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Renzi e l’instabilità che ci farà perdere il treno del rilancio

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Questo commento è stato pubblicato oggi su l’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Il monito non poteva essere più eloquente, sia per chi l’ha pronunciato, sia per il luogo in cui è risuonato. Durante i lavori del G20 a Mosca, il governatore della Banca d’Italia ha dunque sottolineato che, dopo tanta crisi, adesso si sente aria di crescita economica in arrivo. Ma l’instabilità politica e istituzionale rischia di far perdere all’Italia il treno del rilancio ancora lontano ma appena annunciato e finalmente atteso. Per usare le incoraggianti parole di Ignazio Visco, il pericolo di questa instabilità è che “incida sulla capacità di cogliere le opportunità della ripresa”. Anche se il governatore non ha fatto nomi, non è difficile immaginare i destinatari dell’avviso ai naviganti. Sono non soltanto le forze politiche della maggioranza, impegnate nel sostegno sempre più acrobatico al governo, ma anche quegli oppositori che in questo momento sembrano anteporre le legittime ambizioni personali all’interesse nazionale della grande ancorché litigiosa coalizione. E ogni riferimento allo scalpitante  Matteo Renzi da Firenze è voluto.

Certo, il messaggio di Visco non può che essere generale e trasversale. Tanto più che l’instabilità è una nota caratteristica del nostro sistema istituzionale fin dalla notte dei tempi. Nei primi cinquanta anni di Repubblica la durata media dei governi era addirittura di nove mesi. Con la svolta del maggioritario e del bipolarismo, perciò dal 1994 in avanti, le cose sono migliorate. Ma il male oscuro non è stato ancora debellato. E l’amara sorpresa che ha complicato il già fragile equilibrio politico-istituzionale si chiama emergenza economica. Nel nome della quale ora arriva l’appello del governatore a tenere duro. I politici dovranno mettersi il cuore in pace, rinunciando per un po’ ai sogni di “rimpasti” ,“tagliandi in autunno” o addirittura “elezioni anticipate”. Sono i sogni ricorrenti a turno nel PD o nel PDL, i due partiti alleati per necessità che perdono più tempo per immaginare il loro “dopo”, anziché per agire sul nostro presente, prendendo quelle misure economiche indispensabili per cogliere la ripresa all’orizzonte.

La stabilità non è quindi né un capriccio del Quirinale, né una furbata del presidente del Consiglio Enrico Letta seduto sul vulcano PD-PDL. La stabilità è semplicemente il mezzo per raggiungere il fine, è il requisito fondamentale per saltare sul carro della ripresa. Oggi non c’è più un solo italiano disposto a sorvolare sulle condizioni economiche sue e del proprio Paese per i comodi dei giochi dentro o fuori il Palazzo. Domani arriverà anche il momento di Renzi e degli altri. Ma adesso è l’ora di remare tutti, con forza, nella stessa direzione.

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Parmitano e i pionieri italiani dello spazio

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Quando Neil Armstrong sbarcò sulla luna, nell’alba italiana del 21 luglio 1969, ore 5.56, disse parole ormai celebri: “Un piccolo passo per l’uomo, un salto gigantesco per l’umanità”. Quando Luca Parmitano (nella foto) lasciava la Stazione internazionale per la prima passeggiata di un italiano nello spazio, lo scorso 9 luglio, l’annunciò così: “Esco a fare due passi”.

La seconda passeggiata ha dovuto invece interromperla per una perdita d’acqua nel caso. Un’ora anziché le sei previste per Luke Skywalker, come gli americani hanno ribattezzato il nostro astronauta, paragonandolo all’intrepido eroe di Guerre Stellari.

Ma le parole e le storie tanto diverse di Armstrong e Parmitano rivelano non soltanto che sono passati più di quarant’anni tra la missione dell’Apollo 11 e quella, in corso, denominata “Volare”. Rivelano soprattutto che con i suoi astronauti -e presto astronaute: Samantha Cristoforetti-, l’Italia è grande protagonista della svolta che sta segnando la ricerca internazionale: non più conquistare, ma vivere tra le stelle. Con l’obiettivo lontano, ma neanche troppo (una ventina d’anni?) d’arrivare su Marte.

Del resto, il cinema l’ha già anticipato con Brian De Palma, che filmò e firmò “Mission to Mars” nel 2000.
Siamo, dunque, al rovesciamento della prospettiva che per decenni ha interrogato e angustiato gli abitanti della Terra: non più l’ipotesi d’avere i marziani tra noi, ma quella d’andare noi a trovarli a casa loro. Il pianeta rosso quale mèta successiva della romantica e bianca luna, satellite naturale del nostro pianeta che forse un giorno farà da trampolino, con qualche quartiere “umano” costruito sui crateri, per esplorare l’universo senza l’avanti e indietro dalla Terra.

Sogni, tanti sogni. Ma è bello sapere che in questo domani difficile perfino da fantasticare, gli italiani abbiano un ruolo decisivo e riconosciuto. Con piloti-scienziati e alta tecnologia come satelliti e lanciatori.
Per capirlo basta visitare Cape Canaveral, in Florida, la base di lancio dei programmi spaziali Apollo e di assemblaggio degli Shuttle oggi in pensione. È l’ultima frontiera americana, che rivendica le sue radici piantate sopra il cielo nella tradizione italiana fra la terra e il mare.

Frasi, foto e tabelle esposte per raccontare l’epopea, indicano l’inizio dell’”esplorazione nel Nuovo Millennio” in quattro tappe e quattro nomi a noi familiari. Questi. Tra il 1271 e il 1292 il viaggio di Marco Polo fra l’Europa e la Cina. Nel 1492 Colombo attraversa l’Oceano e scopre l’America. Nello stesso anno Leonardo disegna una macchina volante. Nel 1610 Galileo scopre il satellite di Giove. Come se non bastasse, a Cape Canaveral mostrano Genova sulla mappa d’Italia, identificandola come “la patria di Cristoforo Colombo”.

È quasi un devoto riconoscimento ai pionieri del viaggio “verso l’infinito e oltre”. Che è anche il motto di un altro film d’animazione della serie Toy Story, gridato dall’astronauta-giocattolo Buzz Lightyear. Un nome ispirato proprio a Buzz Aldrin, pilota del modulo lunare nella prima missione del 1969. Tutto torna: l’America e l’Italia, il sogno e il cinema.
Era il 1992 quando lo Shuttle Atlantis portava il primo italiano nello spazio con altri sei membri di un equipaggio americano-europeo. “Ai miei tempi s’andava e si tornava, non c’era una spiaggia su cui posarsi”, mi ha raccontato, spiritoso, Franco Malerba, il protagonista, alludendo alla Stazione Spaziale dove oggi, invece, s’alternano cosmonauti per sei mesi di fila. Ma allora era più difficile decollare o rientrare? “Decollare”, spiegava Malerba. “Era come scalare la montagna. Tutto succedeva in otto minuti di coraggio e di paura. Invece al ritorno, anche se c’era una sola possibilità, anche se la navetta bolliva perché i suoi strati esterni arrivavano a duemila gradi di temperatura per l’attrito con l’atmosfera, anche se si sobbalzava e si vedevano lampi e fiamme attorno allo Shuttle, si tornava a terra. E questo ci dava l’euforia”.

Ventun anni dopo, il suo collega Parmitano, può passeggiare e non solo abitare. Può parlare in collegamento coi familiari e rispondere ai piccoli pazienti dell’ospedale Bambin Gesù di Roma. Che gli hanno fatto tenere domande da adulti: “Chi ti cura se ti ammali?”. E lui: “Ognuno di noi fa un corso di pronto soccorso. Ormai sono un mezzo dottore anch’io”. Scienza e poesia s’incontrano e s’incrociano lassù. Con Dante, Parmitano può dire davvero d’essere “uscito a riveder le stelle”.

Ma la missione del sesto astronauta italiano nello spazio, e quinto nella Stazione che fa da casa, ufficio e dormitorio, prevede una ventina di esperimenti per migliorare le esplorazioni nel futuro. Insieme con un cosmonauta russo e un’astronauta americana (altra novità: i nemici e concorrenti di un tempo oggi collaborano), Parmitano sta facendo lo scienziato e il muratore dell’abitazione.

Una specie di ristrutturazione volante per renderla più adatta alle esigenze della ricerca che cambia. Usando moduli, attrezzature e perfino cibo italiani. I nostri saperi e sapori offerti all’universo, e anche questo dà l’idea del nuovo corso della prima missione “a lunga durata” assegnata all’Agi, l’Agenzia spaziale italiana. Oltre al pioniere Malerba, sfilano i nomi di Umberto Guidoni, Maurizio Cheli, Paolo Nespoli e Roberto Vittori che hanno aperto la via tricolore verso lo spazio. Per Luca Parmitano dalla partenza con la navetta Soyuz lanciata il 28 maggio alle 22.31 dal Kazakistan al rientro, saranno passati 178 giorni. I 178 giorni che cambiarono il mondo.

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Alcuni pessimi risultati del governo del Fare

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Questo commento è stato pubblicato ieri sul Giornale di Vicenza

Ma guarda un po’, nella fretta del “fare”, nome di battesimo e di battaglia anche del decreto-legge su cui il governo ha posto la fiducia, è saltato il tetto allo stipendio dei grandi manager pubblici. Non c’è limite né alla ricchezza né alla decenza. “Ma lo rimetteremo al Senato”, assicurano, imbarazzati, esponenti della maggioranza. E’ stata solo una svista, nell’epoca in cui ai pensionati da mille euro al mese – e meno ancora! – viene fatto l’esame del sangue, con l’obbligo di pronta restituzione di eventuali spiccioli incassati in più per colpa di leggi scritte coi piedi o applicate a naso? Solo una sbadataggine, questa dei compensi d’oro salvati, quando per organizzare l’Expo di Milano si dovrà ricorrere a contratti flessibili per il prevedibile esercito di poveri, nel doppio senso, precari? Solo un peccato veniale, nei giorni in cui si scopre che i partiti non hanno ancora abolito lo sconcio del finanziamento pubblico a se stessi, dopo che ad abolirlo erano stati gli italiani col referendum, vent’anni fa?

Ma no, nessun sospetto, niente dietrologia. E’ successo che in uno dei tanti emendamenti in ballo una manina generosa o almeno distratta ha aggiunto la parola “non” all’estensione del tetto per i dirigenti di servizi pubblici come Poste, Ferrovie, Anas e così via. E perciò, ad alcuni deputati della commissione Bilancio che si sono accorti della sorpresina e l’hanno subito denunciata, il governo ha garantito che l’errore sarà corretto a palazzo Madama. Un’altra manina più equa e premurosa sbianchetterà il “non” e l’incidente sarà archiviato come il sogno di una notte, anzi, di un pomeriggio di mezza estate.

Eppure, è curioso che a poter sognare siano sempre e soltanto gli intoccabili, mentre ai pensionati non protetti da alcuna manina né distratta né premurosa tocchino gli incubi della crisi. Perché quando si sbaglia, si sbaglia sempre a favore di quelli che meno soffrono e meglio possono sopportare i sacrifici per tutti? Perché quando bisogna colpire con la scure – e bisogna, sia chiaro -, si vuole “vincere facile”, andando a pescare tra i lavoratori che hanno lavorato tutta la vita o tra i giovani lavoratori che vorrebbero poter lavorare tutta la vita?

L’amara realtà è che questa politica piena di promesse, ma priva di visione, ha smarrito anche il più elementare senso di giustizia. E perciò quando deve tassare o tagliare spese, va alla cieca, e chi trova, trova. Mai che si trovino i privilegiati: casta non morde casta. Non “decreto del fare”, ma del “fare la cosa giusta” dovrebbe preoccuparsi il governo.

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Finanziamento pubblico ai partiti: il gioco delle tre carte e due parole

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Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Gli invisibili fautori del finanziamento pubblico ai partiti, che sono molti anche se non si vedono, e tutti orbitanti in prevalenza nel pianeta della politica, di solito ricorrono a due argomenti per sostenere la prassi insostenibile. “In tutto il mondo lo Stato contribuisce al mantenimento dei partiti”, è la tesi numero uno. La seconda suona ancora più insidiosa: “Il “no” degli italiani all’utilizzo di denaro pubblico è frutto dell’emotività e della demagogia”.

In realtà la prima obiezione non obietta un bel nulla. E’ vero che nei principali Paesi d’Europa e d’America esistono forme di sostegno alla politica e di rimborso elettorale. Ma, a parte che le formule, spesso miste, di finanziamenti pubblici e privati variano da una nazione all’altra -negli Stati Uniti, per esempio, sono gli stessi candidati-presidenti a rifiutare la possibilità d’usare fondi pubblici-, da nessuna parte succede che quel denaro venga speso per fini personali, con documentazione risibile (quando c’è) e incassato in proporzione a volte persino superiore alle esigenze per le quali era stato previsto.

Altrove i soldi pubblici ai partiti vengono usati nei limiti e all’insegna della trasparenza assoluta sempre verificabile che la democrazia richiede. E anche se i politici di casa nostra ora scottati dall’indignazione dei cittadini giurano che “non lo faranno più” di comportarsi così male, o che esibiranno ogni rendiconto di quanto avranno ricevuto, gli italiani hanno il diritto di non credere più alla favola, visto l’indecente e trasversale fenomeno di pessima amministrazione dei nostri soldi sia a livello nazionale che regionale. Parlano da sole le inchieste della magistratura, le denunce della Corte dei conti, gli scandali troppe volte riferiti dalla stampa.

Poi c’è la seconda accusa: la reazione anti-casta dei più sarebbe figlia di pregiudizi all’ingrosso e della nefasta influenza dell’”anti-politica” sulla società civile diventata, di colpo, incivile. Ma stiamo ai fatti.
La legge che ha introdotto il finanziamento pubblico è di quasi quarant’anni fa: 1974. Quattro anni dopo i radicali promossero un primo e oggi dimenticato referendum per abolire i soldi ai partiti. Lo promossero e lo persero: il 56,4 per cento dei cittadini stabilì che fosse giusto che lo Stato contribuisse al mantenimento dei partiti. Allora soltanto il 43,6 votò “sì” all’abrogazione. E alle urne andò l’81,2 per cento del corpo elettorale. Dunque, una scelta popolare e responsabile. Che rende ancor più affidabile e legittimo il rovesciamento, a ragion veduta, del giudizio dei cittadini nel successivo e analogo referendum del 1993. Quando i votanti raggiunsero ancora una quota altissima -il 77 per cento degli aventi diritto- e l’abolizione fu decretata da una percentuale plebiscitaria: il 90,3 per cento degli italiani (appena il 9,7 per cento si pronunciò a favore del finanziamento).

Violando l’esito del referendum, i partiti hanno fatto il gioco delle tre carte e due parole, chiamando “rimborso” il bocciato “finanziamento” e continuando, così, a prendere soldi alla faccia dei cittadini.
Perciò, vent’anni dopo, la discussione non è più se sia giusto o sbagliato, e in che termini, elargire denaro pubblico alla politica. Oggi il governo e il Parlamento hanno solo il dovere di far rispettare, finalmente, il verdetto sovrano e consapevole del popolo italiano. Che nel 1978 aveva detto “no”, e nel 1993 ha detto “sì” (all’abrogazione). Aver cambiato idea in modo così partecipe e compatto, è un atto di grande intelligenza politica. Anche la nostra intelligenza, e non solo volontà, il legislatore è chiamato a non offendere, per la seconda volta.

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Il messaggio di Papa Francesco al mondo

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Questo commento è stato pubblicato su La Gazzetta di Parma

Non c’è bisogno d’essere credenti, per cogliere la potenza del messaggio di Papa Francesco: è un uomo che crede, semplicemente. Non occorre essere italiani, per capire l’impatto delle sue parole: è il “vescovo di Roma” che parla al mondo.

Non è necessario essere ministri, per rendersi conto che il viaggio di Jorge Mario Bergoglio in Brasile rappresenti anche uno straordinario investimento di politica internazionale dell’Italia, e non soltanto di valori cristiani per il Vaticano. Di fatto il Papa si sta rivelando un grande “ministro degli Esteri” che, da Lampedusa a Copacabana, pone le questioni del nostro tempo.

Emigrazione e integrazione, ricchezza e povertà, fiducia nei giovani e nella loro capacità di cambiare il mondo. Non c’è sogno più italiano di questo, e non soltanto perché da Marco Polo a Cristoforo Colombo, da Leonardo Da Vinci all’astronauta Luca Parmitano oggi in orbita nella Stazione spaziale internazionale, tale aspirazione faccia parte della nostra identità nazionale e universale. Ma soprattutto perché, per interpretare tale sogno nel presente, il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” ha scelto la figura di Francesco come nome ed esempio.

Lui, l’argentino di origine piemontese, e fiero delle due cose, ha fatto quel che nessun Papa italiano aveva mai fatto, e ne sono passati quasi novanta da allora: prendere su di sé il nome bello di Francesco. Fare di quella povertà eroica un insegnamento di vita, cercando di testimoniarlo anche nei piccoli, grandi gesti d’ogni giorno. Sì, il Papa si porta la sua borsa da solo e abbraccia chiunque desideri la sua tenerezza. Forse Francesco d’Assisi, “il più italiano dei santi”, non era animato dalla stessa umiltà?

Si dirà: Bergoglio è proprio un prete. Da pontefice di una Chiesa in difficoltà, agisce con l’obiettivo di recuperare il gregge in libera uscita. Le sue considerazioni sono troppo semplici, quasi come un don Camillo parroco dell’universo. E la sua sfida ai gruppi di potere nella Santa Sede è disperata, una battaglia a metà tra l’impossibile Crociata e il naif. Insomma, sarebbe un Papa allo stesso tempo furbissimo e perdente, un po’ gesuita e un po’ don Chisciotte. Dategli una battaglia persa e lui, astutissimo, la farà sua.

Ma qui si sottovaluta un altro aspetto che è tipico dei latino-americani cresciuti nel culto non solo di Gesù, ma anche della famiglia italiana venuta “dall’altra parte del mondo”: lo spirito di sacrificio. Quel non aver paura d’avere coraggio, e perciò la naturalezza del saper vivere tra i vinti.

Non solo nelle periferie di Buenos Aires o tra le favelas di Rio, dove Francesco si muove a suo agio come un campione di nuoto in piscina. Perfino nel tifo sportivo Bergoglio è tra i pochi argentini a non esultare per il Boca Juniors, l’invincibile squadra di Maradona, ma per il meno famoso San Lorenzo, del quale non perde occasione per raccogliere magliette in dono. Sì, il Papa che porta la borsa con sé, può avere anche la sua “squadra del cuore”, a costo di dare qualche dispiacere universale a tutti gli altri appassionati.

Dunque, la passione, altro sentimento molto argentino e molto italiano. La passione contagiosa, la passione per un’idea, per gli altri, per una fede e non, stavolta, sportiva. La passione per la lingua italiana, che Francesco ha riproposto come lingua unica e universale persino nel giorno del saluto “urbi et orbi”. È un amore, quello per la lingua di Dante, che rafforza anch’esso il ruolo dell’Italia nel mondo e la battaglia culturale e politica per valorizzarla, e sempre più diffonderla.

In questi giorni di diplomazia italiana umiliata dalle vicende kazake e dal caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due marò da più di cinquecento giorni “prigionieri” dell’India, conforta sapere che esista anche un altro modo d’essere italiani nel mondo. Ed è la ragione principale che laicamente si possa rivendicare per comprendere la grande portata dei Patti Lateranensi nella Costituzione della Repubblica: libera scelta in libero Stato. Ma all’insegna dell’italianità.

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Femminicidio, cosa può fare il Parlamento

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Questo commento è stato pubblicato ieri sul quotidiano “Il Tempo”.

Quando la statistica coincide con le notizie, significa che a nessuno è più consentito di girare la testa dall’altra parte. Dice, dunque, la statistica che ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo in Italia. E che si tratti di un dato medio, e non solo drammatico, lo confermano le ultime ventiquattr’ore quando, in due luoghi diversi e lontani tra loro -Marina di Massa e Taurisano in provincia di Lecce- due mariti si sono comportati allo stesso modo con le loro ex mogli: colpo di pistola a lei e poi a se stessi. Entrambi hanno ucciso e si sono uccisi, incuranti perfino del fatto d’avere figli in comune con le loro ex signore.

Come si vede, il femminicidio non implica soltanto la barbarie del maschio che uccide la donna, ma può lasciare a casa bambini orfani. Perciò è un delitto che provoca vittime due volte: la moglie e i figli. E tanto orrore dovrebbe bastare per indurre il Parlamento a occuparsene con una corsia preferenziale. Anzi, ad approfittare dell’annunciato prossimo esame del reato di omofobia che si vorrebbe introdurre nel codice, per legiferare pure sul delitto di femminicidio, anch’esso non ancora previsto nel nostro ordinamento.

Già sentiamo le obiezioni degli esperti in cavilli, che non sempre sono esperti in diritto. Essi diranno che proprio il principio della parità tra uomo e donna così a lungo irriso -al punto che negli anni i governi sono stati costretti a inventarsi l’apposito dicastero delle Pari opportunità-, rende complicata la configurazione del delitto contro la persona-donna. Altri suggeriranno di prevedere, semmai, delle aggravanti o, magari, di non riconoscere alcuna attenuante all’uomo-assassino e imputato. Altri ancora consiglieranno percorsi alternativi, per arrivare a condanne almeno certe.

Lungi da noi entrare nel dibattito tra giuristi. Ma l’importante è che il legislatore trovi una soluzione severa per contrastare un fenomeno che è in pieno corso, ripetitivo e con caratteristiche simili anche in casi totalmente differenti tra loro. Intanto, è bene ricordare che le vittime del femminicidio  sono di solito mogli, ex mogli o compagne nella vita di coppia. E che molto spesso -troppo spesso- questo delitto ha avuto precise e ricorrenti avvisaglie. L’allarme era suonato più volte con le denunce che quasi sempre queste povere donne ammazzate e sole avevano fatto per persecuzioni, molestie, minacce, atti di violenza fisica o verbale da parte dell’uomo impunito. Impunito e raramente “richiamato”.

E qui siamo al nocciolo del tema: che può fare il Parlamento non solo per rendere il crimine un crimine grave, ma soprattutto per prevenirlo? Perché la mano omicida va fermata in tempo. E, per poterlo fare, le forze di polizia e le procure devono avere gli strumenti normativi per intervenire subito e con vigore. Già esiste, per esempio, la via dell’ammonimento che il questore può attivare nei confronti del persecutore chiamato in causa dalla sua vittima. Una sorta di “cartellino giallo” che, con ogni evidenza, va rafforzato in sede legislativa: deve diventare cartellino rosso, per poter dissuadere, fosse anche col carcere cautelare, il molestatore abituale o pericoloso.

Ma siamo ai giorni in cui la Corte costituzionale ha appena sentenziato che non è obbligatorio, bensì facoltativo mandare dietro le sbarre i sospettati stupratori di gruppo. Finché non arriverà una condanna definitiva -se mai arriverà-, essi potranno attendere tranquilli nella casa di mamma il corso dei processi. E i sentimenti, le ferite, la vita personale e sociale della vittima dello stupro? Chi se ne importa. Anche lei a casa, ma in attesa di una giustizia che già si rivela ingiusta: due pesi e due misure per un altro reato gravissimo.

Ecco, serve una svolta culturale e morale, prima ancora che giuridica e politica. Il Parlamento deve prendere atto che la violenza alle donne va punita con i parametri della “tolleranza zero”. Prima che sia troppo tardi.

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Caro Letta, lo sa che sta per firmare un atto indecente?

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Caro presidente del Consiglio Enrico Letta, capisco bene che in queste ore lei sia in ben altre faccende affaccendato. Ma so che lunedì prossimo lei sarà a Bolzano per benedire un presunto “accordo” sulla toponomastica in Alto Adige trovato fra il suo ministro per gli Affari regionali, Graziano Delrio, e il presidente della giunta provinciale di Bolzano, Luis Durnwalder.

E allora, lei deve sapere che l’accordo che s’accinge a battezzare, in realtà è una proposta indecente. Perché ha l’obiettivo dichiarato di impedire che il prossimo 10 ottobre la Corte costituzionale si pronunci in modo definitivo sull’obbligo del bilinguismo nelle forme italiana e tedesca (e anche ladina) in Alto Adige. Come impedirlo? Inducendo il suo governo a ritirare il ricorso che il precedente governo-Monti aveva presentato alla Consulta contro una legge della Provincia di Bolzano che fa strage della dizione italiana nella toponomastica bilingue italiano-tedesca. Una bilinguità in vigore da quasi settant’anni: e l’Alto Adige fa parte dell’Italia da quasi un secolo. Dunque, il patrimonio culturale e linguistico italiano ha un valore consolidato e una valenza condivisa almeno quanto quello tedesco.

Lei dirà, presidente, quel che il ministro Delrio ha già detto per tranquillizzare, e cioè che l’intesa tra lui e quel furbacchione di Durnwalder (è già il secondo ministro “romano” che l’alto-atesino si beve: il primo fu Raffaele Fitto), salverebbe il bilinguismo. Tanto più che non mancherebbe il contributo attento del commissario di governo a Bolzano.

Ma il punto non è “salvare il salvabile” dei nomi italiani. Ciò che l’accordo nasconde (neanche troppo) è la concreta eliminazione di gran parte della forma italiana della toponomastica. Il 55 per cento dei nomi italiani secondo i primi calcoli che già circolano!
In Alto Adige, al contrario, si tratta di far rispettare il bilinguismo integrale e senza eccezioni originato dal lungimirante Accordo De Gasperi-Gruber del 1946. Bilinguismo obbligatorio ripreso sia dallo Statuto regionale del 1948, sia dallo Statuto provinciale e vigente del 1972 che, oltretutto, chiarisce: “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato”.

Lo Statuto, che è legge costituzionale, non può essere violato con un bilinguismo casuale (un po’ di nomi li lascio, un po’ li cancello). E meno che mai con forme di monolinguismo tedesco su cosiddetti “nomi storici”, che hanno sempre l’altrettanta e secolare forma storica italiana. Per non dire del grottesco criterio del “nome d’uso”, che si vorrebbe anch’esso introdurre in barba alle leggi e alla realtà della vita. E poi: perché mai dovrebbe essere Durnwalder o chi per lui a stabilire se io, cittadino italiano e del mondo, possa chiamare o no “Vetta d’Italia” la Vetta d’Italia?

Tutte cose incredibilmente contemplate in quest’accordo taglia-Italia. Che non rispetta nemmeno la volontà espressa da una recente e ampia mozione del Parlamento, perché viola l’Accordo De Gasperi-Gruber, infrange la bilinguità assoluta dello Statuto speciale e calpesta la Costituzione della Repubblica.

La toponomastica bilingue in Alto Adige non è una lotteria né un’acrobazia per politici mal informati. La toponomastica è un diritto inviolabile della persona. Invece qui, presidente Letta, si vuole impedire che in Italia un cittadino italiano (o chiunque al mondo) possa usare una dizione italiana per indicare un fiume, un bosco, un sentiero, una cima. L’esempio che le ho fatto della Vetta d’Italia è voluto, perché è uno dei tanti nomi che apertamente si rivendicano di voler abolire. Come se io le dicessi -tanto per fare un altro esempio- che lei, da domani, non potrà più dire, in italiano, “vado a fare una gita sul “Catinaccio”. E perché? Perché Durnwalder ha deciso che lei la gita potrà farla solo sul “Rosengarten”.

Stiamo parlando della stessa montagna: si rende conto della gravità inaudita del principio elementare e costituzionale infranto, cioè dell’obbligo monolingue d’usare la sola, esclusiva e perentoria dizione in tedesco per un certo ed elevatissimo numero di toponimi?

“Ma proprio il Catinaccio-Rosengarten nessuno vuole toccarlo”, le direbbe certamente Durnwalder. Il punto, però, è che nessuno deve poter toccare, cioè rendere “impronunciabile”, qualsiasi nome di luogo in italiano, piccolo o grande, famoso o sconosciuto, pre-latino o d’inizio Novecento che sia. Comunque, cent’anni di storia.

Su questa materia si sono già pronunciati tutti, e da decenni, e sempre all’insegna del più rigoroso bilinguismo: manca solo l’ultima parola della Corte costituzionale il 10 ottobre 2013. Sarebbe il colmo impedire anche a lei, anche alla Corte, di “parlare”, esattamente come si vuole vietare alla lingua di Dante di esprimersi in pieno per indicare i luoghi del cuore in Alto Adige, minuscoli o imponenti che siano.

Caro presidente, non un solo nome da abolire nella forma italiana, non un solo nome da abolire nella forma tedesca. Il bilinguismo integrale senza censure e senza sconti è l’unica scelta di ricchezza, di pluralità, di autentica “convivenza alla pari” che lo Stato ha il diritto-dovere di preservare in Alto Adige. Aggiungano l’inglese, lo spagnolo, l’arabo o il cinese ai nomi di luogo, se proprio vogliono innovare con lo sguardo al domani, anziché con la testa perennemente rivolta all’indietro. Ma l’italiano non si tocca e non si può toccare. Non facciano finta di non saperlo gli esperti della questione alto-atesina, a Roma e a Bolzano.

Mi domando, presidente, se lei, che rappresenta l’Italia, abbia capito l’importanza anche simbolica della posta in gioco. Che non è il “chissenefrega” di quattro nomi di montagna (e i nomi, peraltro, sono migliaia e migliaia). In ballo c’è il diritto alla parola, alla memoria, al futuro plurilingue che l’Italia ha costruito per l’Alto Adige con un’autonomia anche economica che non ha eguali al mondo. Ma un mondo senza più muri, né prepotenze. Dove il valore della libertà e della dignità non sono e non potranno mai essere “negoziabili” al mercato della peggiore politica.

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Sul femminicidio il decreto-legge Letta-Alfano non basta

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Questo commento è stato pubblicato su Il Tempo

Tutto all’insegna del numero due, come in una coppia, e chissà se anche il destino, birichino, non abbia voluto, così, dire la sua: due ore di riunione del Consiglio dei ministri per approvare un decreto-legge che è frutto di due mesi di lavoro, e che dovrà essere convertito in legge definitiva entro due mesi a partire da oggi.

Sul femminicidio e gli atti persecutori il governo Letta-Alfano ha dato, dunque, un primo segnale. Segnale doveroso e positivo, perché la violenza di genere viene punita con maggiore severità, le donne vittime saranno meglio aiutate dalle istituzioni e il comportamento degli aggressori uomini potrà essere, se non prevenuto -come pur si vuole-, almeno un po’ più rapidamente previsto. Il testo va nella direzione giusta e le misure speciali sono indicate in dodici articoli. Fanno parte di un provvedimento che legifera più in generale sul tema della sicurezza: è anche questa è una scelta apprezzabile.

Ma le nuove norme approvate dal governo in nome delle tre “p” (“prevenire, punire e proteggere”, come ha detto il ministro dell’Interno e vicepresidente, Angelino Alfano) sono ancora insufficienti rispetto ai parametri della “tolleranza zero” che il tema esige. Migliorano l’esistente, certo, rendono più incisivo il ruolo delle forze di polizia, l’intervento del questore e le indagini della magistratura. Ma non infrangono il tabù politico che regna, sovrano, quando si va a determinare a colpi di codice come e quando colpire l’accusato di reati gravissimi.

Il carcere continua a essere considerato solo e sempre “un male estremo”, anziché il mezzo -a volte, purtroppo, l’unico mezzo- non soltanto per interrompere la catena delle violenze, ma anche per prevenirle in tempo. Se un molestatore abituale sa che rischia di finire in cella non già tra svariati anni dopo tre gradi di giudizio, ma di finirvi subito da denunciato con gravi indizi a suo carico, è chiaro che ci penserà bene prima di continuare a perseguitare la vittima. E’ vero che l’arresto è stato introdotto per maltrattamenti, ma “in flagranza di reato”. Meglio di niente. Però il fenomeno di questa violenza silenziosa -violenza fisica, psicologica, morale, familiare- non si afferra soltanto mentre essa viene compiuta. Di più: immaginare di poterla fermare solo nell’atto in cui avviene, “in flagranza”, appunto, significa rischiare d’arrivare tardi, come la media di una donna ammazzata ogni tre giorni tragicamente testimonia.

Nel femminicidio è potente non la repressione, pur necessaria, ma la deterrenza. E’ potente il sentore della violenza che incombe, il monito alto e forte dell’istituzione nei confronti dell’uomo “prima” che si abbandoni alla violenza irreparabile, la percezione da parte della vittima che il suo grido di dolore non lascerà insensibile lo Stato e chi lo rappresenta. In questo percorso di cose dette e non dette -per pudore o timore-, di situazioni complicate dove perfino l’amore malato può trasformarsi in odio, di contesti senza testimoni diretti a parte il Lui, l’aggressore, e la Lei, la vittima, la custodia cautelare è, spesso, un’àncora di salvezza per la donna. Tolleranza zero significa che lo Stato tiene così tanto alla vita dei suoi cittadini, da proteggerla con ogni mezzo. All’occorrenza anche col carcere per chi questa vita disprezza e mette in pericolo.

Molte delle novità del decreto-legge contro il femminicidio sono utili, dalla querela irrevocabile alla possibilità d’intervenire d’ufficio, dalle aggravanti per i coniugi e per i compagni anche non conviventi all’assistenza legale per le donne senza reddito, alla corsia preferenziale per questo tipo di processi. Giusto l’aumento delle pene, la possibilità di buttar fuori di casa il violento, il permesso di soggiorno da accordare alla straniera vittima di abusi, e altro ancora. Come l’aver sanzionato il cyber-bullismo e le persecuzioni per via tecnologica. Ma la vera “modernità” si avrà soltanto quando si rovescerà il teorema che ancora ispira i nostri codici e i nostri legislatori nel rapporto, del tutto impari, tra l’accusato e la vittima del reato. Chi molesta, abusa, perseguita e compie violenza di qualunque genere, deve sapere che rischia il carcere. Subito. Non alle calende greche, che anche nella Roma di oggi valgono quanto un “mai”.

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Caro Renzi, molla il Pd

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Vengo anch’io? No, tu no! Nel Pd tutto è ancora in alto mare, ma almeno una cosa appare chiara da tempo: alla nomenclatura Matteo Renzi non piace. Ancora non si sa se il prossimo congresso di novembre (novembre?) sarà anche l’occasione per fare le primarie. Mancano, inoltre, le regole, che il partito si darà entro settembre, forse. Il futuro segretario potrà correre anche da premier, o guai a confondere il sacro col profano? (dove per sacro è da intendersi, naturalmente, il capo del Partito).

Sì, dalle parti del Pd regna l’indecisione sovrana. E in pieno Ferragosto certo non arriveranno le scelte pretese su date, procedure, doppi incarichi possibili o vietati. Ma chiaro come il sole è che nulla faranno i dirigenti del partito per rendere più semplice, rapida e incisiva la corsa del sindaco di Firenze, che pure i sondaggi danno come il più gradito a un’alta fetta di elettori non solo di centro-sinistra. Ma attenzione: Enrico Letta ormai lo tallona da vicino e, secondo alcuni, già potrebbe averlo superato in questa gara virtuale al candidato con maggiori opportunità di vincere le elezioni politiche.

Nonostante la presenza di molti e cosiddetti renziani, malgrado in queste mesi tante diffidenze sul temuto rottamatore siano cadute, al Partito il nome di Renzi fa venire l’orticaria. Troppo impulsivo, e chiacchierone, e ideolgicamente trasgressivo: senza il marchio progressista -meno che mai: comunista- all’origine della “ditta”, come simpaticamente Pierluigi Bersani chiama il Partito. E allora la domanda è questa: se per il Pd Renzi non è la carta vincente, che ci fa Renzi nel Pd? Perché rischiare la bocciatura per la seconda volta con primarie discutibili, pietoso eufemismo? Perché non puntare a guidare l’Italia forte delle sue forze e della dimostrazione d’indipendenza, cioè di carattere?

Se Renzi vuole archiviare la vecchia politica, dia lui per primo l’esempio, candidandosi al di fuori dello storico e consunto blocco Pd-Pdl. Anche dalle parti del centro-destra, tra l’altro, la forzata uscita di Silvio Berlusconi dalla scena attiva dopo la condanna definitiva apre una prospettiva del tutto nuova, specie dopo il no di Marina a prendere il testimone politico di padre in figlia. I leader passano, ma l’elettorato rimane. E che elettorato.

Dai tempi della Dc, dunque da quasi settant’anni, il popolo non di sinistra è sempre stato maggioritario in Italia. Persino nei momenti più intensi di mobilitazione -le politiche del 1948 e le europee del 1984 dopo la morte di Enrico Berlinguer, leader del Pci-, tutta insieme la sinistra non superò un terzo dei voti degli italiani. La stessa percentuale, del resto, che in tempi più recenti (2008) Walter Veltroni fece raggiungere al Pd: il 33 per cento, massimo storico.
Dunque, per aspirare a palazzo Chigi, Matteo Renzi dovrà per forza di cose, e di voti, pascolare anche e a lungo nella prateria del centro-destra. E gli sarà più facile farlo, senza l’ombra del Pd che, oltretutto, non ha alcuna voglia di lanciarlo nell’agone.

Ma si può aspirare al governo senza un partitone alle spalle? Il percorso di Beppe Grillo, che ha raggiunto il 25 per cento dei consensi privo di strutture organizzative sul territorio, testimonia che si può. Eccome, se si può: contano le idee, la credibilità della persona, la capacità di comunicare, non più la quantità delle tessere in sezione. Molto lascia intuire, inoltre, che il futuro asso nella manica del Pd, con legittime e fondate ragioni, potrebbe essere Enrico Letta: chi d’altronde, se non il rassicurante presidente del Consiglio in carica, e magari con qualche buon risultato in economia nel frattempo ottenuto?

E allora, se non si dà una mossa e non si propone come un rottamatore del logoro equilibrio Pd-Pdl, superandolo, Matteo Renzi rischia di finire come l’Incompiuto del tempo che verrà. Il postino suona sempre due volte, e una ha già suonato. Che un giorno del sindaco di Firenze non si dica: voleva governare l’Italia. Ma non ebbe il coraggio dell’unica scelta realistica e romantica: candidarsi a farlo.

Il coraggio secondo Matteo.

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Femminicidio. La storia di Lucia

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Si chiamava Lucia, come la dolce, ma risoluta protagonista dei Promessi Sposi. Qui, però, la Provvidenza non è arrivata in tempo per salvarla. E non dal castellaccio di un Innominato qualsiasi, bensì dal tormento di un notissimo avvocato in città fra noi: Vittorio Ciccolini, 44 anni portati sportivamente.

Potevi incrociarlo in tribunale o su un campo da tennis, perché giocava a buon livello con la squadra dei suoi colleghi. Invece quest’insospettabile signore della porta accanto, questo professionista di Verona destinato a una carriera brillante e importante, è stato fermato dai carabinieri e formalmente accusato per l’omicidio dell’ex fidanzata. La donna sarebbe stata uccisa con due coltellate al cuore dopo una cena romantica nel Trentino, venerdì scorso. E poi una corsa di chilometri del presunto omicida in auto per parcheggiarla nel garage della madre con dentro il povero corpo dell’uccisa sul sedile davanti, parte del passeggero, coperto da un telo.
Così sarebbe finita l’ultima cena di Lucia Bellucci, estetista di trentun anni. Con lui ancora un incontro, forse perché Lucia s’illudeva, come tante ragazze molestate, ma buone e forti d’animo, di poter, chissà, convincere il fidanzato con cui era stata per un paio d’anni a lasciarla in pace per sempre. Non si sa: le indagini diranno.

Il dramma del femminicidio irrompe a Verona proprio nel modo che meno te l’aspetti (ma è sempre così in questi delitti “sorprendenti”). Come può essere accusato l’avvocato di grido, lo sportivo in gamba, l’innamorato che, certo, soffriva per quel rapporto interrotto, ma chi non ha mai sofferto per amore? E invece può. Perché anche e perfino l’amore si ammala. L’amore può rovesciarsi nel suo tragico contrario, nella morte dell’amata, nella fine di un lungo sogno attraverso l’incubo di pochi, insanguinanti e orribili secondi.
E allora la città si risveglia incredula. Ma come, milioni di innamorati vengono da tutto il mondo per giurarsi amore eterno sotto il balcone più romantico della Terra, eppure proprio qui, nella patria universale di Romeo e Giulietta, accade l’imponderabile, l’indicibile, l’incredibile?

Sì, anche questo il femminicidio purtroppo contempla. Non soltanto la statistica nazionale di una donna uccisa ogni due/tre giorni, in media, da un uomo, ma anche la realtà che sono finite le isole felici. Se succede qui, se è successo qui, vuol dire che può succedere ovunque. Neanche il bel nome di Lucia ha potuto trattenere la violenza, la follia, la viltà del male.

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Perché non nominare Albertazzi e Fo senatori a vita?

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Lui festeggerà i suoi primi novant’anni, il prossimo 20 agosto, recitando Gabriele D’Annunzio. Anche nel giorno del compleanno Giorgio Albertazzi non rinuncia alla vita da palcoscenico, che lo ha reso il più grande attore d’Italia.

Vita intensa, colta, spericolata. Ricorda la vita di un altro grande artista e quasi coetaneo, che a sua volta riporta ad Albertazzi: l’ottantasettenne Dario Fo, il nostro più recente premio Nobel per la letteratura. Lo vinse nel 1997. Due personalità profondamente diverse tra loro anche nelle scelte politiche, destra e sinistra rispettivamente. Senza mai rinnegarle, né l’uno né l’altro. Talmente opposti, che hanno finito per lavorare insieme e, perfino, per diventare amici. Come succede a chi non ha paura di confrontare le proprie convinzioni profonde, sapendo che l’interlocutore potrà soltanto arricchirsi dall’altrui punto di vista.
Giorgio Albertazzi e Dario Fo, due italiani del Novecento che hanno contribuito a rendere più universale la nostra cultura, il nostro teatro, la nostra letteratura. Che hanno lavorato in Italia e nel mondo. Controversi entrambi, stimati e criticati, intellettuali “schierati” che però hanno saputo sempre “parlare” al grande pubblico. La libertà della parola. Hanno innovato. Hanno dato prestigio alla tradizione millenaria della lingua italiana. Hanno sollevato polemiche, dunque hanno stimolato il nostro modo di pensare e di arrabbiarci, di intendere la vita e l’impegno civico o politico che dir si voglia.

Proprio la loro diversità, proprio la loro indipendenza da qualunque forma di potere – tipica indipendenza di chi si sente forte soltanto delle sue idee e del suo carattere -, merita il riconoscimento della nazione. Merita un “grazie”, semplicemente. Quasi un atto simbolico per dire che, quando c’è rispetto, quando c’è intelligenza, quando c’è generosità anche i più lontani rivali, così lontani da diventare amici, possono dare l’esempio a quest’Italia piccina e divisa più o meno in tutto. Dalla politica al calcio siamo all’eterno Mazzola-Rivera, come se i guelfi e i ghibellini fossero l’unico futuro della memoria.
Invece la felice contrapposizione e la felice mescolanza tra Albertazzi e Fo insegna che un grande Paese come l’Italia può allo stesso tempo dividersi e remare insieme. Può contrastare fino in fondo l’altrui punto di vista, ma perché lo considera degno del contrasto. Senza sconti, ma senza rancore: sfidando la diversità con franchezza.

Ecco, se il nostro presidente della Repubblica non fosse già tirato per la giacchetta in ben più amari contrasti -quelli offerti dalla quotidiana, precaria e penosa politica-, se Giorgio Napolitano non avesse già altri e assai più complicati pensieri per la testa, verrebbe voglia di chiedergli, sommessamente: caro presidente, perché non nomina senatori a vita il più grande attore d’Italia e il premio Nobel dell’Italia? Perché non dare un segnale alto e forte non solo di gratitudine della nazione ai due meritevoli, ma anche un messaggio politico di “come si fa” a convivere fra realtà, visioni e persone agli antipodi? La grandezza dell’Italia è sempre stata il mosaico delle sue differenze, la molteplicità delle sue bellezze, la pluralità delle sue idee. Quel contrasto antico e moderno di voci, di cuori e di colori che porta alla sintesi della Repubblica una e indivisibile. Neanche nei momenti di crisi economica, neanche quando sembrano smarrirsi il significato della politica e il senso dello Stato il valore dell’italianità può venir meno. Quest’italianità a tinte forti, incontenibile e ribelle, ma viva e piena di sogni di cui siamo tutti figli dei figli. Sì, la speranza incarnata in due giovani novantenni: chiedere per conferma ai ragazzi di oggi, che seguono con passione le attività dei due artisti.

Ecco, far entrare Giorgio Albertazzi e Dario Fo al Senato della Repubblica sarebbe un piccolo, ma importante suggello per dire che la contrapposizione ideologica del Novecento è finita. Per dire che oggi il contrasto, durissimo, si fa con le idee. Per dire che l’Italia continuerà a discutere -e come non potrebbe?- se Mazzola fosse più bravo o no di Rivera. Ma intanto, da allora, ha vinto altri due mondiali: a Madrid nel 1982 e a Berlino nel 2006. Come il calcio, anche la cultura ha bisogno di continuare a vincere.

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Papa Francesco e l’Argentina “che parla italiano”

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Dei tredici calciatori argentini che si sono alternati nell’amichevole con la nostra Nazionale alla vigilia di Ferragosto, ben sette portavano cognomi italiani. E mancava il più bravo di tutti, che si chiama Messi, perché la famiglia d’origine arrivò a Buenos Aires nella seconda metà dell’Ottocento partendo da Recanati, proprio la patria di Leopardi: poesia e pallone, la stessa forma d’arte per “la pulce”, l’oggi campione e figlio dei figli.

Ma diamo un’occhiata anche agli Azzurri, che hanno perso un po’ svogliati 2 a 1 (si sono svegliati solo alla fine) nella partita in onore di papa Francesco. E scopriamo che uno degli attaccanti si chiama Osvaldo, ma è argentino. Come il pontefice venuto “quasi dalla fine del mondo”, che è nato oltre l’Atlantico anche lui, ma da padre piemontese.

E allora è arrivato il momento di ricordarlo ai molti governi che l’hanno troppo a lungo dimenticato: l’Italia e “la Argentina” sono nazioni-sorelle. Sorelle separate dall’Oceano e, a volte, da una politica fallimentare, come purtroppo sanno 450 mila italiani che avevano comprato obbligazioni argentine. E che sono rimasti vittime anche loro della terribile crisi economica esplosa da quelle parti alla fine del 2001.

Ma come capita tra parenti stretti, che proprio perché hanno lo stesso sangue e molti sogni in comune sono autorizzati a dirsele di tutti i colori per poi riabbracciarsi, è ora che Roma e Buenos Aires riscoprano quel legame antico e moderno che non è mai venuto meno tra le persone. E che oggi è rappresentato anche simbolicamente da Jorge Mario Bergoglio, un Papa che ha scelto di chiamarsi con l’italianissimo Francesco, che ha ammesso con simpatia la sua difficoltà sportiva, alla vigilia della partita, di tifare per l’una o per l’altra Nazionale del suo cuore e che non perde occasione per dimostrare la continuità sentimentale, caratteriale e persino linguistica fra la “sua” Argentina e l’altrettanto “sua” Italia.

Del resto, fu un altro Jorge, Jorge L. Borges, l’importante scrittore argentino che nulla aveva di italiano in famiglia – ma che amava e considerava Dante “il più grande poeta del mondo” -, a dare un paio di fulminanti definizioni sull’identità dei suoi connazionali. “Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e si credono inglesi”, disse una volta.

Ma a questa battuta, la più celebre, ne seguì un’altra non meno profonda né spiritosa. A chi gli domandava perché non fosse così nazionalista come lo sono, solitamente, gli argentini, Borges rispondeva: “Perché non scorre sangue italiano nelle mie vene”. Ecco, il miscuglio alla pari dell’identità italiana e spagnola (metà della popolazione argentina ha rami italiani in famiglia), ha creato questo mix esplosivo degli argentini sempre espansivi, esageratamente espansivi come gli abitanti di Buenos Aires, detti “porteños”.

Ma questo calore, questa forma di “maradonite” – da Maradona – con atteggiamenti a volte sopra le righe tipico di gente aperta e accogliente, dalle battute pronte e sagaci stile papa Francesco, è l’ennesimo aspetto in comune di due popoli lontani diecimila chilometri tra loro. Non c’è italiano che non sia rimasto incantato e commosso, dopo essere andato in Argentina alla ricerca di parenti mai prima conosciuti.

E non c’è argentino che non rimanga estasiato dell’Italia, questa “patria dei nonni” che laggiù evoca la stessa sensazione del nostro “andare in America” evocato per generazioni.
Sarebbe un delitto, dunque, che il governo, il Parlamento e le istituzioni non prendessero atto di quest’altra immensa, anarchica, ma generosa Italia che vive al di là dell’Atlantico. L’Argentina non è solo un tesoro della nostra memoria in America latina. L’Argentina è soprattutto il ponte di un futuro che solo per la sorella-Italia può arridere, se coltivato con intelligenza e lungimiranza.

L’Argentina e quell’America “che parla italiano” con quasi cinquanta milioni di cittadini discendenti dai nostri emigranti fra Brasile, Uruguay, Venezuela, Cile e altrove, devono tornare a essere un “interesse nazionale”. Papa Francesco e la partita del cuore del 14 agosto con due Nazionali intercambiabili nei nomi e perfino nei campionati (ben nove dei tredici argentini giocano o hanno giocato in serie A), sono il segno della svolta possibile e necessaria.

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Lo strano caso di Silvio Berlusconi

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Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Si potrebbe parafrasare il titolo di un libro, da cui hanno tratto anche un bel film, e chiamarlo, dunque, “lo strano caso di Silvio Berlusconi”. Un caso senza precedenti, dove perciò vale tutto e il contrario di tutto. E se perfino i costituzionalisti si dividono nelle interpretazioni, allora la questione dev’essere piuttosto seria.

Così seria, che i due più importanti rappresentanti del governo in nome e per conto, rispettivamente, del Pd e del Pdl, cioè Enrico Letta e il suo vice Angelino Alfano, si sono incontrati faccia a faccia per trovare l’accordo nel disaccordo. Le persone giuste al momento giusto essendo, quei due, i più democristiani della maggioranza, ed entrambi propugnatori di una “responsabilità” che rischia di venir meno col passare dei giorni e l’incombenza di una crisi che per la prima volta intravede la luce in fondo al tunnel.

Mandare l’esecutivo a carte quarantotto proprio ora? Sarebbe una follia, visto da destra, da sinistra, da chiunque.
Ma come risolvere l’enigma è difficile, perché in ballo ci sono due principi invalicabili: legalità e sovranità.

Sul primo l’ultima e definitiva parola l’ha pronunciata la Cassazione, condannando per frode fiscale l’imprenditore Berlusconi. Ma l’imprenditore è nel frattempo diventato, e da vent’anni, il leader riconosciuto e votato del centro-destra. Con l’aggiunta che tale partito oggi è una colonna portante del governo. E quindi esige, il partito, una “agibilità politica” per il suo leader indiscusso, ma condannato. In pratica, che il Cavaliere non venga dichiarato decaduto come senatore da una legge, l’ormai celeberrima Severino, che proprio questo prevede. E siccome l’atto implica il voto del Senato, è complicato immaginare che il Pdl possa restare nel governo, se l’alleato Pd contribuirà a mandare a casa il capo altrui.

Nella contesa si pensa o si spera di far entrare il Quirinale, anche se nessuno ha ancora capito come. Grazia, commutazione della pena, scossone del presidente alla traballante maggioranza? Ognuno, anche qui, dice la sua. Ma di recente l’ha detta, anzi, scritta pure Giorgio Napolitano, che non intende prestarsi a pasticci. Pur avendo a gran cuore la governabilità del Paese, e pur avendo definito “leader incontrastato” Berlusconi. Ma tutto nel rispetto rigoroso della legge, ha ricordato.

Come uscirne non lo sanno bene nemmeno loro, i Letta e gli Alfano all’ultima e ancora infruttuosa trattativa. Ma sanno che devono uscirne nell’interesse della stabilità e dei due valori rivendicati: legalità e sovranità. Il Pd preme sul primo con la stessa intensità con cui il Pdl preme sul secondo. Intanto è partito il conto alla rovescia del voto al Senato sullo strano caso di Silvio Berlusconi.

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Berlusconi ed Epifani, speculari ipocrisie

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Cade o non cade? È partito nel modo peggiore il conto alla rovescia sul governo, e l’apparenza inganna: se il Consiglio dei ministri di dopodomani non abolirà l’Imu sulla prima casa – avverte il Pdl -, finisce l’avventura delle larghe intese col Pd. Sarebbe, peraltro, una bella novità immaginare che una maggioranza così strana e di emergenza come l’attuale, si metta in gioco su una scelta strategica di politica economica, anziché su un interesse di parte. Ma non è così.

Il braccio di ferro sulla pur odiosa imposta che non colpisce i ricchi, bensì l’85 per cento degli italiani – tanti sono i possessori di un’abitazione -, è soltanto un pretesto per mettere alla prova una convivenza arrivata, ormai, ai materassi. Una convivenza che la condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale ha reso più drammatica, ma che sta svelando una grande ipocrisia di fondo.
L’ipocrisia del centro-destra, che dietro la legittima richiesta di una non meglio precisata “agibilità politica” per il suo leader, in realtà tende a liquidare una sentenza della Cassazione, come se non fosse definitiva. Eppure, fin dai banchi di scuola tutti abbiamo imparato una lezione riassunta in latino col “dura lex, sed lex”. La legge è severa, ma è legge, e ogni cittadino è chiamato a rispettarla. Perfino quando il cittadino si chiama Socrate e beve la cicuta dopo la condanna più ingiusta che sia stata da allora tramandata ai posteri.
Ma l’ipocrisia del centro-sinistra, cioè dell’alleato centrale nel governo, è speculare. Dietro l’altrettanto legittima richiesta che si applichi nei riguardi del cittadino Berlusconi quel che le leggi prevedono per tutti, si tende in realtà a eliminare – finalmente, dopo vent’anni – l’insopportabile avversario politico che ancora oggi, secondo i sondaggi, potrebbe compromettere la vittoria di un Pd diviso persino sul candidato da contrapporgli.

Questa lotta cieca e irriducibile fra Pd e Pdl, con toni e ultimatum rivelatori del rancore ideologico che cova per tutti sotto la cenere, non tiene conto dell’unico interesse vitale: dare a noi stessi e al mondo l’idea che i governi assicurano un minimo di stabilità, specie in epoca di crisi. Avremo pure maggioranze strampalate e ministri litigiosi ma, per favore, che l’esecutivo non duri soltanto un quarto d’ora. Neanche il tempo sufficiente per dirsi addio senza rimpianti.
C’è, allora, una soluzione al rebus? Certo che c’è, perché il nodo non è giuridico, ma politico. E passa per l’accettazione degli uni di una sentenza che non impedisce al Cavaliere di continuare a essere il Cavaliere del Pdl, anche senza più sedere a palazzo Madama (luogo, peraltro, da lui poco frequentato). Insegna l’esempio di Beppe Grillo, leader che più leader non si può dei Cinque Stelle, ma privo di poltrone parlamentari. Del resto, quel matto lungimirante di Marco Pannella l’ha colto, il paradosso: persino se Berlusconi finisse in prigione, anziché ai servizi sociali, la sua leadership ne uscirebbe rafforzata agli occhi di un’ampia fetta di italiani che lo considera vittima di una persecuzione politica. Dunque, anche nell’ipotesi più grave e amara per l’uomo, l’”agibilità politica” del capo del Pdl non è a rischio.

Ma, parimenti, nel Pd dovrebbero smetterla di voler disegnare loro, sarti presuntuosi, il leader che il centro-destra dovrebbe ritagliarsi. Se una parte del Paese ha scelto e continua a scegliere Berlusconi, gli antagonisti imparino a batterlo alle elezioni, invece che giocando a nascondino sicuri di vincere dietro l’inappellabile Cassazione. E risolvano, semmai, il “loro” dilemma amletico tra Matteo Renzi ed Enrico Letta, il candidato da contrapporre al Pdl, domani.
Ma la grande ipocrisia che regna fra Pd e Pdl risparmi almeno il governo. Anche nello scenario da ultima spiaggia che incombe e di voto anticipato che molti sognano (Grillo, i renziani, lo stesso Berlusconi), la “volontà politica” delle due parti che si sfidano e delle istituzioni che pesano, può fare molto. Può salvare le tre cose che contano: l’esecuzione della legge, l’agibilità politica del Cavaliere e il governo dell’Italia.

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Pedofilia, un delitto sottovalutato

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Indigna, ma non sorprende quello che gli italiani hanno appreso qualche giorno fa a Roma, quando un uomo condannato in primo e secondo grado a tre anni di carcere per violenza sessuale a danno di una bambina, è stato rimandato a casa dai giudici. Con la conseguenza che non sconta in prigione tutta la pena già ridicola ottenuta col rito abbreviato, e che potrà riapparire in carne e ossa davanti alla sua piccola vittima, abitante con la mamma proprio al piano di sotto.

Aleggerà come un vecchio e spaventoso fantasma del passato che non passa. E stiamo parlando di una bambina oggi tredicenne, che è stata molestata per anni fra il 2005 e il 2010, trovando alla fine il coraggio di raccontare tutto alla madre vedova. Di raccontare che quell’uomo sposato, nella cui abitazione la mamma a volte la lasciava perché costretta a improvvisi impegni di lavoro, non era il vicino di fiducia che pur sembrava. Era un pedofilo.

Indigna, ma non sorprende il contesto di insensibilità generale verso i colpevoli di un delitto del tutto sottovalutato, come dimostrano, d’altronde, la pena irrisoria per fatti gravissimi e la leggerezza con cui hanno agito prima i legislatori nello scrivere la legge e poi i magistrati nell’applicarla. Come se questo tipo di violenza fosse paragonabile ad altre e pur odiose violenze. Impossibile: qui si colpiscono non solo persone innocenti, ma innocenti nell’età dell’innocenza.

Eppure, se da un lato la pedofilia è generalmente considerata quel che è, cioè un delitto infame, dall’altro si stenta a riconoscere il pedofilo che la commette. E’ un Male spesso senza volto, perché si fatica a pensare che un uomo adulto, magari anche marito e padre di famiglia, il classico “buon vicino di casa” possa trasformarsi in mostro a contatto con minorenni. A torto, si ritiene “improbabile” o frutto di fantasia – i bambini, si sa, amano fantasticare -, il racconto-denuncia di un minore. La società non si convince che un bambino, soprattutto un bambino, sia portato a dire la verità, nient’altro che la pura e semplice verità.

E così, anziché indagare subito e bene sul sospetto pedofilo indicato dal minore, si finisce per inquisire la famiglia denunciante. Si finisce per fare le pulci alle dichiarazioni del bambino (“avrà per caso trasfuso nella realtà una scena di nudo vista in tv?”). Si finisce per ricorrere a un garantismo cieco e impotente a scapito del concreto e logico accertamento dei fatti. Nel dubbio si tende a pensare non che l’uomo irreprensibile possa essere un orco, ma che il bimbo o la bimba che lo additano, si siano inventati una loro brutta favola.

Illuminante è la storia firmata da Claudia Mehler e pubblicata di recente da Mondadori, “Alla fine resta l’amore”. La più importante casa editrice in Italia presenta, in realtà, una vicenda costretta alla clandestinità fin dall’identità dell’autrice, essendo Mehler uno pseudonimo. Con nomi, cognomi, date e luoghi tutti irriconoscibili in un racconto, invece, autentico, vissuto e pieno di terribili particolari. Il racconto di una bimba di sei anni che ha la forza di confessare alla madre le molestie sessuali subìte da un bidello. Ma la scelta della famiglia di denunciare il fatto, credendo alla versione della figlia e ai molti e verificabili dettagli che fornisce, non porta nemmeno a un processo. Perché nella bilancia della giustizia l’indagato, “presunto innocente”, pesa molto di più della vittima che lo denuncia, specie se è bambina. E’ la vittima, paradossalmente, che dovrà discolparsi: dall’ipotesi altrui d’aver equivocato, inventato, fantasticato, chissà. Testimonianza camuffata, nel libro, ma incisiva come la voce di una coscienza in una vicenda rimasta fuori da un tribunale. Clandestina, appunto. Ma che grida verità da ogni pagina.

E allora non ci si stupisca, ma ci si indigni, se hanno deciso di far tornare a casa un pedofilo, incuranti di sapere che ne sarà della bambina alla finestra del piano di sotto.

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Letta e Delrio uccidono l’italiano in Alto Adige

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Questo commento è stato pubblicato sul quotidiano Il Tempo.

Stanno sfidando, contemporaneamente, la Costituzione della Repubblica, l’Accordo De Gasperi-Gruber fra Roma e Vienna, lo Statuto speciale di autonomia per l’Alto Adige e soprattutto il più elementare e civile buonsenso.

Il provvedimento del Ministro per gli Affari regionali
In barba all’obbligo del bilinguismo italiano-tedesco nella toponomastica e alla faccia dell’ufficialità della lingua italiana “che fa testo negli atti bilingui” sancita anche da una norma costituzionale, il ministro per gli Affari regionali, Graziano Delrio, ha avallato un’intesa umiliante: l’abolizione di 135 nomi italiani da malghe, cime, forcelle fra le incantevoli montagne dell’Alto Adige. Proprio come avevamo scritto e paventato su Il Tempo.
Nomi italiani che esistevano da quasi settant’anni di bilinguismo per legge, e che i cittadini di lingua italiana del posto o i turisti connazionali e del mondo potevano pronunciare. D’ora in avanti, rovesciando un principio di civiltà giuridica e di lungimirante convivenza, 135 nomi avranno la sola dizione in tedesco. Creando, così, un precedente di gravità inaudita, che solo un ministro digiuno di cose alto-atesine può aver sottovalutato: quel precedente che la Svp, controparte dell’intesa, da sempre cercava per introdurre il monolinguismo non più “di fatto” – come già avvenuto in tanti cartelli di montagna -, ma addirittura “di diritto”.

L’eliminazione di diritto della forma italiana
Sparisce la lingua italiana con il consenso di un ministro e di un governo, che neppure si chiedono perché mai la Procura della Repubblica a Bolzano avesse aperto un’inchiesta proprio contro la strisciante e mai punita eliminazione della forma italiana dalla toponomastica bilingue in troppi cartelli dell’Alto Adige. Quel che la Procura considerava, a ragione, una violazione inaccettabile di svariate norme ordinarie e costituzionali, oggi il governo-Letta-Delrio s’appresta, invece, a concedere. E proprio mentre in ottobre la Corte Costituzionale sarà chiamata a giudicare una legge provinciale bolzanina che vorrebbe fare quello che ora viene anticipato per 135 nomi: tabula rasa della toponomastica italiana.

Le motivazioni del provvedimento
L’alibi dietro questa resa al radicalismo in doppiopetto così ben interpretato sui toponimi da Luis Durnwalder – quello che due anni fa si rifiutò, unico governatore in Italia, di partecipare alle cerimonie ufficiali per i 150 anni di unità della nazione -, è che tali nomi sarebbero “poco usati” nella forma italiana. E che il taglio non si estenderebbe a luoghi ben più importanti come i Comuni. Chi se ne importa, insomma, di quattro sassi: diamo pure soddisfazione alla Svp, il partito che ha preteso l’intesa alla ghigliottina con il Pd in cambio di un’inconsueta alleanza elettorale.
Ma il criterio all’amatriciana di far fuori i nomi “poco usati”, è due volte ridicolo. Prima di tutto perché non è contemplato in nessuna delle molte leggi che impongono l’obbligo del bilinguismo nella toponomastica. E poi chi lo stabilisce l’”uso”? Come si può immaginare che Durnwalder o il commissario del governo a Bolzano elenchino – loro! – la lista di quel che “può” o “non può più” restare bilingue? Chi lo determina, l’uso presunto: il barista dietro l’angolo, mia zia, sua nonna? Quanti residenti o turisti italiani dovranno passare perché quel tal posto possa avere l’”onore” d’essere chiamato anche in italiano? Siamo alla saga dell’assurdo, perché in realtà il nome italiano già esiste, ed esiste spesso da quasi un secolo. Se esiste, nessuno può arrogarsi l’autorità di cancellarlo. Ricorrere all’”uso” è solo un espediente, è il paravento della prepotenza.

Un taglio alla Costituzione
Forse il ministro Delrio non ha compreso l’incandescenza della materia e la conseguenza immediata: che in Italia a cittadini italiani o del mondo possa essere proibito di pronunciare in italiano nomi di luogo. Esattamente quel che da tempo volevano i gruppi oltranzisti di lingua tedesca, e che ora diranno che 135 nomi aboliti sono “troppo pochi”.

Ma il punto, caro ministro Delrio, è che sulla pelle della Costituzione nessuna forbice è ammissibile. Anche l’avvenuta cancellazione di un solo nome italiano – e qui se ne calpestano 135 -, è uno schiaffo non soltanto alla neppure consultata comunità di lingua italiana, lassù, ma all’essenza stessa del bilingue Alto Adige. Se il ministro Delrio non rifletterà e si fermerà in tempo (il beneficio della buona fede vale per tutti), è augurabile che intervengano le massime istituzioni. Non è concepibile un torto così grande alla Legge e alla storia dell’Italia in Alto Adige. Uno sfregio così mortificante alla libertà di parola cancellata, senza provare un brivido di vergogna.

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Il referendum su Berlusconi

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Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma

Tra pochi giorni ci sarà un referendum, ma i dodici quesiti promossi dai radicali non c’entrano. Ci sarà il referendum per un “sì” o un “no” alla permanenza di Silvio Berlusconi al Senato. Lo scenario che si apre il prossimo 9 settembre a palazzo Madama, prevede due possibilità, e una peggiore dell’altra. O la giunta per le elezioni vota per la decadenza del Cavaliere da palazzo Madama, oppure ne sospende il giudizio, inviando gli atti alla Corte Costituzionale per approfondire la conformità ai massimi principi di una legge pur fatta da loro, cioè fatta da senatori e deputati. Sarebbe qualcosa di mai visto in precedenza: gli onorevoli che dubitano di se medesimi. Così come, del resto, mai s’era visto che fosse necessaria una legge – l’ormai celebre -Severino -, per stabilire che i condannati per gravi reati non entrano in Parlamento. Altrove ci pensano gli elettori o i diretti interessati da soli, senza bisogno che qualcuno glielo rammenti con un provvedimento.

Perciò, il caso del decadente Silvio Berlusconi è senza precedenti da qualunque punto di vista lo si voglia considerare. Eppure, il tira e molla sulla vicenda rischia di produrre un solo risultato: la fine del governo. Sia che il leader del Pdl venga silurato sulla base della legge contro l’incandidabilità dei condannati, sia che venga salvato in attesa di un’interpretazione della Consulta sull’applicabilità della legge a un caso del tutto inedito, sarebbe il caos.

Nell’ipotesi della decadenza il Pdl non potrà mostrare indifferenza per la decapitazione del proprio capo. Se il Pd avrà contribuito ad affondare il Cavaliere, cioè il leader del partito avverso, ma alleato di maggioranza, la reazione inevitabile dei colpiti sarà la caduta dell’esecutivo-Letta. Ma accadrebbe la stessa cosa a parti inverse.

Se il Pd dovesse fornire un aiutino al Cavaliere temporeggiando, la reazione degli elettori e sostenitori del centro-sinistra sarebbe egualmente furente. Dopo che il Pd ha fatto fuori Franco Marini e soprattutto Romano Prodi dalla corsa al Quirinale, il salvagente lanciato all’odiato nemico verrebbe vissuto come il terzo e peggiore dei tradimenti. L’effetto sul governo Letta sarebbe altrettanto immediato e automatico: tutti a casa.
E allora a prescindere da ogni discorso giuridico o morale sul merito della questione, Berlusconi ha solo una scelta politica, se davvero tiene a questo governo che ha appena abolito l’Imu per la prima casa – proprio come chiedeva lui -, e se vuole continuare a guidare il centro-destra. La scelta è semplice: dimettersi da senatore.

A meno di un inimmaginabile e controverso compromesso ai tempi supplementari (ma quale?) tra Pd e Pdl, soltanto con la rinuncia il leader del Pdl potrà evitare quel braccio di ferro che si rivelerebbe devastante comunque finisse. Invece, togliendo l’alibi del grande litigio, nulla potrà più impedire a Berlusconi di continuare a influire sull’esecutivo con una politica gradita anche agli elettori di centro-destra – l’esempio dell’Imu testimonia -, e allo stesso tempo di guidare il Pdl come il non parlamentare Beppe Grillo fa coi Cinque Stelle: e nessuno dubita della sua leadership.

Nel caso di Berlusconi, oltretutto, con l’addio al Senato si profilerebbe la possibilità di scontare una condanna breve (meno di un anno) e con tutti i comodi benefici di legge. Tra i quali l’invocata “agibilità politica” che, di fatto e pur con le difficoltà di un condannato ai domiciliari o ai servizi sociali, nessuno potrà contestargli. E se qualche magistrato lo facesse, il Cavaliere diventerebbe ancor più vittima, cioè forte, agli occhi dei numerosi italiani che considerano la sua vicenda giudiziaria come l’esito finale di una lunga persecuzione politico-ideologica.
Se va allo scontro, il decadente Berlusconi perderà il governo, che è la principale carta politica ancora in mano (e le elezioni anticipate non sono affatto scontate). Se invece si dimette, potrà conservare un peso nel governo e un ruolo politico nel Paese, oltre che sperare in un gesto clemente del Quirinale. In attesa di tempi per lui migliori, e non lontani.

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Benvenuti in Italia, il Paese delle riforme mancate

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Questo commento è stato pubblicato sull’Arena di Verona

Quando si tagliano mille sedi giudiziarie in un colpo solo, gli errori non sono possibili: sono sicuri. Così come sicuro è il nuovo disagio a cui andranno incontro, soprattutto nei primi tempi, gli avvocati, i magistrati, il personale degli uffici e in particolare i cittadini dei luoghi senza più un tribunale dall’oggi al domani. Comprensibili, dunque, le ragioni che in queste ore in varie parti d’Italia animano le proteste e le preoccupazioni di quanti si sentono colpiti dal provvedimento nazionale in vigore.

Anche se c’è modo e modo di protestare, e minacciare di darsi fuoco se il governo non bloccherà questa novità, non è la maniera più corretta di reagire. Ma al di là del legittimo dissenso e del diffuso malcontento, resta il fatto che non è possibile reclamare riforme ogni giorno che passa e poi, quando la riforma arriva, fare le barricate per impedirla. Non è possibile, oltretutto, quando tale riforma riguarda un settore-cardine che finora non ha dato grandi prove né di efficienza né di “giustizia giusta” per i cittadini, nonostante la presenza di queste mille sedi giudiziarie che adesso saranno accorpate ai tribunali principali per evidenti esigenze di risanamento.

Con le piccole, ma vigorose ed estese rivolte contro il “taglia-tribunali” applicato da questo governo, ma deciso da quello precedente, esplode anche la vera contraddizione politica e sociale che da troppo tempo affligge l’Italia: parlare sempre di riforme, ma non farle mai. E se per caso una riforma va in porto, ecco che si mobilitano quelli che temono di perdere qualcosa del loro particolare, ignorando l’effetto benefico che invece la rinuncia potrà avere in termini generali.

È un po’ la filosofia, rovesciata ma identica, de l”importante è che non si faccia nel giardino di casa mia. Qui, invece, si pretende l’opposto, cioè che non si privi il proprio giardino di un beneficio considerato inamovibile, anche se tale beneficio è stato, nell’interesse di tutti, semplicemente spostato qualche chilometro più in là.

Intendiamoci, fra gli interessi localistici e corporativi non mancheranno buone ragioni e ragionevoli riflessioni che il governo ha il dovere di prendere in considerazione. Ma il principio, i numeri e gli obiettivi di questa prima e pur timida riforma della giustizia non devono venir meno. Fare di giorno e disfare di notte sarebbe un pessimo segnale: miopia al momento della scelta politico-organizzativa e mancanza di coraggio al momento d’applicarla. A volte l’impopolarità del campanile è necessaria nel superiore e solidale interesse nazionale.

Se il governo crede d’aver fatto la cosa giusta, ora ha il compito di spiegarla, di difenderla ed eventualmente di apportare qualche piccola correzione. Senza però vanificarla.

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Berlusconi e le danze macabre di amici e avversari

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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito oggi sulla Gazzetta di Parma

E’ un conto alla rovescia inusuale, perché si sa già come finirà la partita del senatore Silvio Berlusconi: sarà comunque destinato a lasciare il Parlamento o per la legge-Severino o per la successiva e già annunciata interdizione dai pubblici uffici in arrivo entro l’anno. Ma nessuno sa che cosa succederà da qui al giorno del giudizio, il primo giudizio di mercoledì prossimo alla giunta per le elezioni di palazzo Madama. E soprattutto nessuno può prevedere quale sarà l’effetto -anche effetto “a scoppio ritardato”- della decisione della giunta sul governo. Per l’ex presidente del Consiglio e leader del Pdl e per l’attuale presidente del Consiglio ed esponente di spicco del Pd, Enrico Letta, si apre, dunque, la settimana più difficile della legislatura. Berlusconi alle prese con la decadenza dal seggio parlamentare, Letta con un esecutivo in bilico per quel voto che spacca.

Partita inusuale, ma partita pregiudiziale. Il braccio di ferro ha poco da vedere con le nobili motivazioni giuridico-costituzionali e con le profonde questioni politico-istituzionali che pure, a turno, Pd e Pdl invocano per giustificare il proprio e inconciliabile punto di vista. Ai parlamentari del centro-sinistra non interessa la sorte dell’antagonista condannato col quale, anzi, possono finalmente regolare i conti dopo un ventennio di alterne vittorie e sconfitte, soprattutto sconfitte. Ai senatori di centro-destra preme soltanto salvare il loro leader dall’onta di un’espulsione dal Parlamento senza precedenti, e senza perdere la faccia: come farebbero, del resto, i ministri del Pdl a restare al governo con l’alleato-Pd che ha cacciato il Cavaliere e loro capo dal Senato?

Proprio perché di tiro alla fune si tratta, appare grottesca la richiesta agli uni di “leggere le carte” presentate dalla difesa, come se la sfida fosse in punta di diritto. Agli altri, di mollare Berlusconi, come se il governo voluto e votato anche dal partito di Berlusconi orbitasse in un altro e distinto pianeta. E così, nel dubbio, le parti già si scambiano l’accusa di “volere la crisi” o addirittura il voto anticipato, come dicono Guglielmo Epifani al Pdl e Renato Schifani al Pd. Sono le ultime mosse per tentare d’orientare la scacchiera della giunta cercando di evitare, se non lo scacco matto al Re decadente, almeno la caduta del governo. Perfino la giustificazione del voto segreto previsto nel successivo esame dell’aula, e la proposta di volerlo trasformare in voto palese, ubbidiscono al rigoroso ruolo delle parti: con o contro Berlusconi, a prescindere da sentenze, grazie, governi e principi costituzionali pur da tutti evocati. E’ una nuda e cruda resa dei conti, che arriva all’ultimo atto.

Anche le prese di posizione in qualche modo “terze” di Mario Monti, che vuole trasformare la strana coalizione in “governo di legislatura”, o di Pier Ferdinando Casini, che mai starà insieme, ha detto, con chi “farà cadere il governo-Letta”, rientrano nel gioco delle parti.
Allo stato, allora, solo tre cose sembrano inevitabili, e tutto il resto imprevedibile. Inevitabile che Berlusconi prima o poi dovrà lasciare il Senato (ma continuerà a guidare il Pdl dagli arresti domiciliari o dai servizi sociali). Inevitabile che nessuno dei due alleati ma avversari, Pd-Pdl, staccherà per primo la spina al governo, specie di questi giorni (invece del doman, com’è noto, non v’è certezza). Inevitabile che dal modo e dal tono con cui i contendenti arriveranno al verdetto, si capirà la durata del governo-Letta al presente, ma soprattutto la sua futura capacità di decidere e di incidere sull’economia.

Secondo Beppe Grillo lo scontro in corso è di facciata e alla fine, magari col voto segreto (“un abominio”), il Pd salverà Berlusconi in aula. Ma la posta in palio va ben oltre la decadenza del Cavaliere dal Senato. Come il “quasi gol”, che non è un gol, siamo alla “quasi rottura”. La vigilia più lunga è cominciata.

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Le penose lezioni che l’Europa impartisce all’Italia

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Grazie all’autorizzazione dell’autore, pubblichiamo il commento di Federico Guiglia uscito ieri sul Tempo

Mancava solo Olli Rehn (nella foto), al secolo vicepresidente della Commissione europea. Mancava solo lui per venirci a dire che altrove, dove si fa e si disfa la tela economica del Continente, non piace il taglio dell’Imu sulla prima casa appena fatto dal nostro governo. Non piace e addirittura “preoccupa”, come l’esimio si è premurato di spiegare alla commissione Bilancio alla Camera, dove peraltro il nostro ha avuto la cortesia di paragonare l’Italia alla Ferrari, ricordando che siamo e restiamo la terza economia in Europa (e la sesta nel mondo, aggiungiamo noi).

Eppure, bisognerà prima o poi spiegare a Lorsignori, che tanto si affannano per il nostro destino – ché è anche il loro -, quanto segue: ogni previsione di benessere o di crisi, di crescita o di deficit, di investimento o di debito cammina sulle gambe e sulle tasche degli italiani. Non esiste sacrificio al mondo (e l’Imu era un fior fiore di sacrificio in Italia), che possa essere fatto senza aumentare le tasse o tagliare le spese. E per il nostro Paese, caro mr Olli Rehn, si prospetta un autunno caldo, anzi, bollente sotto il profilo del lavoro, della produzione, della tassazione.

Vale, anche qui, la piccola cronaca di tutti molto più che la grande analisi per pochi. Basta andare in una stazione di benzina per assistere, come mai era successo in passato, alle code degli automobilisti che mettono la benzina da sé, invece che rivolgersi al dipendente di turno. E questo per risparmiare pochi spiccioli che moltiplicati per molti litri possono fare una bella differenza. Altro facile esempio? Mai come in questo periodo nelle case degli italiani arrivano tante telefonate di aziende, enti e società che propongono di cambiare questo o quel gestore di gas, di telefono, di elettricità. E molti accettano di spostarsi un poco più in là pur di risparmiare qualcosa nel bilancio familiare di fine anno.

E poi c’è l’Iva, che il governo vorrebbe poter non aumentare, ma ancora non si sa. E poi ci sono le detrazioni che non detraggono più, le agevolazioni fiscali che agevolano sempre di meno, il carico di un reddito che per molti, troppi italiani non aumenta di sicuro dal lato delle entrate, ma solo da quello delle tasse. Anche la patria della Ferrari, che pure ha appena richiamato a servizio Kimi Raikkonen finlandese come mr Rehn, deve fare i conti con una crisi che ancora morde e con un’economia che arranca. Aver abolito l’Imu, quindi, non è stata soltanto la cancellazione della più odiosa e ingiusta imposta pagata dai cittadini, ma soprattutto un doveroso segnale di sollievo. Il segnale che la terza economia d’Europa può ripartire, se non ha il peso delle zavorre dentro le sue tasche. Perché non si vive di sole tasse. Non si fanno i conti europei senza l’oste italiano. Non si impone a un popolo intero il parametro puramente teorico e ragionieristico di un risanamento del tutto virtuale, scollegandolo dalla realtà dei sacrifici quotidiani: i soli che contano e che rappresentano l’investimento autentico, in carne e ossa, di chi lavora, di chi non lavora più, di chi ha lavorato una vita intera e di chi vorrebbe almeno sognare di poterlo fare.

D’altra parte se il rilancio dell’economia e le questioni del lavoro non fossero una priorità per l’Italia, mai sarebbe nato un governo di larghe intese per affrontarla. Potrà sembrar strano agli amici europei che vengono di tanto in tanto – ma sempre più spesso – a trovarci. Ma sappiamo bene e sappiamo tutti quali siano le difficoltà e gli ostacoli che impediscono all’Italia di continuare la sua lunga e antica marcia. Ma nessuno, qualunque sia la casacca politica che indossa, si azzarda a proporre ancora e sempre tasse per risollevarci. Nessuno pensa che i conti in rosso dello Stato si salvino semplicemente con il modello 740.

Nessuno considera realistico, e non solo perché il drammatico esempio della Grecia è sin troppo vicino, che spremere il contribuente oltre ogni limite sia l’unico rimedio o il rimedio più rapido per guarire. Persino quelli che non hanno condiviso del tutto l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa hanno subito aggiunto che loro avrebbero tagliato le imposte sul lavoro. Tagliato le imposte, signor Rehn, sempre e comunque.

L’autunno caldo delle tasse che arrivano anche quando non arrivano e quando nessuno vuole farle arrivare, è già cominciato. L’Europa si preoccupi di altro, perché di questo sappiamo occuparci da soli noi italiani. Anche scegliendo la coda giusta alla stazione di benzina.

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