICO
Dall’anno prossimo tutto e solamente in inglese, ha stabilito il Politecnico milanese. Come se la lingua millenaria di Dante fosse uno svantaggio per il futuro lavoro di architetti e ingegneri in Italia e nel mondo. Come se l’italiano non fosse “la lingua ufficiale dello Stato”, secondo quanto stabilisce una norma costituzionale. Come se l’Università pubblica non fosse pagata dagli italiani, che avranno pure il diritto inalienabile di trasmettere ai loro figli la lingua appresa dai loro padri anche al massimo livello di studi.

LA RABBIA DEI DOCENTI
Contro questo tentativo del Politecnico in nome di una malintesa “internazionalizzazione” che in nessun Paese d’Europa s’esprime con la rinuncia alla madrelingua nazionale a beneficio dell’inglese, un centinaio di docenti universitari ha promosso e vinto un ricorso al Tar della Lombardia, sette mesi fa.

INACCETTABILE IMPOVERIMENTO
Ma il Politecnico ha impugnato al Consiglio di Stato tale sentenza. Una sentenza, quella del Tar, che aveva bocciato con motivazioni durissime la decisione accademica non già – attenzione! – di aggiungere corsi e insegnamenti “anche” in inglese, ma di prevederli “al posto” di quelli in italiano. Non un arricchimento, ma un impoverimento. Non universalità, ma provincialismo. Così la lingua nazionale verrebbe cancellata in un alto ambito pubblico che, al contrario, dovrebbe ben conoscerne e riconoscerne il valore agli occhi del mondo.

RADICI DA PRESERVARE
L’argentino Papa Francesco s’è rivolto in italiano, lingua ufficiale della Chiesa, al miliardo e passa di credenti durante il tradizionale saluto “urbi et orbi” in mondovisione. La musica lirica “parla” italiano in ogni continente dov’è rappresentata e ascoltata. Nello sport più popolare del pianeta, il calcio, l’italiano è una delle lingue più diffuse grazie ai tanti stranieri che da anni frequentano la serie A, e ai tifosi d’ogni nazione che guardano le nostre partite in tv: chiedere conferma al nuovo presidente dell’Inter, l’indonesiano Erick Thohir. Proprio il Politecnico di Milano non può ignorare che, da Michelangelo in poi, l’architettura, l’arte e la scienza delle costruzioni siano intrise di storia e di lingua italiane al di là di ogni confine. Gli stranieri vengono qui a studiare il Rinascimento, e in italiano, of course.

LA PETIZIONE AL MINISTRO
Sorprende, allora, che a firmare il ricorso al Consiglio di Stato contro l’importante sentenza salva-italiano del Tar, sia il ministro dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca in persona e pro tempore. Da qui la petizione dei radicali a Maria Chiara Carrozza di “ritirare la firma”. La questione è semplice: può un ministro che ha giurato fedeltà alla Costituzione della Repubblica italiana, e che rappresenta la cultura del nostro Paese e della sua insostituibile lingua italiana, non immaginare l’”effetto che fa” il suo gesto?
Intanto, il Consiglio di Stato ha negato la sospensiva che il Politecnico di Milano reclamava. Dover difendere l’uso dell’italiano in un’Università pubblica d’Italia: che insopportabile tristezza.

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Il serial killer evaso e l’implacabile senno del poi

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Il permesso-premio, lo dice la parola stessa, è un beneficio che la legge riconosce a un detenuto-modello o meritorio. Sarà la solita inchiesta, che sempre si apre il giorno dopo con l’implacabile e impotente senno del poi, a stabilire sulla base di quale criterio a Bartolomeo Gagliano, colpevole di tre omicidi, un tentato omicidio, estorsione, rapina e autore di cinque fughe dalle patrie galere, “meritasse”, appunto, di lasciare il carcere di Marassi per tornare alla casa della madre per due giorni. E per poi scappare, ancora una volta. E ancora minacciando con la pistola un ignaro automobilista, costretto a dargli l’ultimo passaggio verso la libertà.

LE PAROLE DEL DIRETTORE DEL CARCERE

“Non sapevamo di quei precedenti penali, per noi era un rapinatore”, ha già detto il direttore del carcere, aggiungendo così, al pericolo del pluri-assassino evaso, la beffa di un sistema giudiziario e penitenziario dove neppure le informazioni più elementari vengono condivise. E dove, perciò, sarà difficile individuare non già il colpevole “on the road”, cioè questo serial-killer in autostop per le strade d’Italia, ma il o i colpevoli d’aver autorizzato tale e violento uomo di cinquantacinque anni, giudicato pure infermo di mente, a lasciare il carcere come Mary Poppins. Si può star certi: anche il principio della responsabilità volerà via col vento. Nessun colpevole del colpevole.

DUE PESI E DUE MISURE

E’ desolante assistere ai due pesi e due misure di un senso della giustizia che in un centro d’accoglienza di Lampedusa può arrivare a trattare migranti alla stregua di bestie, mentre in un carcere di Genova scarcera un assassino seriale senza neppure conoscerne il curriculum. Ma in che Paese viviamo? E come si fa a non capire la gravità degli opposti comportamenti di un sistema forte coi deboli e debole coi forti?

UN MACIGNO CONTRO AMNISTIE E INDULTI

Se le istituzioni avevano bisogno di esempi importanti per convincere i cittadini riluttanti sulla necessità di risolvere subito lo sconcio del sovraffollamento disumano nei penitenziari, l’evasione di un accertato pericolo pubblico resa possibile dalla miopia irresponsabile della (o delle) Autorità preposte, è un macigno contro le ipotesi di amnistie o indulti, già impopolari e controversi visti i risultati non proprio esaltanti che hanno prodotto in passato. La richiesta di clemenza ha più senso e forza se, nello stesso tempo, chi sbaglia paga. Ma lasciar fuggire un omicida conclamato e addirittura “premiato” è come ammettere che lo Stato non è in grado di far valere alcuna giustizia nei confronti di nessuno. Che almeno lo riprendano in tempo.

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La legge di stabilità e il rischio lobby

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

La battuta vien facile: come si dice “lobby” in italiano? Perché puntuale come sempre, sbarca in Parlamento la “manovra”, cioè il bilancio dello Stato che in Europa hanno ribattezzato con maggior raffinatezza “legge di stabilità”. E subito arriva l’assalto alla diligenza.

Alcuni senza dare nell’occhio, altri apertamente, ma comunque tanti e in modo trasversale si danno da fare e ricorrono all’antica pratica dell’”infila-emendamento”. Premono di nascosto e con astuzia. Magari in commissione, sul calar della sera con pochi e stanchi presenti, nella speranza che la cosa passi inosservata. E’ una sorta di gratta (la legge) e vinci la riconoscenza del tuo collegio elettorale. E il costo di queste piccole, grandi operazioni per l’intero Paese? E l’interesse generale, che dovrebbe valere oltre il partito, il campanile o la parrocchia? E l’idea che deputati e senatori obbediscano, oltre che alla propria coscienza, come si spera, anche all’interesse nazionale, com’è scolpito nella Costituzione? Solo belle intenzioni, solo splendide parole.

Adesso lo denunciano anche i novelli pentastellati, che alla Camera hanno polemizzato duramente con il Pd, accusando il partito di Matteo Renzi d’aver subordinato la propria strategia politica a incursioni di lobbisti. E allora sono partite le repliche altrettanto pesanti del Pd ai grillini: “Sfascisti!”. Ma intanto s’è ingranata la marcia indietro. Non sia mai che su temi oggi molto sensibili come gli affitti d’oro ai palazzi del potere, o controversi come il gioco con le cosiddette slot machine, qualcuno possa pensar male. Pensare, cioè, che il Parlamento, il luogo dove risiede la sovranità popolare, prenda ordini, anziché darli.

E’ una contesa, quella contro i gruppi forti e organizzati ma non eletti, che viene da lontano. Così lontano, che ciclicamente qualcuno propone di regolamentare il lavoro delle lobby “come in America”, rendendo trasparente l’attività di chi lavora dietro le quinte.
Ma in questo momento alla crisi economica si somma la crisi politica. Se i partiti sono deboli, e devono inventarsi le primarie per rinnovare le loro classi dirigenti, il rischio di delegare ad altri la propria funzione, può diventare fatale. Guai a non consultarsi con chi è competente della materia su cui legiferare. Specie in economia, dove ogni scelta pesa oggi e negli anni a venire. Ma la riflessione generale e la responsabilità finale di ogni atto sono esclusive della politica. Neanche in tempi di magra e di Forconi, nessuno si sogni di esautorare il Parlamento. E il Parlamento non si faccia esautorare da nessuno.

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Il Vietnam che attende Renzi

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Forse neanche lui, l’ottimista Matteo Renzi, poteva immaginare che il suo problema principale non sarebbe stato d’avere la bicicletta, ma del dover, adesso, pedalare. Se la storia dice “guai ai vinti”, la politica può essere persino più crudele: “Guai ai vincitori”. E il nuovo segretario del Pd sta rischiando proprio, per dirla col titolo di quel libro, la solitudine dei numeri primi. Una sindrome che più o meno può essere illustrata in questo modo: il massimo del consenso, degli elogi, della capienza nel carro su cui stanno saltando tutti dentro e fuori il Partito, ma il pericolo che la festa finisca di colpo, al minimo indizio di un cedimento. Perché gli avversari interni ed esterni del rottamatore fiorentino, da Pierluigi Bersani a Silvio Berlusconi passando per l’universo mondo, mica hanno consegnato le armi, né si sono arresi alla pensione. Sono ancora lì, in sorridente attesa e trepido agguato, pronti a sbranare il neofita al suo primo tentennare.

Molti di loro muoiono dalla voglia di poter presto dire, a proposito di questo sindaco di Firenze assurto con la grazia di un ciclone ai Palazzi di Roma: “Visto? Ve l’avevamo detto. Sotto le parole del giovanotto, niente”. Del resto, Maurizio Crozza già ne fa una peraltro splendida parodia, associandolo al vuoto. E guai a sottovalutare, oltre che il rancore della vecchia partitocrazia verso i vincitori nuovi e di novità, la forza dei comici, che in questo deserto dei tartari sono diventati per tanti cittadini più credibili dei politici (ma forse non ci voleva molto).
Dunque, Renzi si gioca la reputazione e soprattutto il ruolo di leader su un paio di insidie: il lavoro e la legge elettorale. Cominciamo dalla seconda, che interessa solo al Palazzo e che perciò più facilmente si presta alle congiure.

Con buonsenso e coraggio, Matteo ha scelto di sorvolare sull’elenco dei modelli -francese, tedesco o britannico; a turno unico, doppio o triplo con salto mortale-, su cui da anni l’impotente politica si trastulla. Ha invece detto che lui vuole una legge bipolare, e che garantisca al governo di governare. In più, bravo Renzi, ha dato un mese di tempo ai maghi dei partiti per creare l’intruglio. Mattarellum corretto o meno? Oppure una genialata nuova di zecca, che non guasterebbe nel Paese di Machiavelli? Non importa: anziché farsi imprigionare dai nomi e dalle formule, Renzi ha dato i trenta giorni e va dritto per la sua strada.

Ma superate tutte le Befane, al dunque dal 1 febbraio in avanti il segretario del Pd non potrà più dettare la (nuova) linea: dovrà farla applicare. E dovrà essere consapevole del Vietnam che l’aspetta, fra una parte dei suoi gruppi parlamentari che non hanno digerito l’arrivo del rinnovatore, il centro-destra che col cavolo vorrà far fare bella figura al suo temibile antagonista e con la Corte Costituzionale chiamata a motivare la sua discutibile sentenza, che ha ucciso il Porcellum, facendo però rinascere il Mattarellum. Un Vietnam, appunto, nel quale il Comandante Renzi dovrà imporsi e non più limitarsi alle belle dichiarazioni.

Sul lavoro la sfida, se possibile, è ancora più complicata, perché riguarda direttamente le paure e le speranze degli italiani. Qui non basta fissare un tempo limite né “dare la linea”. L’abrogazionista Renzi ha già fatto finta di niente sullo sconcio del finanziamento pubblico ai partiti e sulle Province, nessuna delle due cose abolite ora e subito, come promesso. Ma sul lavoro neanche girando la testa dall’altra parte il segretario del Pd potrà sperare di farla franca. La gente pretende misure di cambiamento immediato e radicale: tagliare senza pietà i costi e i privilegi che nulla hanno da vedere con la buona amministrazione pubblica, ovunque essi s’annidino. E “creare” lavoro, incoraggiando gli imprenditori a intraprendere, a investire, a esportare, anziché seppellendoli di tasse a tutto danno dei lavoratori.

Renzi ha preparato un suo “piano per il lavoro” con segnali interessanti, anche se timidi e nebulosi. Il progetto sembra voler puntare a posti di lavoro stabili con tutele crescenti. Non più ideologia, ma idee. Però anche le idee camminano sulle gambe dei legislatori. E Renzi dovrà superare due prove decisive: quella del Pd (e della Cgil) e quella del Parlamento. Non basta la parola neanche per uno che si chiama Matteo Renzi.

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