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Tutti gli italiani del cricket

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Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona e Brescia Oggi.

Come si dice “cricket” in italiano? La domanda non è così oziosa, da quando gli inglesi, in lontana epoca rinascimentale, hanno dato questo nome intraducibile allo sport di squadra più popolare al mondo dopo il calcio. Ma che si gioca soprattutto nei Paesi del Commonwealth.

Oggi c’è qualcosa di nuovo e importante anche in Italia. Il “nostro” cricket sta sperimentando una silenziosa rivoluzione che la Nazionale dei molto più famosi Balotelli, El Shaarawy, Ogbonna, cioè dei tanti azzurri nati o cresciuti in Italia ma figli di immigrati, ha sperimentato con grande difficoltà nell’ottenere la formale “cittadinanza italiana”. Invece nel cricket è in corso una piccola, grande novità: sentirsi ed essere riconosciuti come italiani a dispetto della burocrazia, della polemica politica, dell’identità difficile perfino da catalogare, perché frutto di luoghi, storie, famiglie e realtà diversi.

A differenza di altri sport, il cricket “made in Italy” e il suo regolamento internazionale consentono di giocare in Nazionale ai figli di stranieri nati o residenti in Italia dai quattro ai sette anni a seconda delle categorie. E allora tanti giovani rappresentano l’Italia, pur non avendo ancora, molti di loro, il passaporto italiano.

Ecco il miracolo riuscito, ecco l’incrocio felice tra ius soli e ius sanguinis, cioè il mix tra ragazzi e ragazze nati in Italia ma figli di pakistani, indiani, bengalesi e srilankesi con oriundi italiani provenienti dall’Australia, dal Sudafrica, dalle Americhe. Come testimonia la storia di Harpreet Singh, partito con la mamma dall’India che era un bambino, per “ricongiungersi” col padre che mungeva le mucche a Mondovì. Harpreet ha vinto l’europeo degli azzurrini (sotto i quindici anni) già nel 2009 insieme con ragazzi che si chiamano Muhammad Waqas Asghar, Alamin Mia, James Fort, Edoardo Scanu, Swad Sahidul Islam, Salman Zaman e molti altri che cantano l’inno di Mameli con tenerezza e indossano la maglia azzurra con orgoglio. Italiani a tutti gli effetti per loro stessi e per il mondo, ma spesso non ancora per l’Italia, dove la discussione sulla cittadinanza per i “nuovi italiani” è troppo astiosa e ideologica, e la politica fatica a stare al passo con la “società civile” che anche nello sport marcia da tempo in avanti per conto suo.

Adesso c’è pure un libro che racconta queste belle storie di italianità in cammino. Ma “Italian cricket club”, firmato dai trentenni Giacomo Fasola, Ilario Lombardo e Francesco Moscatelli (add editore, Torino), va oltre le lunghe partite e il classico battitore che cerca di colpire la palla con mazza, guanti e gambali. Parlano i protagonisti come Simone Gambino, presidente della federazione italiana di cricket. Fu iniziato a questo sport dai racconti del nonno materno che viveva a Londra (mentre il padre era una firma storica de l’”Espresso”). “Il cricket dimostra che i figli degli immigrati possono dare anche lustro e non soltanto ricchezza all’Italia”, dice Gambino.

In campo scendono undici ragazzi contro undici. Vestiti di bianco, ma col Tricolore nel cuore.

f.guiglia@tiscali.it

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Uno spread non fa primavera

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Chissà se stiamo dando i numeri nello stesso Paese. Da una parte il 2014 s’annuncia con un risultato a lungo atteso, dopo tanta bruttissima crisi: col cin-cin dello spread, che s’è abbassato sotto i duecento punti. Non accadeva dal luglio del 2011 e l’”evviva!” di Enrico Letta è una fotografia che vale per tutti. Come col campionato di calcio, con l’ormai celebre differenziale conviviamo da tempo e di giorno in giorno. Registra il termometro dell’affidabilità dell’Italia in campo internazionale. Se perciò torna a livelli, chiamiamoli, umani, la ripresa appare più di una speranza.

Ma il brindisi per la positiva inversione di tendenza dura poco. Dura fino al 16 gennaio, quando molti Comuni dovranno stabilire la tassa della Tasi, cioè dei servizi ai cittadini, piuttosto simile alla vecchia Imu. E, a oggi, nessuno sa indicare quanto si dovrà pagare per la vecchia imposta travestita da nuova. Non basta. Nella stessa Italia che può finalmente celebrare un rapporto meno drammatico fra titoli di Stato nostri e tedeschi, si scopre che il fisco s’è fatto ancor più esigente per il 95 per cento delle imprese già tartassate di per sé. E che la pressione tributaria oscilla fra il 53 e il 63 per cento, secondo gli studi della Cgia di Mestre che, di fatto, conferma l’allarme di Confindustria. Ma in compenso la politica continua a ripetere: “Bisogna abbassare il cuneo fiscale”. Due Paesi, dunque. Quello dei dati macro-economici promettenti, come si conviene a una delle economie più solide, nonostante tutto, del pianeta. E l’altra Italia dalla concreta borsa della spesa del “paga e Tasi”, con un fisco che s’incunea sempre più su, costringendo gli imprenditori al salasso e i lavoratori a buste-paga leggere.

Non si pretende che in pochi mesi il governo risolva il problema antico e incrostato di un’economia allo stesso tempo mal assistita e poco incoraggiata. Ma organizzare le cose e lo Stato almeno per far sapere ai cittadini quali e quante tasse dovranno pagare, non è impresa da premi Nobel. Così come constatare che il fisco aumenta quanto più si dice di volerlo diminuire. Come la rondine, neanche uno spread fa primavera ed è ora che chi ha, o avrà, responsabilità nel guidare il Paese, si renda conto del vero “differenziale” che regna tra tanti cittadini esasperati. Quest’amara sensazione di politici che non colgono l’urgenza delle riforme, pur parlandone da sempre. Che non danno segnali forti per cambiare nel concreto. Che scambiano i buoni propositi per decisioni operative, e così evitano di prendere decisioni. Ma il 2014 non può essere la prosecuzione del 2013 con qualche sorriso in più.

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L’idea incoraggiante del ministro Carrozza

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

In tutto il mondo la buona politica di un governo si giudica, prima ancora che dalle sue scelte economiche, dall’attenzione che ministri e primi ministri dedicano alla scuola. Investire sul domani è il modo, lungimirante, anche per risolvere le crisi dell’oggi. Se lo Stato contribuisce a formare una generazione di ragazzi capaci di affrontare le sfide del tempo, allarga il campo delle conoscenze, cioè del saper fare ovunque la cosa giusta al momento giusto. Semina educazione civica. Coltiva la civiltà dei rapporti, delle memorie, del futuro. Tutti i nostri sogni personali e collettivi sono nati o passati dalla scuola.

Eppure, soltanto da noi il tema dell’insegnamento è stato relegato a battute da campagna elettorale. Oppure a riformette che, di volta in volta, hanno quasi sempre peggiorato il sistema scolastico arrugginito e mal organizzato, però di grande valore che pure avevamo e abbiamo.
Perciò quest’idea lanciata dal ministro della Pubblica istruzione, Maria Chiara Carrozza, di una grande consultazione per decidere “che scuola volete”, al di là delle forme un po’ così (tipo il “referendum sul web”), e sorvolando sul fatto che un ministro dovrebbe dare risposte anziché porre domande, è comunque un’idea incoraggiante e da incoraggiare.

Forse significa che il governo è deciso a considerare la scuola la madre di tutte le battaglie per poter costruire una società più giusta e felice. Dove a materie come la storia dell’arte, la musica e lo sport venga finalmente riconosciuto il peso che meritano. Dove il digitale possa diventare la stampella di laboratori e biblioteche per fondere l’antichità di modernità. Dove i bravi insegnanti di cui, nonostante gli stipendi da fame, il nostro Paese straripa, vengano visti come dei Maestri di vita e non solo di studi: più essi potranno far bene, più i nostri figli saranno cittadini consapevoli e universali, privi di quelle paure verso le novità e le diversità che spesso affliggono gli adulti. E che purtroppo si trasformano in arma politica: basta vedere lo scontro “ideologico” sull’integrazione dei figli degli immigrati, tema che richiederebbe soltanto buonsenso, prudenza e visione lontana.

Insomma, la scuola è l’Italia che vorremmo essere, e saremo. E’ il nostro bene più prezioso, anche se maltrattato. E’ un tesoro che dall’asilo all’Università continua a sfornare giovani in gamba, che sanno farsi valere dappertutto, in barba alle aule malconce in cui sono diventati donne e uomini. E’ tempo, allora, che la discussione cominci, che questa “costituente” – come ama chiamarla il ministro Carrozza -, produca l’unica riforma in grado di riassumerle tutte: il rinnovamento della grande, ma troppe volte dimenticata Scuola italiana.

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La commozione degli italiani per Pier Luigi Bersani

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Il sentimento di dolente incredulità che ha mosso e commosso tanti italiani per il malore che ha colpito Pier Luigi Bersani, ha un risvolto politico che va ben oltre il senso di umanità e di solidarietà che proviamo d’istinto per chi soffre. Un risvolto “politico” nel significato nobile della parola (in tempo di anti-politica e di crescente disgusto nel Paese per il Palazzo, la cosa va subito precisata).

QUALCUNO CHE CI CREDE
È come se, all’improvviso e a sorpresa, avessimo riscoperto una dimensione che avevamo totalmente rimosso dalla politica: che possa esserci davvero, e non per finta, qualcuno che ancora “ci crede”. Al punto da potersi ammalare e finire sul serio in ospedale, cioè dando tutto se stesso per la causa o “per la Ditta”, come correggerebbe l’ex ma sempre spiritoso leader del Pd.

NON SOLO GIOIE
Certo, dalla malattia che in anni recenti interessò Umberto Bossi a quella che in precedenza -giugno 1984-, aveva colpito a morte Enrico Berlinguer, lo storico segretario del Pci, da sempre è noto che fare politica comporti grandi sacrifici, e non soltanto importanti soddisfazioni. Tralasciando ogni discorso di potere, che pure è insito nella ragione sociale d’ogni Ditta-Partito: governare o fare opposizione, poter comunque contare è il traguardo da tutti sognato. Ma nel caso di Pier Luigi da Piacenza, sessantatré anni portati con disincanto, c’è dell’altro.

QUASI ALLA VITTORIA
Quest’uomo che ha portato il Pd al “quasi-gol” per il governo e per il Quirinale, questo signore senza baffi e dalla fronte ampia che col giovane Matteo Renzi ha vinto la battaglia delle primarie, ma perso la guerra della segreteria, questo leader che s’è divertito a farsi canzonare in diretta dalla sua controfigura interpretata da Maurizio Crozza (e senza che i telespettatori capissero chi dei due fosse il vero Bersani), sembra uscito, senza esservi più rientrato, da una pagina di Guareschi. Una sorta di Peppone della modernità, a cui forse è mancato un vero Don Camillo col quale prendersi a botte. Posto che il giovane Renzi le avrebbe soltanto prese, e che il meno giovane Enrico Letta sarebbe stato incapace di darle.

COMMOZIONE POPOLARE
“È un duro mite”, è la bella definizione del fratello e medico Mauro Bersani. Ecco, forse qui sta la spiegazione del perché tanti cittadini, anche quelli che non l’hanno votato e che mai lo voterebbero, siano rimasti così dispiaciuti dell’effetto extra-politico pagato da chi fa politica con serietà da molti anni. Come quel celebre comunista di cui si mettevano in risalto gli strafalcioni anche sulla famosa battaglia di Filippi da lui convertita in Filippo (“non confondiamo la storia con la geografia”, risponderà Don Camillo a Peppone), anche il colto Bersani è rimasto vittima delle sue battute e metafore. Per quella sul giaguaro che voleva smacchiare, dovrebbe pretenderne i diritti d’autore per viverne di rendita.

LA SINISTRA CHE DIVORA I SUOI FIGLI
Ma a Peppone-Bersani non si è perdonato quel che si perdonava al Peppone-Gino Cervi nei film. Una sinistra abituata a divorare i suoi figli, e diventata col tempo e con le sconfitte divoratrice dei suoi stessi padri, ha finito con l’addossare a Pier Luigi non soltanto le colpe politiche che aveva, ma anche quelle immaginarie. Se il Pd avesse vinto le ultime elezioni, anziché non averle perse, la battuta sul giaguaro e le altre non meno bizzarre sarebbero state considerate perle di saggezza di un Timoniere che parla il linguaggio del popolo. Ma tant’è: guai ai vinti.

LA DIMENSIONE DELLA SCONFITTA
Eppure, del Bersani ammalato e per il quale oggi tutti, indistintamente, tifiamo, stiamo riscoprendo proprio la dimensione della sconfitta. Dopo il ritiro, l’uomo s’è limitato a scrivere un libro. A dire che, se c’è bisogno, lui ancora remerà per la Ditta. A sostenere con lealtà il governo. A non fare il vendicativo elenco, nome per nome, di chi lo ha tradito quando cercava di formare un improbabile governo, e soprattutto quando tentava di portare uno dei suoi al Quirinale.

DEGNO DI STIMA
Bersani ha pagato, dunque, anche per errori non suoi, come fu l’incredibile bocciatura di Franco Marini e specie di Romano Prodi da parte di “onorevoli” del Pd che in precedenza avevano assicurato il loro appoggio e voto. Nel momento della difficoltà, la gente dà sempre valore alle cose importanti. E un politico che crede in quello che fa, che sbaglia ma non recrimina, che sa mettersi di lato dopo essere stato di fronte e al fronte, è un italiano degno di stima e di rispetto.

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Così Cristicchi racconta con delicatezza l’orrore delle foibe

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sul Tempo

Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti?

IL POSTO DELLA MEMORIA
Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di “propaganda anti-partigianaper lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali.

L’ESILIO GIULIANO-DALMATA
Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola “colpa” d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi.

UNA TRISTE EPOPEA
Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo.

IN CERCA DI GIUSTIZIA
Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo “giustizia”. Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a “comprendere” e a “condividere” la vicenda.

L’OPERA DI CRISTICCHI
È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo “Magazzino 18”, andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato.

SCOPERTA TARDIVA
Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato “giorno del ricordo” il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani.
Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria.
Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal “Tempo”, con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile.
La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.

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Machiavelli e il potere del web

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona e Brescia Oggi

Si sa che ambasciator non porta pena. Ma la valanga di comunicazione che ogni giorno, pardon, ogni secondo la Rete rovescia sul nostro mondo, si sta sempre più caricando di messaggi ben più che penosi. Si tratta di messaggi odiosi, orribili, osceni più tutta la variazione che gli aggettivi con la lettera “o” di orripilante possano aiutarci a immaginare. Lungi dal costituire un’antica Bocca della Verità in versione moderna e telematica, lo strumento oracolare del cosiddetto social network da tempo è diventato ombrello delle peggiori offese e d’ogni genere di calunnia. L’anonimato mette al riparo quanti hanno soltanto voglia di insultare il prossimo, di diffondere i propri pregiudizi senza rischiare nulla. Se non il corto-circuito di altra gente che insulta chi insulta, dando vita a una zuffa virtuale e senza fine tra lo squallore e il codice penale.

Non è questo ciò che la straordinaria novità di Internet voleva rappresentare e rappresenta. Anzi, si può dire che l’odierna e quotidiana Bocca della Menzogna scaricata in Rete, costituisca il tradimento dei grandi obiettivi della svolta tecnologica. Una svolta che permette a chiunque di mettersi in contatto con chiunque e ovunque, per esprimere ciò che vuole senza che nessun potere né padrone possa impedirglielo. Quasi la realizzazione di un’utopia a lungo perseguita: ogni persona dell’universo ha il diritto di poter dire, ossia vivere, in libertà. Un traguardo dal quale non si torna più indietro. Tant’è, che Internet è l’ultima e talvolta unica spina nel fianco dei regimi dittatoriali ancora in piedi, che qua e là sopravvivono in agonia alla decenza della giustizia e alla dignità delle democrazie. Regimi dalle ore comunque contate, anche grazie alle “liberazioni” che Internet ha incoraggiato e reso possibile, facendo parlare cittadini e popoli tra loro senza confini e senza censure.

Ma per quanto meritoria e foriera di conoscenze per tutti, anche la meravigliosa rivoluzione comunicativa della quale siamo sia protagonisti che testimoni, sta svelando sempre più un lato oscuro. Come altrimenti considerare la spazzatura che ogni giorno viene raccolta e buttata in Rete fra chi augura la morte a persone malate, chi inneggia al razzismo, chi picchia disabili, li fotografa e subito li mette nel circolo e circo virtuale, per farsene pure beffa in un crescendo di ferocia?
La realtà è che neanche questa invenzione contemporanea dev’essere divinizzata: Internet non è un tabù. Anche nell’ambito della politica, che molto vi ricorre, guai al mito: nessuna scelta rilevante può essere ridotta a un tweet, a un post, a un sms, all’esito di un referendum virtuale per pochi o tanti intimi. Parafrasando e attualizzando Machiavelli, già nel mezzo, che per forza di cose semplifica, ci dev’essere un po’ di fine. Ed è evidente che il mezzo fatichi per sua natura – natura rapida e incisiva -, a far suo il momento della riflessione profonda, del dibattito alla pari, dell’incontro senza paraocchi, dei tanti particolari e delle importanti differenze che riempiono il senso stesso della vita. Ma di una vita vissuta nella realtà, non nel reality.

E nella vita d’ogni giorno gli insulti, le calunnie, le violenze, soprattutto, non sono né sarebbero tollerabili. Non si comprende, allora, perché dovremmo rassegnarci a subirli come oro colato e calato in Rete da chi clicca solo per sfogare sugli altri il peggio di sé.

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Fine della politica?

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Pezzo pubblicato oggi su L’Arena di Verona e Brescia Oggi

Hanno atteso il verdetto della Corte come quegli allievi un po’ svogliati e poco preparati che a un certo punto s’arrendono, e dicono: “Senta, profe, ci aiuti lei a risolvere il problema”. E in punta di penna, gli Eccellentissimi della Corte Costituzionale hanno così vergato e depositato il compito reclamato: ventisei paginette di lezione per illustrare perché sia stata cancellata la tanto discussa -solo discussa e mai cambiata-, legge elettorale.

Con alcune prescrizioni al legislatore, come le ricette presso il buon farmacista, sui possibili rimedi per non costringere più la Consulta a intervenire con un’altra e ancor più severa bocciatura. Ma ce li immaginiamo ai tempi di Craxi, De Mita, Berlinguer e Spadolini (per non scomodare i precedenti di Moro o di Fanfani) i quindici giudici delle leggi spiegare al Parlamento come si fa la legge elettorale? Mai avrebbero osato. Perché mai sarebbe accaduto quel che è invece accaduto per tre legislature di fila per deputati e senatori: l’inadempienza politico-legislativa sulle loro stesse parole. “Cambieremo il Porcellum”, giuravano gli onorevoli, e già dare quel nome di battesimo all’atto sovrano per eccellenza rende l’idea del pasticcio combinato.

L’ultima supplenza della Corte Costituzionale, che nell’epoca della vituperata prima Repubblica avrebbe creato un conflitto politico-istituzionale senza pari, conferma che sul ponte del Palazzo ormai sventola bandiera bianca. Da tempo la politica ha rinunciato a far valere il suo volere, che poi è quello degli elettori. E allora nel vuoto di potere s’infilano tutti gli altri poteri, perché la vita della nazione, come lo spettacolo, deve continuare. E la Corte Costituzionale si trasforma in una sorta di terza Camera di pronto soccorso. E la magistratura con le sue inchieste ricorda alle Regioni che le spese pazze, fossero anche e soltanto mutande, non sono contemplate nell’esercizio delle pubbliche funzioni. E il presidente della Repubblica, tra i pochi che ancora sanno e cercano di “fare politica”, è costretto a battezzare tecnici al governo e soluzioni tecniche di governo per non mandare l’economia in tilt. E a loro volta gli economisti, i banchieri e chiunque capisca della materia indicano ai partiti diversi percorsi per uscire dalla crisi, per rilanciare la produzione, per incrementare l’occupazione. Tutti protagonisti, fuorché loro, i politici. Gli attori primi.

Parafrasando un celebre concetto e libro di Francis Fukuyama, il politologo americano che nel 1992 paventava la “fine della storia” (previsione e analisi non avveratesi, per la fortuna di noi tutti), qui siamo alla più immediata ma non meno preoccupante “fine della politica”. Nel senso che i governi e le legislature galleggiano senza sapere che fare, né dove andare. La politica ha paura di decidere, e perciò si barcamena, cambia idea nel volgere di una battuta, dimentica il programma presentato o lo ribalta. Spera, semplicemente, che passi la burrasca, intanto affidandosi alle soluzioni e alchimie altrui.

Ma il principio di responsabilità è il vessillo di una classe dirigente. Chi si assume un compito, specie se arduo, dà anche l’esempio. E mostra d’avere la consapevolezza del ruolo. Un politico che sbaglia una decisione, è comunque preferibile a un altro che non decide per non sbagliare. Il tempo della lunga supplenza deve finire e la politica dovrebbe ritrovare, se ne sarà capace, l’orgoglio di fare buone leggi e di servire i cittadini.

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Ora Letta non ha più alibi

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

In apparenza la sfida di Matteo Renzi, il segretario del Pd che sta mettendo il Pd con le spalle al muro, può sembrare tutta casalinga. E le piccate dimissioni di Gianni Cuperlo dalla presidenza del partito confermerebbero quest’impressione. Mai, del resto, un leader della sinistra italiana, sia pure nella versione più riformista finora sperimentata, aveva mostrato tanto decisionismo sia nel merito che nel metodo delle proposte. Uno stile inedito non solo tra i progressisti, e che molto presto potrà essere da tutti giudicato: nel giro di un paio di mesi, al massimo, vedremo se la nuova legge elettorale, l’abolizione del Senato e la più avveduta distribuzione di competenze fra Stato e Regioni, ossia le tre nuove carte di Renzi sul vecchio tavolo della politica, saranno state quel cambiamento sognato da troppo tempo o l’ultima e fiorentina acrobazia del solito bluff di Palazzo.

Ma in attesa di capire se il giovane Matteo riuscirà a far realizzare quel che intanto ha promosso (e non soltanto promesso: è già qualcosa), il vero “sfidato” da questa mossa e da questa scossa si chiama Enrico Letta. Ora il presidente del Consiglio non ha più alibi. Adesso che la maggioranza ha un orizzonte ben più largo delle larghe intese nel frattempo ristrette, adesso che il governo è indirettamente blindato proprio dalle iniziative legislative e costituzionale richieste da Renzi e concordate con Silvio Berlusconi, cioè col nemico di sempre, iniziative che richiedono tempo, non ci sono più scuse per far valere il rovescio della medaglia: che cosa Letta sa fare per scuotere la ripresa, volano delle riforme che cammineranno in parallelo.

“Ripresa” significa cogliere ogni occasione e varare ogni misura per consentire alla locomotiva Italia di rimettersi in viaggio. Ma ripresa vuole soprattutto dire ridare fiducia agli italiani. Per esempio la certezza al contribuente d’essere un cittadino “servito” dallo Stato, e non un suddito sottoposto a ogni genere di coda e di angheria burocratica persino quando deve pagare le imposte. Si chiamino Tares, mini-Imu o Giuseppe. Eppure nessuno sa quanto e quando, dove e come, se non nell’immediata scadenza delle rispettive e ripetitive incombenze. E’ una piccola, grande indecenza che deve finire. Sospinto dal ciclone-Renzi, da oggi alle prossime scadenze fiscali Letta ha tutto il tempo per fare, anche lui, una svolta necessaria: archiviare il modo feudale con cui lo Stato ancora si rivolge agli italiani in era moderna. Dove l’efficienza, la velocità e la coerenza delle decisioni prese, contribuiscono a formare il giudizio dei cittadini -oggi pessimo- sulle loro istituzioni. Letta batta un colpo, per non perdere la sua sfida non solo con Renzi, ma soprattutto con l’Italia.

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I numeri di Santacroce sulla giustizia

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Anche nella giustizia vale la regola del buon giornalismo: i dati separati dalle opinioni. Ma c’è poco da commentare sui numeri elencati dal primo presidente della Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, nella tradizionale inaugurazione dell’anno giudiziario. La durata media di un processo è di cinque anni. I furti e i fallimenti sono aumentati notevolmente, frutto avvelenato della crisi economica. La corruzione resta pressoché impunita, troppe volte dichiarata estinta perché prescritta. E, in compenso, le carceri straripano di detenuti che vivono male la loro pena, e che spesso potrebbero scontare altrove, comunque in maniera umana, le colpe per le quali sono stati condannati. Fa perciò un certo effetto, e diventa quasi una metafora di questa giustizia impotente, che sia proprio il presidente Santacroce a sollecitare l’indulto come soluzione all’emergenza nei penitenziari.

Del resto, mentre si segnalano anche il confortante calo degli omicidi e una diminuzione (peraltro impercettibile: il 4 per cento) delle cause civili arretrate, che restano un’enormità, non si contano le inchieste della magistratura sulle “spese allegre” nelle Regioni. L’ultima? In Abruzzo. Tutte inchieste che sono ormai diventate un triste giro d’Italia a caccia di chi l’ha combinata più grossa coi rimborsi elettorali.

La relazione del presidente con tutte le sconfitte di una giustizia che fra tempi lunghi e cavilli-boomerang finisce per non essere percepita come “uguale per tutti”, accendendo un mare di polemiche in nome delle parti e dei partiti, aiuta anche a far vedere dove sia la radice del male: nella comprovata e perdurante incapacità del legislatore di pensare e approvare una riforma “dalla parte dei cittadini”.

E perciò l’incapacità di capire il danno anche economico che discende dall’ingiustizia civile, se i tempi sono da lumaca. L’incapacità di cogliere lo smarrimento della società a fronte dell’incertezza della pena, di pene leggere o prescritte, di delitti e reati poco perseguiti anche quando vengono individuati. Per troppi anni, il tema della giustizia s’è invece ridotto a una contesa da alta sfera: come risolvere il problema dei rapporti sempre più tesi fra parti delle toghe e parti della politica (“una vera e propria spina nel cuore per noi magistrati”, secondo lo stesso Santacroce). Ma una grande riforma dovrebbe essere ispirata a un approccio ben diverso: che fare in Parlamento per rendere la giustizia sempre più un servizio di legalità per tutti i cittadini. Sono le prime parole di ogni sentenza: “In nome del popolo italiano”.

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La forza di Renzi ha due debolezze

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Non sarà un ultimatum, ma molto gli somiglia. Per chiudere il cerchio delle alleanze e soprattutto evitare il Vietnam sulla legge elettorale in Parlamento, Matteo Renzi si cala l’elmetto e avverte i naviganti: se salta l’accordo, “salta la legislatura”. Lui parla a nuora (cioè a quanti sollecitano l’introduzione delle preferenze e soglie più basse di sbarramento e più alte per il premio di maggioranza), perché le tante e stralunate suocere nel Pd intendano. Non sarà tollerato, dunque, che la componente minoritaria nel partito, ma maggioritaria alla Camera dei deputati, dove il testo giace ed è all’esame in queste ore, disfi la tela dell’intesa con Silvio Berlusconi a colpi di emendamento.

Penelope stia alla larga dall’Italicum, ammonisce il battagliero fiorentino. Sul punto Renzi sa di giocarsi sia la buona reputazione che s’è guadagnato con le primarie e fra gli italiani, sia un modo nuovo di esercitare il nuovo ruolo di segretario. Ha bisogno di far vedere che, con lui, la musica è cambiata: il segretario del Pd è anche il leader del Pd. Viceversa, partire con una disobbedienza di massa alla prima e così rilevante riforma da troppo tempo inutilmente perseguita, sarebbe come rievocare il fantasma dei 101 parlamentari che nel segreto dell’urna impallinarono la salita di Romano Prodi al Quirinale. Il disastro.

Il monito di Renzi ha la forza di due debolezze. La prima è del suo principale interlocutore, il Cavaliere caduto da cavallo, al quale non resta altro margine di manovra, se non di rispettare alla virgola il compromesso raggiunto. Non può alzare alcuna posta, e le carte le dà il giovanotto e dirimpettaio. La seconda debolezza è dell’esecutivo, nel quale il suo capo, Enrico Letta, è stato costretto a prendere ad interim il dicastero delle Politiche agricole appena abbandonato per protesta da Nunzia De Girolamo (“il governo non ha difeso la mia onorabilità ”), dopo le polemiche per l’inchiesta sulla Asl di Benevento e la mozione di sfiducia presentata dai Cinque Stelle. Non poter azzardare neanche un rimpasto, e subito, dà l’idea non solo della prudenza del giovane Letta, ma anche dell’effetto già provocato dall’amico-antagonista. Quel Renzi che ripete d’essere disinteressato a qualsiasi ricambio nel governo. “Pratiche da prima Repubblica”, le ha liquidate. E così Enrico Letta deve fare buon viso a cattivo gioco, sostenendo che se passa questa riforma elettorale non a lui tanto congeniale, “sarà un bene per l’Italia e per il governo”. Di fatto è una previsione corretta.

A prescindere dal contenuto che comunque può essere limato senza essere stravolto (per esempio prevedendo anche delle primarie di collegio per lenire la ferita della mancanza di preferenze), l’eventuale approvazione di una riforma inseguita da tre legislature metterebbe l’esecutivo al riparo da agguati di altro genere, e consacrerebbe il sindaco di Firenze come l’uomo della svolta. Qualcosa del genere capitò, in altri tempi e contesti, a un altro irregolare, sia pure più timido e tiepido: Mariotto Segni da Sassari. Pur inviso alla partitocrazia dell’epoca, a colpi di referendum questo democristiano anomalo riuscì a seppellire il sistema proporzionale e a introdurre l’elezione diretta del sindaco, e poi del presidente di provincia e poi del cosiddetto governatore nelle regioni. Una rivoluzione tranquilla. E chissà che Renzi, il rinnovatore di oggi, portata a casa, come deve, la legge elettorale, non apra la porta all’elezione diretta del capo dello Stato, con la quale la parabola della grande riforma sarebbe compiuta.

Ma intanto il leader del Pd deve preoccuparsi delle minuzie, di come salvare la pelle dell’accordo alla Camera. E la minaccia ai suoi e a tutti di inevitabile voto anticipato in caso di brutte sorprese, può contribuire all’obiettivo: far vedere che fa quello che dice. In tempo di anti-politica dilagante non sarebbe un dettaglio. Anche se lo stesso atteggiamento decisionista e ammonitore Renzi farebbe bene a tenerlo sul tema del lavoro, della ripresa, delle troppe tasse, dell’evasione insopportabile, dei privilegi inauditi. Cose di gran lunga più importanti e “sentite” dai cittadini: l’Oeconomicum dopo l’Italicum.

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Cosa fare contro la corruzione in Italia

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

La più esperta e mai tenera Corte dei Conti, che da sempre denuncia abusi, illeciti e privilegi del sistema-Italia, ha definito “esagerato” il primo e impietoso rapporto dell’Unione europea sulla corruzione nel nostro Paese. Ma c’è poco di che consolarsi. Anche se la stima della Commissione fosse eccessiva, e risultasse infondata l’indicazione di sessanta miliardi di euro all’anno (il 4 per cento del nostro pil) il valore, si fa per dire, del malaffare nel Belpaese, il problema è uno solo: che fare per reagire alla realtà e alla percezione di una corruzione dilagante e impunita. Non c’è bisogno, allora, dell’ennesima lezioncina di Bruxelles. Abbiamo già imparato da tempo e da soli quale sia il male oscuro che rovina la politica, mina l’economia, frena le speranze e induce tanti giovani ad andarsene.

Ma proprio perché il livello di indignazione generale ha raggiunto la soglia del “non ritorno”, a tal punto che dall’oggi al domani un partito ha potuto raccogliere il venticinque per cento dei consensi salendo sull’onda facile del “non ne posso più” (vedi Grillo), è arrivato anche il momento di estirpare il cancro corruttivo. Forse occorrono nuove e più rigorose leggi, come l’Europa sollecita, citando i cattivi esempi di prescrizioni, leggi ad personam, lodi vari, depenalizzazioni e via col solito elenco? Certo che sì: la legge è il fondamento dello Stato del diritto per contrastare lo stato del delitto.

Ma pur avendo l’Italia la legislazione più dura al mondo contro la mafia, essa ancora non basta per debellare la criminalità organizzata, per rompere ogni forma di contiguità fra delinquenza e politica, per scoprire le tangenti, per impedire i ricatti a cui sono sottoposti, specie al Sud, tanti inermi cittadini. Anche una buona legge ha bisogno di una cornice istituzionale di grande e duratura riforma, che consenta di rendere più efficiente l’intera organizzazione dello Stato, e che finisca, così, per incidere sul costume di una politica immobile e inconcludente. Nel pantano crescono solo le ombre.

Le riforme, quelle che da trent’anni infatti mancano, sono il primo antidoto contro il veleno del malaffare. Non la bacchetta magica, che nessuno può avere, né rivendicare. Ma l’indispensabile segnale collettivo perché la classe dirigente possa riscoprire, e far riscoprire, la forza invincibile della buona amministrazione invocata dagli italiani a prescindere da ogni posizione politica. Se le riforme aiuteranno a cambiare, sarà un bene anche contro il male della corruzione.

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Che cosa ha capito Renzi

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Non le nuove idee né la giovane età. Neppure quell’approccio da Gianburrasca che “twitta” prima ancora di parlare, e che non le manda a dire, annunciando buona rottamazione a tutti. La vera novità che Matteo Renzi sta invece portando nella politica italiana, riguarda i tempi. E i tempi in politica sono tutto.

L’orologio di Enrico Letta non gira con la stessa velocità di quello del sindaco di Firenze e sempre più leader del Pd. L’ora legale del presidente del Consiglio, che “non vuole galleggiare”, contro l’ora solare dell’antagonista fiorentino, che dice: a me converrebbe andare a votare, all’Italia no. E in questo paradosso si sta consumando l’ultimo braccio di ferro tra governo e riforme, tra due caratteri ma anche modi di concepire l’impegno nelle istituzioni. Con prudenza o con coraggio. Pochi giorni restano per trovare l’accordo nel disaccordo. E ogni previsione (nuovi ministri, Letta bis, elezioni, Renzi a sorpresa a palazzo Chigi?) ha un suo fondamento. Anche se l’unica certezza, oggi, è che così, con un governo che non governa, non si andrà avanti.

L’obiettivo che s’era prefisso Letta con il sostegno del Quirinale (ma in era pre-Renzi), era d’arrivare al 2015, l’anno dell’appuntamento universale dell’Expo a Milano, passando per la presidenza del semestre europeo, che dal luglio di quest’anno spetterà all’Italia. E puntando a rasserenare la politica e l’economia. L’obiettivo di Renzi è più semplice e d’impatto: cambiare. Cambiare il sistema elettorale, la struttura costituzionale, la strategia economica e perfino l’ipotesi di larghe intese. “Mai più con Berlusconi”, ripete il leader del Pd, che proprio per questo col Cavaliere ha concordato le riforme in cammino. Letta e Renzi, le divergenze parallele, anche se l’uno giura d’apprezzare l’Italicum, cioè l’intesa Pd-Forza Italia, e l’altro assicura di voler sostenere questo esecutivo. Ma il loro è un dialogo fra sordi. ù

Le primarie che hanno incoronato Renzi alla guida del Pd, legittimandolo a dare le carte nella legislatura, hanno reso ancor più fragile quel ruolo da “pronto soccorso”, e con una larga intesa nel frattempo rimpicciolitasi, che Letta s’era ritagliato. Ma è soprattutto la situazione economica che sta rovesciando l’agenda del presidente del Consiglio. Contrariamente agli annunci e alle previsioni macro-economiche di prospettiva, oggi e subito i cittadini non vedono segni di ripresa. Gli imprenditori piccoli e grandi sono furenti. I giovani non colgono svolte, il lavoro langue. Questo è quello che Renzi ha capito “in fretta”: che il tempo è scaduto per tutti.

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Tutti gli effetti del referendum svizzero sull’immigrazione

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Si potrebbe ricordare che la Svizzera è fuori dall’Unione europea. E sottolineare che soltanto per il rotto della cuffia (50,5 per cento dei “sì”) i suoi elettori hanno appena approvato il referendum che limita l’immigrazione a casa loro. La limita, appunto, non l’impedisce: ecco la terza ragione per non sopravvalutare l’esito di quel voto a sorpresa.

BENZINA SUL FUOCO?
Eppure, la decisione di rendere meno libera la libera circolazione dei cittadini in un territorio da sempre neutrale nel cuore geografico del Vecchio Continente – compresa e compressa la libertà degli stessi europei -, può diventare benzina sul fuoco. Benzina per chi, a ogni latitudine, predica contro gli immigrati, contro l’euro, contro l’”Europa nemica dei popoli”. Sull’onda di una crisi economica e sociale che ha sconvolto la vita di moltissimi cittadini d’ogni categoria ed età. E non bastano le anti-prediche infarcite di euro-retorica per rassicurare chi protesta. Burocrati e politici continuano a sottovalutare il malessere profondo degli europei delusi dall’Europa in cui credevano.

LA PAURA DEGLI ALTRI
Ma per ritrovare il senso di un’opportunità fra ventotto Paesi, e soprattutto la convinzione che insieme si possa e si debba ripartire, la soluzione non è rinchiudersi ciascuno nel suo fortino. Meno che mai agitare lo spettro delle paure. La paura per gli altri “che rubano il lavoro”, per l’economia che esclude, per i governi incapaci di affrontare i fenomeni che stanno cambiando il nostro tempo.
Molti fra quelli che l’applaudirono, hanno dimenticato in fretta il primo atto di Papa Francesco: andare a Lampedusa, l’ultima (o la prima) frontiera d’Europa, per denunciare la “globalizzazione dell’indifferenza”. La grande questione dell’immigrazione non si affronta con l’accetta dei referendum che, guarda caso, la Lega già invoca in Italia. Si affronta con misure degne dell’Europa che le prende e delle persone europee ed extra-europee a cui sono rivolte.

OPPOSTE TIFOSERIE
Da troppo tempo, viceversa, questo tema oscilla fra le opposte demagogie e tifoserie del chiudere le frontiere oppure dello spalancare le frontiere. Ma sull’immigrazione i governi, e almeno il nostro, dovrebbero avere uno sguardo lontano e una legislazione vicina, in grado di integrare non l’impossibile universo, ma quel sette per cento di popolazione, e soprattutto i figli di quella popolazione, che già vive fra noi. Con rigore e con generosità. E forse ricordando che il benessere della Svizzera è opera anche dei tantissimi cittadini italiani che sono andati da “stranieri” a fare i lavori da loro rifiutati.

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Innerhofer, Zöggeler e non solo. Ecco perché i campioni dovrebbero ispirare la politica

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Sei centesimi di secondo. È il tempo, inafferrabile, che avrebbe potuto trasformare in oro la già splendida medaglia d’argento conquistata da Christof Innerhofer (nella foto) alle Olimpiadi di Sochi. Gli italiani semplici e di provincia, alla Innerhofer da Brunico, Alto Adige, confermano di saper vivere da campioni nel mondo che cambia. Inseguono l’attimo fuggente, vogliono vincere.

Per restare nello sport (e al solo fine settimana appena trascorso), ecco il titolo europeo conquistato dalla nostra Nazionale maschile di calcio a cinque proprio ai danni della Russia, l’organizzatrice dei Giochi invernali in corso. E poi l’ottava semifinale in nove anni raggiunta dalla Nazionale femminile di tennis, che ha battuto gli Stati Uniti.

E poi Fabio Fognini, che è diventato il quattordicesimo tennista più forte al mondo. E soprattutto la sesta medaglia di fila in sei Olimpiadi di fila appuntata al petto del carabiniere Armin Zöggeler, detto il Cannibale, perché in vent’anni di slittino se li è divorati tutti. Nessuno mai come lui, l’uomo nella leggenda.

Non c’è disciplina -e il termine non poteva essere più azzeccato-, in cui gli italiani non dimostrino coi fatti d’essere bravi. Capaci di dirigere le principali orchestre del mondo, di condizionare lo stile della moda, il piacere del mangiar bene, il bel canto lirico e pop, la tecnologia per lo spazio, l’intelligenza nell’intraprendere ovunque e, cosa che non guasta, la competizione sportiva di passione e di perizia.

Ma nessun Innerhofer, nessun Zöggeler, nessun Riccardo MutiLaura Pausini passano le loro giornate a chiedere “verifiche”, a immaginare “rimpasti”, a sperare -a proposito di sport- nelle “ripartenze”.

Sei centesimi di secondo rendono patetico il modo e il mondo di Enrico Letta più tutti i politici che sfogliano la margherita dentro e fuori dal governo. Si parla di una classe dirigente ancora convinta che le crisi economiche s’affrontino non già con decisioni rapide e coraggiose, da discesiti azzurri, da Cannibali che scendono a 135 chilometri sul ghiaccio fra le curve di montagne mai così “russe”, bensì “aprendo un tavolo”, come Lorsignori hanno ribattezzato gli incontri per parlare.

C’è l’Italia degli italiani comuni e straordinari, che in casa e all’estero affrontano ogni tipo di sfida, spesso vincendola alla grande. E c’è l’Italia di Letta con tutte le sue lumache e tartarughe: l’eterno balletto. Un’Italia pigra e imbalsamata, senza velocità, che non accompagna la nazione in cammino. Che da due anni non sa come liberare i nostri due marò “sequestrati” in India con l’inganno, e trattenuti in barba al diritto nazionale e internazionale. Per questo scandalo planetario siamo ancora al “reagiremo”, ultima promessa di un governo che, come il precedente, s’è fatto mettere all’angolo con incompetenza.

Un’Italia chiusa nel Palazzo e nelle auto blu ridipinte di grigio. Un’Italia che si attarda in riti stanchi e inconcludenti, che “tratta” sempre e su tutto, sperando di mummificare anche il nuovo arrivato Matteo Renzi. È giovane, figlio dell’epoca presente in cui l’apparire conta più del messaggio. Ma lui almeno ha capito che in politica, come nella vita, i tempi sono tutto. E perciò vuole una riforma elettorale e costituzionale oggi e subito, anziché perpetuare il trentennale dibattito politico-parlamentare sul nulla che il nulla ha partorito.

Quell’attimo fuggente, che in un’Olimpiade separa l’oro dall’argento o dal bronzo, distingue pure la buona dalla cattiva politica sul podio. E comunque la lascia giudicare ai cittadini e agli elettori. Ma se gli eletti non decidono, che potremo mai giudicare?

Viene da chiedersi, allora, perché la politica italiana, e soltanto italiana nell’intera Europa, non riesca a tenere il passo avanzato e sicuro della sua società. Perché solamente noi, e noi solamente, non sappiamo inventarci governanti che governino, confermandoli o mandandoli a casa fra un’Olimpiade elettorale e l’altra. Persino il Cannibale, che pure è il Cannibale, sa già che un giorno, speriamo lontano, si ritirerà dalla scena. Gli italiani comuni e di provincia sono fatti così: riconoscono anche il momento di andar via, e vanno via con dignità.

Viene da chiedersi quando avremo un governo che darà importanza a sei centesimi di secondo.

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Renzi riparta dal Nordest

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La fase della speranza, quella del “Matteo, facci sognare!”, è finita. Tutto ciò che ha portato a una grande e trasversale simpatia per il sindaco non più di Firenze, ma dell’Italia da ieri, giornata del giuramento del nuovo governo, è dietro le spalle. Basta, dunque, parlare delle primarie che l’hanno incoronato. O discutere, ancora, dello stile machiavellico col quale il giovane Renzi ha liquidato il giovane Letta. Oppure polemizzare sulle idee movimentate e movimentiste con cui il presidente del Consiglio incaricato ha catturato da tempo l’attenzione degli italiani: anche la sua celebre “rottamazione” fa ormai parte della preistoria, insieme coi reperti archeologici di una vecchia politica spiazzata e spazzati via da questo vento improvviso, ma non inatteso che soffia su palazzo Chigi.

Ora il Giamburrasca è primo ministro e non ha più alibi. Tocca a lui e all’esecutivo snello, giovane e paritario fatto a sua immagine e somiglianza, prendere il toro per le corna, cioè affrontare la prima emergenza. Che non è affatto né elettorale né costituzionale, ma che si chiama “lavoro”. E allora Renzi forse farebbe bene a organizzare la sua prima visita ufficiale tra le aziende e i cittadini del Nordest. Non soltanto per constare di persona, e subito, il concreto livello di crisi e di sfiducia che ha colpito tanti imprenditori e lavoratori. Alcuni dei quali in questi mesi sono perfino arrivati per disperazione -come si sa, ma troppo in fretta s’è dimenticato-, a togliersi la vita. Dunque, venga a sentire il dolore del Nordest, il presidente del Consiglio. Ma venga anche a capire che proprio da questo territorio ferito, ma non arreso, può ripartire la locomotiva-Italia. Serve un segnale forte, l’impulso che il governo-Renzi intende approvare sul serio misure che consentano di produrre meglio, di esportare di più, di dare l’unica cosa che da sempre si chiede: fare il proprio lavoro senza essere impediti da una burocrazia coi paraocchi, né tartassati da un fisco abituato a fare il forte coi deboli -le fabbriche, gli artigiani e i commercianti in crisi-, e il debole coi forti, a cominciare dagli intollerabili evasori fiscali.

Serve, dunque, che Renzi dia il suo “la” all’orchestra per cambiare finalmente musica in Italia, per consentire all’economia di ripartire dal Nordest, desideroso di poter tornare a correre dopo tante chiacchiere e occasioni mancate da parte del Palazzo. Dopo che ha preso la necessaria fiducia delle Camere, Matteo Renzi è chiamato a dare lui fiducia al Paese e ai territori che sanno, che possono e che vogliono voltare pagina.

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Ora Renzi cerchi i fischi

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Pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito sulla Gazzetta di Parma

Con un intervento al di sotto d’ogni aspettativa, il politico sul quale invece si ripongono, oggi, le maggiori speranze di tanti in Italia, ha cominciato al Senato il percorso del voto di fiducia che il suo nuovo governo chiede ai parlamentari. Matteo Renzi ha parlato più ai cittadini che non ai senatori in ascolto, e questo non è un male, anzi. Ha parlato, ma non ha detto: e questo è deludente. Nessuno attendeva da lui l’inutile elenco della spesa di troppi suoi predecessori. Ma neanche un impegno così generico e ovvio, da non poter che essere applaudito (anche se gli applausi del Senato sono stati pochi e poco entusiasti; ma neanche questo è un male per chi si candida a “cambiare tutto”).

Come si sa, Renzi non è più sindaco di Firenze, ma presidente del Consiglio a Roma. Non ha più vecchi dirigenti di partito da rottamare, ma un esecutivo giovane e paritario, fatto a sua immagine e somiglianza, da far lavorare. Non è più il leader del Pd che ha vinto le primarie, né il verboso fiorentino che ha buttato dalla Torre il pisano Enrico Letta con astuzia machiavellica. Oggi il giovanotto che piace, non è l’eterno Giamburrasca che ama le citazioni soprattutto del mondo dello spettacolo. Persino ieri, nell’aula di palazzo Madama che lui varcava per la prima volta, il suo pensiero è andato a Gigliola Cinquetti, e alla celebre “Non ho l’età”. Come se per i presidenti del Consiglio non ci fosse una sana via di mezzo fra l’evocare Sanremo e l’invocare i vari Dahrendorf e Fukuyama, politologi più citati che letti dagli altri e precedenti che volevano darsi un tono.

Ma il passato di Renzi che pure gli ha permesso di aprirsi la porta del futuro, non esiste più. D’ora in avanti il sindaco d’Italia rappresenta il motore della Repubblica in giacca e cravatta. E neanche il fatto che la moglie Agnese -bel nome manzoniano- abbia già dichiarato che non farà la promessa sposa del premier a palazzo Chigi, attenua le responsabilità del marito solitario. Oggi Matteo Renzi ha il dovere non più di coinvolgerci nei suoi sogni, ma di convincerci dei suoi propositi: che cosa intende fare per rimettere l’Italia in cammino. Con quali misure e quando. Con l’aiuto di quali forze politiche e istituzioni. Per esempio: a Bruxelles continueremo ad andare col cappello in mano o, approfittando anche della discreta statura di Matteo, magari proveremo a farci valere?

Ma soprattutto la politica economica, cioè la madre di tutte le battaglie: comincerà coi tagli alle spese o alle tasse, il nuovo corso?

Il governo userà la scure o le forbicine? Né basta l’assicurazione, che Renzi ha ripetuto ai senatori, delle “scelte radicali” in arrivo o dei “punti-chiave” che vanno dalla scuola, al lavoro, alle imposte. Il primo discorso istituzionale di un nuovo presidente del Consiglio che non è neanche parlamentare, non può ridursi a un elenco di tweet declamati a braccio per ottenere il “mi piace” dei fan. Adesso Matteo Renzi deve cercare i fischi, dimostrando, cioè, che proverà a cambiare l’Italia sul serio, fatalmente dividendola tra chi crede nella svolta possibile e chi la contrasterà. E poi quale svolta? Persino sui temi a lui cari -la cittadinanza italiana per i figli di stranieri nati in Italia e nuovi diritti per le coppie non sposate-, Matteo ha prospettato il compromesso, prima ancora di dirci qual sia la “sua” proposta. La rottura garibaldina dello stile impaludato del Palazzo -rottura che non guasta-, non è stata, dunque, accompagnata dalla rottura di contenuto della sua “diversa” ma non illustrata politica. E lo stile non basta per uscire dalla crisi.

Del resto, è l’economia la sfida che racchiude in sé tutte le novità che si attendono, ben oltre la legge elettorale e la riforma della Costituzione. E’ il ritorno dei marò in patria che può dare la conferma, e non solo la sensazione, che anche la politica internazionale dell’Italia sta cambiando. Se invece ogni contesa si riduce a dire ai senatori con aria di sfida che presto non saranno più senatori, oppure a polemizzare coi Cinque Stelle più nei panni di leader del Pd che di sindaco d’Italia, allora Matteo Renzi dimostra di non aver ancora fatto suo il suo nuovo ruolo.

Ieri per il presidente del Consiglio era in ballo la fiducia del Senato.

Ma da domani è la fiducia degli italiani quella che non dovrà perdere, se vorrà diventare l’italiano che ha cambiato l’Italia non soltanto a parole.

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Primo comandamento per Renzi: rilanciare l’economia

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Questo commento e’ stato pubblicato ieri da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Non la serietà della fonte, che è l’Istat, né la reazione del presidente del Consiglio (“allucinante!”, ha detto Matteo Renzi), possono davvero dare l’idea di che cosa voglia dire avere il tasso di disoccupazione al 12,9 per cento: il più alto mai registrato in Italia da trentacinque anni. Vuol dire, per esempio, che quasi un giovane su due nell’età fra i quindici e i ventiquattro anni, cioè quando si vuole mangiare il mondo, in realtà è senza lavoro. Vuol dire che la tempesta della crisi è in pieno corso, nonostante i vari annunci di arcobaleno fatti dai governi in successione. Vuol dire che la politica ha una priorità: rilanciare l’economia. Con decreti-legge subito, con impegni concreti e visione lungimirante, con la consapevole previsione di dover anche litigare a Bruxelles per rimettere l’Italia in cammino.

Eppure, non rivelano tutto i dati nudi e crudi sui tre milioni e trecentomila cittadini senza lavoro (poco sopra la media europea e con Paesi come la Spagna messi ancor peggio di noi). Sono cifre drammatiche, ma la realtà lo è persino di più. Come tante famiglie sanno, per vedere la crisi in faccia basta fare la “prova della tavolata”, bellissima tradizione italiana, di solito domenicale, di pranzo o cena con parenti o amici: neppure la globalizzazione è riuscita a sradicarla.
Ebbene, per molti commensali quest’appuntamento s’è trasformato da tempo anche nell’occasione di ascoltare che cos’è successo allo zio, al cugino, all’amico d’infanzia, padri di famiglia che magari dall’oggi al domani sono rimasti a casa e senza stipendio. Oppure di sentire le umiliazioni della figlia plurilaureata, che s’è stufata di mandare in giro il curriculum a cui nessuno si degna neppure di rispondere. E poi qualcuno, che ha sempre trovato la pappa pronta, viene oggi a dire che i nostri ragazzi siano “svogliati e senza ambizioni”.

A tavola capita anche di condividere lo sfogo affettuoso dei nonni, che di nascosto danno la paghetta ai nipoti, studenti o lavoratori senza soldi. O la preoccupazione di quei genitori che almeno un tetto possono ancora offrirlo ai loro figli esclusi. Altro che “bamboccioni”: neanche le banche osano scommettere sui ragazzi e le coppie senza soldi, prestandoli per pagarsi l’affitto, il mutuo, l’inizio di un’attività.
La storia delle persone vale molto più dei numeri, e ciascuno di noi ha una storia da raccontare. Il lavoro non è più soltanto un’emergenza sociale, ma il primo atto di umanità che il nuovo governo ha il dovere di compiere a qualunque costo.

 

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Quote rosa: grande risorsa, piccolo alibi

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Questo commento è stato pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

E’ incredibile quanto i partiti abbiano reso difficile una cosa semplice: come eliminare gli ostacoli che hanno finora impedito alla maggioranza del popolo sovrano, cioè alle donne, di essere rappresentate in Parlamento e nei luoghi della politica con equità.

Qualche dato illuminante. In quasi settant’anni di Repubblica, tutti e tre i vertici più importanti dello Stato sono stati sempre e soltanto occupati, è il caso di dirlo, da uomini. Presidenza della Repubblica, presidenza del Senato, presidenza del Consiglio: nessuna donna tra noi. Come per la Corte Costituzionale e per la suprema poltrona della magistratura, la Cassazione, dove la cosiddetta “questione di genere” è stata risolta alla radice: soli uomini al comando.

Del resto anche le attuali e principali forze politiche – Pd, Cinque Stelle e Forza Italia – confermano la regola conclamata de “il” leader per tutti. Dunque l’occasione della nuova legge elettorale all’esame della Camera, unica istituzione politica dove nel corso del tempo tre donne siano state elette alla presidenza (nell’ordine Iotti, Pivetti e l’attuale Boldrini), era l’occasione per porre rimedio a un torto oggettivo e soggettivo. Per trovare quel modo che garantisca con ragionevolezza la partecipazione del genere finora storicamente escluso e discriminato dalla contesa.

Una scelta che altrove, quel resto d’Europa che molto critichiamo e poco conosciamo, qualche risultato l’ha pur prodotto, se si pensa che fra i maggiori statisti riconosciuti negli ultimi tre decenni figurano ai primissimi posti due signore: l’inglese Margaret Thatcher e la tedesca Angela Merkel. Invece da noi il tema è diventato un balletto indecoroso, un tira e molla ideologico-partitico a colpi di presunte incostituzionalità, insopportabili imposizioni di quote-rosa, conculcata libertà di scelta degli elettori e altre scuse che poco o niente hanno a che fare con il merito del problema. Che è uno solo: dare voce a tutti e a tutte nell’interesse di quella società attiva e consapevole che a parole la politica sostiene di voler interpretare.

Il giochino è stato facile. Il governo si è pilatescamente rimesso alla volontà dell’aula. E l’aula, naturalmente nel segreto del voto, ha fatto prevalere tutti i dubbi che erano stati sollevati apposta per impallinare la parità di genere. Una battaglia trasversale da entrambi gli schieramenti, favorevole una maggioranza di donne e contraria una maggioranza di maschi. E pur esistendo tante formule legislative per evitare la patetica contrapposizione fra generi. E così ciò che poteva rappresentare una grande risorsa per tutti si è trasformato in un piccolo alibi per i tanti “uomini di potere”, che non guardano né alle ingiustizie del passato né alle sfide del futuro, riducendo l’Italia all’eterno ombelico del proprio collegio elettorale.

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Francesco, un anno dopo

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Articolo pubblicato su uno speciale de L’Arena di Verona uscito in occasione del primo anniversario del Papa.

Ormai tutti lo chiamano Francesco, e non perché trascurino il piccolo dettaglio che è pur sempre il Papa. Lo considerano, semplicemente, uno di famiglia. Quando appare in televisione, a molti piace ascoltarlo non per la soave cadenza sudamericana del suo italiano forbito, ma perché sanno già che, qualunque cosa dirà, la dirà pane al pane: tutti potranno capire. Se poi Francesco decide di andare a Lampedusa per denunciare la “globalizzazione dell’indifferenza” e pregare coi migranti, oppure vola a Rio de Janeiro per esortare i giovani di 190 Paesi a trovare “il coraggio della felicità”, si avrà il senso nuovo del suo primo e prorompente anno di pontificato.

Da quando Jorge Mario Bergoglio, l’uomo venuto “quasi dalla fine del mondo”, è diventato “vescovo di Roma”, come ama ripetere perché tutte le strade del mondo ancora lì portano, molte cose sono cambiate. E persino quelle rimaste uguali, come la maledetta crisi, hanno oggi una luce diversa, che lascia intravedere la voglia di voltare pagina.

Il giorno dell’inattesa elezione di Francesco, il 13.03.2013 -forse c’è un destino anche nei numeri-, la Chiesa aveva un Papa che si era dimesso. Non accadeva da settecento anni. L’Italia era senza timoniere, il che accade, invece, sovente. Ma avevamo votato da pochi giorni, e perciò alla perdurante crisi economica s’aggiungevano quella politica di palazzo Chigi e quella religiosa, per chi crede e per chi non crede, di San Pietro. Erano giorni bui.

Perciò, le prime parole di Francesco dal balcone di una piazza che poco o nulla sapeva di quell’uomo candido come il suo vestito bianco, furono di una semplicità dirompente: “Fratelli e sorelle, buonasera!”. Come sorprendente fu la successiva richiesta ai fedeli di pregare loro per lui, mentre il mondo da secoli era abituato al contrario, ai Papi che facevano il segno della croce per noi altri.

E’ passato un anno da quel nuovo inizio che stravolgeva ogni punto di riferimento per diventare un diverso punto di riferimento. Quello di un argentino-italiano che non intende più esercitare un potere bimillenario, ma svolgere una potente missione nell’attualità, esattamente come tutti i suoi preti-soldato in giro per i continenti a confortare gli ultimi della Terra. A costo di riscoprire, come ha fatto, la funzione di “parroco” di Santa Marta, dove vive. E dove attende i fedeli alla fine della messa per abbracciarli e ascoltarli.

Un’originalità che lascia il segno più di tante encicliche: una sorta di “dottrina sul campo”. E’ la novità di un Papa dalla formazione gesuitica, pertanto competente come pochi della tradizione cristiana e cattolica, ma anche consapevole del tempo secolarizzato in cui vive.

Il tempo delle periferie abbandonate e del tifo sportivo per la squadra del cuore, come la sua, il San Lorenzo di Almagro, quartiere di Buenos Aires. Il tempo che va alla disperata ricerca della famiglia perduta, e dei tanti modi per volersi bene. Il tempo della ricchezza straordinaria per una parte del pianeta e della povertà dilagante in molte parti del pianeta. L’epoca della comunicazione e della solitudine. Un universo sempre più complesso, proprio perché non è mai stato così facile conoscerlo da vicino e attraversarlo in libertà.

Ecco, questo Papa di tutti è un pellegrino che ha scelto di camminare lungo l’impervio sentiero del mondo, esortando alla misericordia come bussola nel rapporto fra Dio e l’uomo, e vivendo sempre in mezzo alla gente. Cristo non si è fermato a Eboli.

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La semplicità di Bergoglio, dodici mesi dopo

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Articolo pubblicato su l’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Alla fine del mondo il vento è gelido, gli spazi immensi e la solitudine, spesso, l’unica speranza. Ma nessuno come Francesco, che da tanto lontano proviene, è riuscito in così poco tempo – un anno, appena, dalla sua elezione papale – a parlare al cuore della gente da vicino, facendo riscoprire l’importanza e la bellezza dello stare insieme.

La Chiesa di Roma era paralizzata da intrighi e polemiche, e Benedetto XVI, il mite e colto predecessore, si era dimesso per la prima volta negli ultimi settecento anni di storia bimillenaria. Ma nessuno come l’argentino-italiano Francesco, estraneo ai giochi per ragioni geografiche e biografiche (“io sono un prete callejero”, di strada, ama ripetere ancora oggi con un sorriso disarmate), sta riformando la curia così nel profondo. Spalancandola verso il mondo ed esortandola a riflettere a voce alta persino sulla sua stessa dottrina e tradizione. Quasi fosse un viatico per una nuova, antica Chiesa senza paura. Neanche quando i suoi valori di sempre devono vivere nel presente secolarizzato. Neanche quando i suoi principi immutabili devono denunciare con forza, oggi, “la globalizzazione dell’indifferenza”, come Francesco ha ribattezzato il nichilismo dominante. E poi i gesti, che contano più delle parole: lavare i piedi ai carcerati o a una donna musulmana, come questo Papa ha fatto, “vale” più di cento prediche per far capire che significa essere cristiani e cattolici al tempo della povertà dilagante, della sofferenza nascosta, della fede facile da trovare in una squadra di calcio, ma difficile da trovare in Dio (e lui, comunque, non teme di mostrare il tifo per il San Lorenzo di Almagro di Buenos Aires: forse un Papa non può esultare per un gol?).

Ecco, dodici mesi dopo, la cosa che forse più colpisce dall’inaspettato arrivo di Francesco al soglio di Pietro, è la semplicità dell’esempio. E’ la sensazione -in altri tempi blasfema- che il Papa in fondo è come uno di noi. E’ la meraviglia per idee e concetti ai quali quest’uomo da “pane al pane” cerca di condurci. “Misericordia”, ripete spesso. E’ la compassione per i problemi altrui, la spinta per cercare di alleviarli. “Il coraggio della felicità”, per usare altre, ma sempre sue parole rivolte ai giovani di 190 Paesi riuniti per ascoltarlo a Rio de Janeiro. Papa “callejero”, sì, ma anche “viajero”, che viaggia in Italia -vedi Lampedusa- e all’estero per trasmettere non il senso di un potere, quale pur ha, ma di una missione e di un servizio. Quando si affacciò, sconosciuto, al balcone di San Pietro, chiese alle persone in piazza di pregare loro per lui, ed esordì con un italianissimo “Fratelli e sorelle, buonasera!”. Ma non erano parole. Era il primo gesto del suo nuovo inizio.

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