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Perché dobbiamo scongiurare il Far West all’Italiana

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Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Dio ci scampi dal rischio del Far West in Val Padana. L’Italia non è l’America, dove i cittadini si armano con la stessa naturalezza con cui noi, al mattino, beviamo il caffè. Il diritto a sparare è cosa diversa dal diritto a difendersi. E se, in determinati e terribili casi, una persona è costretta a reagire a colpi di pistola mentre viene aggredita in casa in piena notte da banditi pronti a ucciderla, esiste la legittima difesa. Un reato che, molto in teoria per la verità, dovrebbe confortare l’innocenza di una vittima che ha purtroppo ammazzato, ma solo per non essere ammazzata.

Perciò sarà la magistratura a stabilire se a Casaletto Lodigiano, in provincia di Lodi, il cacciatore di 67 anni che ha imbracciato il fucile e l’ha usato contro il ladro che alle 3.40 ha svegliato familiari e vicini di casa perché, assieme ad altri, stava per svaligiare il suo bar-tabaccheria, ha fatto la cosa giusta, colpendolo con una pallottola alle spalle dopo – pare – una colluttazione. Oppure se l’umana, ma violenta reazione del ristoratore Mario Cattaneo a difesa dell’attività del lavoro e della vita sia stata proporzionata alla gravità di quel che accadeva.

Che fossero delinquenti, e non “malviventi” come si dice con imperdonabile buonismo, è accertato: chi rapina si mette dalla parte del torto. Sempre. Ma non tocca al cittadino, anche al più comprensibilmente esasperato, farsi giustizia da sé. O credere di averla fatta, perché anche i commercianti che uccidono per difendersi e la gente che spara se assalita dentro casa, poi vivono col rimorso atroce dell’uomo comunque ammazzato. Ed è ovvio: le persone perbene inorridiscono all’idea del sanguinario occhio per occhio. Vorrebbero solo essere protette dallo Stato. Vorrebbero andare a dormire senza l’incubo di svegliarsi con la pistola puntata in faccia.

Per impedire che diventiamo quel che per fortuna non siamo, cioè un popolo di vendicatori, due sono le cose: chiamare sempre i carabinieri, se possibile, in caso di pericolo. Ma soprattutto non farci trovare nella condizione di doverli chiamare. L’impunità con cui i criminali entrano in casa o saccheggiano i negozi, consapevoli di poter fare quello che vogliono, è intollerabile. Questo spiega l’inspiegabile, ossia la corale solidarietà del paese al cacciatore che pure ha ucciso. Per non arrivare al Far West delle persone oneste, bisogna sradicare il Far West dei delinquenti. Con leggi severe per loro, con vera sicurezza per noi.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



I tristi palleggi sul cavalcavia

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Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Mi è crollato il mondo, pardon, il ponte addosso. Se la notizia non fosse drammatica per la povera coppia di marito e moglie uccisi e i tre operai feriti, il disastro avvenuto in piena autostrada nelle Marche dovrebbe ormai cambiare il nostro modo di dire. Perché non da ieri, quando l’improvviso e imprevisto crollo del cavalcavia all’altezza di Camerano (Ancona) ha travolto l’automobile della coppia che da lì transitava, schiacciandola, e ferito tre lavoratori romeni del cantiere all’opera, può accadere di morire sull’asfalto. Di morire, però, non per colpa di un incidente stradale.

Ad Emidio Diomede e Antonella Viviani, i sessantenni sepolti dentro la loro macchina per il cedimento della struttura che ha tagliato l’autostrada in due, è successo qualcosa di analogo al crollo di un altro ponte sotto il peso di un Tir, lo scorso ottobre, sulla Milano-Lecco. Anche allora provocando la morte dell’ignaro conducente dell’auto di passaggio, Claudio Bertini, e il ferimento di quattro persone. E anche allora risuonarono le polemiche di oggi: com’è possibile? Come può accadere di morire in autostrada perché un ponte ti crolla addosso?

Oggi come allora si rifanno le solite trite e tristi domande: possono lavori di semplice manutenzione trasformarsi in agguato mortale? Oppure il cedimento della struttura provvisoria è stato un “tragico incidente non prevedibile”, secondo le prime ricostruzioni dell’Anas?

E poi: controlli migliori l’avrebbero evitato? E perché non si è chiuso il tratto autostradale che scorreva in basso rispetto alla manutenzione che si faceva in alto? Interrogativi uno dopo l’altro, fino ad arrivare alla madre di tutte le assurdità: a chi mai dovrà rivolgersi la magistratura per avere spiegazioni certe, all’Anas o alla Provincia, agli ingegneri che progettano o alle istituzioni che amministrano, allo Stato che non vede e non prevede o agli enti sul territorio che non valutano e sottovalutano?

È il solito, insopportabile rebus delle responsabilità di tutti e di nessuno, frutto di un meccanismo pubblico-istituzionale dove neppure ben si sa se le Province siano state nel frattempo abolite oppure se esistano e resistano assieme a noi.

Ma già si sa che alla fine non paga nessuno. O meglio, a volte finisce per pagare solo l’operaio di turno, che magari faceva gli straordinari pur di non prolungare il fastidio (“lavori in corso”) agli automobilisti. Il ponte ti crolla addosso e si fatica, perfino, a scoprire il perché.

(Articolo tratto da www.federicoguiglia.com)


Perché Mark Rutte ha vinto in Olanda

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MARK RUTTE PAESI BASSI olanda

Contrordine, populisti: l’Europa ancora c’è. E forse ricomincia dal profondo Nord, dopo che Mark Rutte, premier liberale, ha vinto le elezioni politiche in Olanda. Ma ha soprattutto frenato l’ascesa, che pareva inarrestabile, di Geert Wilders, leader del radicalismo contro un’Unione lontana dai cittadini e contro un Islam che li spaventa. E’ un risultato da prima Repubblica: ben tredici partiti entreranno nel nuovo Parlamento. E Wilders, detto il Trump dei Paesi Bassi anche per la sua chioma appariscente, è comunque arrivato -ma a distanza-, secondo. Tuttavia, il senso della vittoria europeista sta proprio qui, perché il premier premiato, certo, per l’economia, ha mostrato fermezza nei confronti della Turchia, impedendo ai suoi ministri di fare campagna elettorale a Rotterdam e dintorni (guadagnandosi subito del “nazista” dall’inviperito presidente turco Erdogan).

Nella sostanza, l’inflessibile e molto simbolica posizione di Rutte, che non voleva rischiare i prevedibili disordini in casa, agli occhi dell’elettorato ha avuto la meglio sugli insulti duri e puri che Wilders è solito riservare ad alcune comunità straniere nel Paese.

E’, questa, una ricetta interessante per prosciugare l’estremismo senza diventare estremisti. A differenza degli impauriti governi d’Europa, il liberale Rutte non ha fatto finta che il problema sollevato da Wilders in Olanda – o da  in Francia – non esistesse, cioè la difficile convivenza con chi, non europeo, tende a rifiutare l’integrazione nel continente. Ma tale problema ha affrontato con la forza credibile dell’istituzione, non cavalcando paura e pregiudizio.

Alla vigilia dell’incontro dell’Unione a Roma, il 25 marzo, per festeggiare i sessant’anni, la scelta dell’olandese Mark può diventare un modello. Specie in vista del voto del 23 aprile in Francia, dove l’ipoteca-Le Pen con la sua popolarissima avversione agli eurocrati e all’immigrazione senza controllo avrà effetti ben oltre Parigi.

L’Olanda insegna che è il realismo l’antidoto del populismo: cercare di capire, e non di liquidare, le preoccupazioni di chi si sente indifeso e abbandonato, e perciò si rivolge a chi “interpreta” il malessere, promettendo muri e chiusure. Il liberale Rutte ha chiuso l’aeroporto in faccia a ministri-provocatori. Ma ha tenuto aperto ogni dialogo con la sua gente, olandese e straniera.

Dalla patria dei tulipani forse un fiore nuovo profuma per l’Europa.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Papa Francesco, l’Egitto e le sfide del nostro futuro

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Papa Francesco sfide

Volti e risvolti. Negli stessi giorni in cui la Francia andrà alle urne, a fine aprile, per tastare il peso di Marine Le Pen e della sua politica contro l’Europa accusata di non chiudere le porte all’immigrazione e di sottomettersi all’Islam, il Papa volerà in Egitto quasi per le ragioni opposte: tendere la mano ai rifugiati che dal Nord Africa si riversano sul Vecchio Continente e dialogare con quella parte del mondo musulmano che condanna la violenza. Una violenza jihadista che proprio in quel Paese ha preso i cristiani a bersaglio, ferocemente, ma che è tornata a colpire anche Parigi. Dove un francese di origine tunisina e religione islamica, Ziyed Ben Belgacem, con precedenti penali, è stato ucciso dalla polizia dopo aver seminato il panico all’aeroporto di Orly. Secondo le indagini, questo trentanovenne, che aveva rubato l’arma a una soldatessa, voleva morire in nome di Allah.

Non è facile, dunque, per Papa Francesco andare controcorrente rispetto al contesto di perdurante e giustificata paura che angoscia i popoli europei. E che, molto probabilmente, indurrà i loro governi a prendere decisioni più dure contro gli sbarchi e più drastiche contro il terrorismo nell’ormai imminente vertice di Roma per i sessant’anni dell’Unione. Non è facile, ma è una benedizione che lo faccia.

Intanto, perché il Papa, pur vivendo l’attualità in modo perfino fisico con gli abbracci, i moniti e un esempio di vita ad essi coerenti, non segue, per sua e nostra fortuna, l’agenda della politica. Il vescovo di Roma è chiamato alla fede e allo sguardo lungo sul mondo. Pertanto a comprendere che la convivenza dei non musulmani con l’Islam non è giusta o sbagliata: è imprescindibile. Se la politica ha il dovere di garantire sicurezza ai suoi cittadini, la religione cattolica, che è la più martoriata, ha il diritto di chiedere ai musulmani di farsi carico anch’essi del dolore cristiano. Ponti, anziché muri, significa attraversare il deserto di idee e di iniziative per condividere insieme la responsabilità di urlare che nessuno può uccidere in nome di Dio. Francesco sta seminando per il dopodomani, a costo dei non pochi problemi di ordine pubblico, e di polemiche politiche in loco, che la sua visita al Cairo provocherà. Ma la sfida non è solo disarmare chi attenta all’Occidente e ai suoi valori. La sfida è anche costruire l’universo che verrà, e che non potrà vivere di paura e pregiudizio per sempre. Nella difficile missione d’Egitto c’è un po’ del nostro futuro.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa insegna la strage Isis a Londra

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Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

L’unica arma che aveva era un coltello. L’unico mezzo che ha usato per farsi scudo tra la gente e i poliziotti è stata un’auto nera occupata da lui soltanto, il conducente e assassino. E poi l’assalitore non transitava lungo una strada periferica e incustodita, ma nel centro di Londra che più centro non si può: sotto il Big Ben e per colpire il simbolo politico più importante che l’Occidente conosca, il palazzo di Westminster, dove ha sede il Parlamento della democrazia più antica del continente.

Eppure, quest’uomo solo è riuscito a investire una dozzina di passanti e a ucciderne tre prima d’essere ucciso. Ha trasformato l’atto di terrorismo in una diretta in mondovisione. Ha fatto tremare i governi, inducendo le autorità a “mettere in salvo” la premier May.

Si fa presto, allora, a dire “sicurezza”, quando basta così poco per destabilizzare così tanto. Quando è sufficiente la cronaca nerissima oltre Manica per ricordare, uno dopo l’altro, gli attacchi di matrice islamica che insanguinarono la Francia, il Belgio, la Germania e la stessa Inghilterra. E sabato prossimo noi ospiteremo a Roma la riunione dei ventisette Paesi dell’Unione – esclusa proprio la Gran Bretagna, appena uscita e ferita -, per celebrare i sessant’anni. In un clima che si può immaginare, e non solo per la temuta infiltrazione dei black bloc nell’annunciata manifestazione contro il vertice. Ora l’attentato di Londra fa scattare un allarme rosso di ben altra natura.

L’attacco al Parlamento inglese testimonia che è impossibile garantire la sicurezza, ma che è un dovere provarci. E se i nostri investigatori e 007 hanno finora dimostrato una capacità preventiva e operativa encomiabile, l’ordinamento lascia zone d’ombra inaccettabili nell’epoca, purtroppo ancora lunga e dolorosa, del terrore.

L’ultima assurdità l’ha scoperta la Procura di Catania (con pronunce che confermano): per gli scafisti, artefici del più odioso delitto, che è il traffico di esseri umani, potrebbe valere lo “stato di necessità”. Perché anche loro, giovani, sarebbero “vittime” di organizzazioni criminali.

Attenzione: di tutto abbiamo bisogno, fuorché di difendere la nostra libertà con norme evidentemente scritte coi piedi. Il governo intervenga subito, anche con un decreto-legge, per togliere ogni buco e ogni alibi alla rete della sicurezza nazionale. Dev’essere impenetrabile e immune ai soliti cavilli dell’impunità e dell’indecenza.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché Papa Francesco spopola

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PAPA FRANCESCO JORGE MARIO BERGOGLIO

Da una parte la realtà della vita vissuta e le piazze piene, dall’altra la vuota retorica di una politica sempre più lontana dalla gente. Nel giorno in cui Roma doveva essere incoronata capitale d’Europa, Milano diventa il capoluogo dell’universo: un milione di persone vanno a messa da Papa Francesco al Parco di Monza e altre ottantamila lo acclamano allo stadio di San Siro. Neanche Milan-Inter richiama, oggi, così tanto. “Non abbiate paura di abbracciare i confini”, esorta lui in una visita che non è azzardato definire storica. E sembra rivolgersi, più che ai presenti che lo seguono con speranza, ai distanti ventisette capi di Stato e di governo che proprio nella Città Eterna, e nelle stesse ore, si ritrovano per festeggiare i loro primi sessant’anni.

Il compleanno di un’Europa che non riesce a “mobilitare” nemmeno chi voleva contestarla: firme, sorrisi e gaffe di circostanza nelle cerimonie istituzionali, mentre sfilano opposti cortei, pro e contro l’Europa. Ma, se paragonati alle folle milanesi, sono marciatori per pochi intimi. Come se l’importante sogno europeo, che ha garantito sessant’anni di pace, di libertà ai cittadini e alle economie oltre ogni frontiera e uno spirito nuovo mai profuso in secoli di conflitti, fosse in parte scontato e in parte svanito. Vedi l’addio della Gran Bretagna. Quest’Unione non attira, nonostante sia l’unico nostro destino. Non convince, anche se è più frequentata dai nostri figli di quanto conosciuta dai nostri padri. Non risolve i problemi dei popoli, che invocano lavoro, temono le migrazioni incontrollate, esigono sicurezza di fronte al vagante terrorismo di matrice islamica.

Paradossalmente, è il Papa ad aver dato risposte, incontrando una famiglia musulmana nei quartieri popolari, mangiando con i carcerati di San Vittore, sollecitando i genitori a dedicarsi ai figli. “Abbracciare i confini” significa mettersi tutti in gioco da protagonisti ed è desolante il confronto con i ventisette a Roma che, a forza di annacquarlo, hanno sottoscritto un documento di banali e buoni propositi, ma privo di quella “capacità di crederci” che fu la virtù dei sei Paesi pionieri (tra cui l’Italia), e che viene invece riconosciuta all’uomo venuto “quasi dalla fine del mondo”: credere nelle cose che si dicono, e farle.

Ecco perché l’Unione, pur essendo la nostra Casa, ci lascia purtroppo indifferenti. E il Papa, che si comporta come predica, l’ascoltiamo qualunque cosa dica.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa devono insegnare gli arresti di jihadisti a Venezia

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Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Il ponte di Westminster è in provincia di Venezia. Dopo l’ultimo e recente (22 marzo) attentato davanti al Parlamento di Londra, il terrorismo di matrice islamica si preparava al grande gesto di violenza anche in Italia. A due passi da casa, addirittura, nell’universale Venezia, “perché mettendo una bomba al Rialto guadagni subito il paradiso”, secondo quanto si dicevano al telefono, fortunatamente intercettato, i tre kosovari ieri arrestati.

Immaginavano, costoro, tutti trentenni più un quarto minore fermato, di fare centinaia di morti. Gente esaltata che i nostri investigatori seguivano da tempo, e forse sarà pure arrivato il momento di elogiare le forze di polizia e i servizi di sicurezza del nostro Paese per lo straordinario lavoro che stanno compiendo in silenzio e senza pavoneggiarsi.

Gente che sembrava pronta a tutto, dunque, i sospettati ora catturati, ma uomini della porta accanto. Tranquilli camerieri in un paio di bar di San Marco. Sapevano essere bravi e cortesi coi turisti di giorno, questi quattro residenti nel pieno centro storico del capoluogo e da due anni in Italia. Eppure, “pronti a giurare e a morire per Allah”, come si dicevano la notte fuori dall’orario di lavoro. Bene integrati, perciò, senza dare segni di radicalismo neanche nei loro profili (monitorati) in internet. Ma uno di loro desideroso di combattere in Siria: e l’aveva proprio fatto.

Una scelta, al ritorno in Italia, che ha messo gli inquirenti sul chi va là, inducendoli a non perdere d’occhio la cellula di fanatici. E a intervenire con l’obiettivo di scongiurare il peggio.

Questa vicenda, sulla quale adesso spetterà alla magistratura accertare sia il livello, sia l’imminenza del pericolo, conferma che l’Italia non è una “penisola felice” rispetto a Francia, Germania, Belgio o Gran Bretagna. Nazioni che già hanno vissuto il lacrime e sangue del terrorismo sotto mentite spoglie.

Adesso scopriamo il jihadista che non t’aspetti anche da noi, alle prese con tramezzini e tazzine di caffè da servire con premura agli invece odiati occidentali. Ma scopriamo anche che il modo per evitare tragedie è uno solo: prevenirle.

Un compito che non può riguardare l’impegno solitario dei carabinieri, Digos e quanti pure stavolta hanno agito come dovevano. Sono i cittadini, innanzitutto, a dover guardare con serena attenzione quel che accade nel loro territorio, consapevoli di un rischio col quale, come europei, saremo purtroppo destinati a convivere a lungo.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco come prosegue la guerra sotterranea fra Trump e Obama

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Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

C’è una frase importante, attribuita a più persone fra cui l’americano Martin Luther King, secondo cui “la mia libertà finisce dove comincia la tua”. Pensiero bello, ma impossibile nel mondo interconnesso della Rete, rotondo come il globo eppure infinito, dove l’unica certezza è che il mio messaggio potrà arrivare ovunque. Ma chissà come, quando e per diventare che cosa.

Per questo l’Europa e l’Italia tendono a far valere alcune regole elementari battezzate, all’inglese, “privacy”: come garantire che la nostra fragile riservatezza quando entriamo nel mondo virtuale di internet, sia tutelata almeno a fronte dei colossi dell’economia.

Se Golia vuole avere i dati personali di Davide per imbastire offerte pubblicitarie, campagne finanziarie e altro, deve chiedere il permesso all’interessato. E il piccolo Davide ha il diritto di dire “no, grazie” al gigante pigliatutto che vuole, peraltro lecitamente, guadagnarci. Clienti sì, certo, ma sempre e solo consapevoli. Ecco perché i dati anagrafici, le preferenze, i gusti e i passatempi di ciascuno e di tutti sono a sovranità limitata. Chi vuole avere la tua storia per farsi gli affari suoi, deve bussare alla porta e domandarti: “Posso o non posso”? Questo è l’orientamento europeo.

Così sarebbe stato presto anche in America, patria del web, perché il presidente di ieri, Barack Obama, aveva voluto una norma per costringere i fornitori di connessione a banda larga a chiedere il consenso degli utenti per monitorare le navigazioni.

Ma così non sarà, perché nella furia di cancellare persino il ricordo di chi l’ha preceduto, il presidente di oggi, Donald Trump, e i parlamentari repubblicani, ossia la maggioranza, hanno abolito la norma dei democratici che avrebbe salvaguardato la privatezza nella Rete. Dunque, le aziende potranno continuare a loro piacimento a prendere e vendere i dati dei clienti senza avvertire nessuno. La libertà della grande impresa “non finisce” dove comincia quella dell’utente: è una libertà illimitata.

E che a farsene paladino sia proprio Trump, che sogna d’ingrandire il muro col Messico, dà solo l’idea della confusione alla Casa Bianca: liberismo assoluto per i “provider” -i fornitori di servizi internet-, ma guardia inflessibile alla frontiera e controllo maniacale agli aeroporti.

Come se la nostra intima dimensione, il “chi siamo”, non meritasse un briciolo della sicurezza invece reclamata a gran voce, spesso con ossessione strumentale, in ogni altro campo della vita e della politica.

www.federicoguiglia.com

 



Brescia, Yaisy Andrés Bonilla e la normalità del male

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siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

La normalità del male si può scatenare anche davanti a una discoteca. Ci vuole poco, magari uno sguardo insistente a una ragazza, uno spintone persino involontario, un malinteso tra giovani che neppure si conoscono. Non importa il come o il perché: prevale sempre e solo la rabbia, fuori subito il coltello per la resa dei conti.

Come se fosse naturale non solo reagire con la violenza al torto -il più delle volte- di un semplice fraintendimento, ma anche girare con una lama di svariati centimetri in tasca, in macchina o dove sia stata maledettamente portata.

Un tempo all’alba svanivano soltanto i sogni. Oggi, e da molto tempo, può svanire anche la vita di un ventenne per mano di un suo coetaneo. Brescia non è l’eccezione di un malessere che ormai serpeggia ovunque, e proprio nel luogo della festa per antonomasia, dove si balla, si ride e ci si diverte in compagnia. Ma il c’eravamo tanto amati sta diventando sempre più un orribile c’eravamo tanto armati. Armati di rancore, prima ancora che di coltelli, armati di un desiderio insano, ed evidentemente represso e non compreso, di fargliela pagare al mondo.

E allora una scintilla, una scintilla soltanto, e due vite sono rovinate assieme a quelle dei loro poveri familiari, increduli che per così poco si possa sbagliare così tanto. Uccidere alle 6 del mattino a pochi metri dal “Disco Volante”, ma a terra restano solo vittime. Prima di tutto quella, innocente, di Yaisy Andrés Bonilla, un ragazzo colombiano che sperava d’aver trovato l’America in Italia. Chissà quale difficile esistenza nella terra d’origine per poi accarezzare un po’ di felicità a Brescia. Trovando anche una fidanzata a cui voleva bene e che gli voleva bene. Una delle tante vite di speranza e di riscatto che noi poco conosciamo, ma che esistono davvero, e che possono finire nel modo in cui non devono finire: con il ventre squarciato e i medici che cercano, per ore, di salvare quel sogno infranto.

E poi c’è il presunto aggressore, anche lui un ventitreenne, italiano, che avrebbe confessato ed è stato fermato dalla squadra mobile. Ora toccherà all’inchiesta accertare la versione di Anthony Aiello, che sembra abbia ammesso d’aver sferrato la coltellata per una presunta lite frutto di uno sguardo o apprezzamento rivolti alla sua ragazza.

La banalità del male. Dobbiamo invece far riscoprire ai giovani più fragili che la vita degli altri e la propria sono la normalità più straordinaria che abbiamo: la meravigliosa banalità del bene.

(Articolo pubblicato su Bresciaoggi e e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Siria, “Mai più”?

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siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Impossibile trovare parole più chiare e disarmanti di quelle dell’Unicef: “L’umanità è morta oggi”. L’orrore delle armi chimiche che hanno ieri colpito bambini negli ospedali, la strage di sessanta morti in seguito al bombardamento di Assad contro i suoi nemici in Siria non è soltanto l’ennesimo capitolo di sangue in una guerra ignorata, nonostante duri da sei anni, abbia già causato cinquecentomila morti e sconvolto tutti gli equilibri in Medio Oriente. È una svolta nella mostruosità, al punto tale che il regime accusato, e non da oggi, d’aver fatto uso di gas tossici, nega qualsiasi responsabilità sull’accaduto, attribuendo non si capisce bene a quale propaganda il racconto irriferibile. Come si fa, in effetti, a far vedere le immagini agghiaccianti che pur circolano, le incredule testimonianze dei volontari, la pura e semplice (semplice?) cronaca della realtà dei fatti, che purtroppo vale più di mille indignati commenti?

Questo mondo impazzito ha imparato a digerire tutto. Ogni infamia del Novecento ha il suo drammatico nome di riconoscimento: il gulag e il Lager, le foibe e i desaparecidos, il Ruanda e Srebrenica. In ogni tempo e luogo del pianeta, partendo dalla drammatica unicità dell’Olocausto avvenuto nel cuore dell’Europa, sempre abbiamo ripetuto a noi stessi e al mondo: “Mai più”. Mai più accadrà di consentire a chiunque, in nome di qualsivoglia aberrazione, di annichilire popoli e persone, di uccidere nell’impunità e nell’indifferenza del resto dell’universo.

Nell’era di internet, dove tutto si sa di tutti, e subito, pare un’assurdità: come si può pensare che, assistendo a una strage e vaccinati contro i crimini del passato, i governi non vedano, non sentano, ma parlino soltanto? La Siria è la prova vivente, anzi, morente, dell’illusione in cui ci siamo a lungo cullati. “Mai più”, a fronte di bambini ammazzati col gas? “Mai più” davanti a filmati che ci urlano “aiuto”?

Non esiste ragion politica al mondo che possa tollerare l’assassinio di bambini. Siamo al di là di ogni convenzione internazionale e di ogni convinzione personale su torti e ragioni nel conflitto in Siria. Ma la tragedia nella tragedia è non individuare, ancora!, chi possa credibilmente e fermamente intervenire per porre fine al massacro.

È una vergogna senza fine, di cui un giorno qualcuno ce ne chiederà il conto. E noi non potremo dire, per giustificare la viltà, che non sapevamo ciò che avveniva sotto i nostri occhi.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa insegnano i casi Consip e Cassimatis

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consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Prima o poi faremo bene ad aggiornare la scritta che campeggia nelle aule giudiziarie della Repubblica e che, più realisticamente, potrebbe presto diventare “la giustizia è lenta per tutti”. O meglio, lenta per quasi tutti, perché quando c’è di mezzo la politica, la magistratura ha come un sussulto dal letargo amministrativo che sull’affannoso tema ci relega a Paese-tartaruga d’Europa (solo Cipro fa peggio di noi). E, spesso, decide in un baleno. Così è appena successo a Genova, dove il tribunale ha annullato la delibera con cui Marika Cassimatis era stata esclusa dai Cinque Stelle come aspirante alla poltrona di sindaco, secondo l’esito delle cosiddette comunarie che Beppe Grillo aveva invece cancellato. “Ma non sarà lei la nostra candidata a Genova”, torna a dire il capo del movimento in questo ping-pong tra politica e giustizia. Con il paradosso, a prescindere dal merito del caso, che alla fine sono le toghe a indicare i nomi delle liste, prerogativa che pur spetterebbe ai partiti. Ma le forze politiche, si sa, sono litigiose e combinano pasticci. Chi si sente ingiustamente depennato avendo ricevuto l’investitura da cittadini, chiede l’intervento dell’arbitro. E il partito si trasforma in partita con cartellini rossi esibiti o invalidati.

Altra città e altra storia che testimoniano la commistione fra due poteri che dovrebbero essere indipendenti l’uno dall’altro, ma che fanno di tutto per insidiarsi. Nell’inchiesta Consip, che vede tirato in ballo Tiziano Renzi, padre dell’ex presidente del Consiglio, Matteo, un ufficiale dei carabinieri è indagato per aver falsificato dichiarazioni su Tiziano Renzi. Nel senso che non sarebbe stato l’imprenditore Romeo a parlare di un incontro con il padre di Matteo, ma l’ex parlamentare Bocchino. Il quale, inoltre, adesso aggiunge che, dicendo Renzi, si riferiva non al papà, ma al figlio.

Fra Roma e Genova ce n’è quanto basta per cogliere i rischi delle invasioni di campo. Spesso determinate dalla stessa e inconcludente politica, che non esercita il proprio ruolo, e perciò lascia alle toghe il compito, e talvolta l’obbligo, di supplire alle sue gravi inadempienze. Se siamo diventati un Paese Tar-dipendente, dove la magistratura è considerata una sorta di pronto soccorso quotidiano, è perché l’ordinamento, che è frutto esclusivo del potere legislativo, lascia varchi grandi come praterie. Leggi oscure, farraginose, sempre “interpretabili”: le acrobazie dei cavilli, ed ecco che arrivano i giudici.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratti dal sito www.federicoguiglia.com)


Tutte le nuove tensioni fra Stati Uniti e Corea del Nord

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consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Sulla sanguinosa partita a scacchi che si sta giocando in Siria a livello planetario ora incombe anche l’ultimatum di Donald Trump alla Corea del Nord: “Quelli cercano guai, siamo pronti ad agire anche senza la Cina”. E, a scanso di equivoci, una portaerei americana è già nell’area. “Scelta oltraggiosa, reagiremo”, replica lo stizzito ministro degli Esteri di quel regime che aveva paventato anche la minaccia atomica dopo l’attacco degli Stati Uniti ad Assad. Quest’ultimo era accusato d’aver usato financo il gas contro inermi bambini pur di colpire i suoi nemici nella guerra dei sei anni. L’intollerabile, e l’America di Trump ha voluto farlo sapere all’interessato e al mondo intero.

D’istinto verrebbe da domandarsi che cosa c’entri il ministro-ventriloquo di Kim Jong-un col Medioriente che brucia lontano per geopolitica. Invece basta ricordare i fatti per comprendere che l’avvertimento della Corea del Nord, pronta a proseguire il suo programma nucleare, per quanto sia un annuncio farlocco, ha una sua spiegazione plausibile. Trump ha deciso di dare la sua lezione ad Assad proprio nel momento in cui stava ricevendo il presidente cinese, Xi Jinping, in Florida. Al quale aveva chiesto anche di tenere a bada il focoso vicino. Perché se non ci pensa la Cina a frenare le intemperanze del Nordcoreano, sarà l’America a intervenire. E la portaerei appena arrivata a destinazione, oltre al fresco precedente della Siria, testimonia che le minacce di Trump, a differenze di quelle di Kim Jong-un, non sono solamente verbali. Con o senza la pressione di Pechino, dunque, non si può più escludere la possibilità, per ora solo proclamata, di un altro segnale “preventivo” degli Usa: far capire che non si scherza né con la vita dei bambini né con l’elucubrazione atomica di un regime che più regime non si può.

Ma il problema è che, così, il mondo sta diventando una polveriera a catena. E che il -per ora- molto eventuale ricorso nordcoreano al nucleare, ossia da parte di chi è fuori dal sistema dei rapporti internazionali, aprirebbe uno scenario senza ritorno.

Eppure, fra l’indecisionismo di Obama e l’interventismo di Trump mai come oggi sarebbe importante una terza via di questo simulacro che ci ostiniamo a chiamare Europa. Dovrebbe essere lei a indicare e a far prevalere un percorso di alleanze e di decisioni strategiche per evitare il rischio peggiore di tutti: che il fuoco alimenti solamente il fuoco.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratti dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa farà ora Silvio Berlusconi

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milan, centrodestra

Non s’arrabbino i tifosi rossoneri, ma l’Italia non è il Milan. Non s’arrabbino, però, neanche i tifosi di tutte le altre squadre se, ora che la bella favola del buon Diavolo finisce, ricordiamo che il Milan ha rispecchiato per molti anni, quelli del presidente Silvio Berlusconi, il meglio dell’Italia che vince, che intraprende, che non si arrende neanche al novantesimo. Quell’Italia di fine anni Ottanta in avanti, che sapeva includere gli stranieri -ogni riferimento agli olandesi Gullit, Rijkaard, Van Basten, Seedorf è voluto- e portarli al trionfo coi colori italiani. Una nazione che poco si lamentava e tanto faticava sul campo. Il campo di San Siro non meno di quello della vita.

L’addio di Berlusconi, che ha appena venduto per 740 milioni a una cordata cinese guidata da tale Yonghong Li la società calcistica nata nel 1899 per far sognare generazioni di bambini e adulti di tutto il mondo è, dunque, allo stesso tempo, la fine di un’epoca e di una parabola. L’epoca di una serie A in mano a presidenti di club italiani, mentre oggi, come avviene pure negli altri Paesi europei del nostro alto livello calcistico, le squadre del cuore sono spesso di proprietà non europea. A Milano sia l’Inter che il Milan ormai parlano cinese.

Ma il cedimento del patriarca non è solo calcio. Proprio l’uomo che sull’onda popolare del Milan più volte campione in casa e all’estero (ventinove trofei) s’era candidato, nel 1994, per “far vincere” l’Italia dagli spalti di Palazzo Chigi, ora si mette da parte. Passa di mano il suo giocattolo più bello e preferito: non è difficile cogliere un senso di ripiegamento che forse va ben al di là dello sport. Se da “Forza Milan” Berlusconi aveva poi battezzato “Forza Italia”, se dallo stadio si rivolse alla piazza e dai tifosi agli elettori, è evidente che, chiudendosi il primo cerchio della grande sfida, se ne comprime il secondo. Non già perché i consensi degli italiani non siano più quelli, notevoli, che fecero diventare per quattro volte presidente del Consiglio il presidente del Milan per trentun anni. E’ invece il gesto personale e “doloroso” -parole sue- che evoca, a prescindere dalle ragioni di chi l’ha appena compiuto, anche la fine di un ciclo politico.

Certo, il Cavaliere ripeterà che lui rimane “il leader del centro-destra”. Ma ritirandosi dalla cosa che gli ha spalancato le porte dell’impegno parlamentare e istituzionale, è difficile immaginare che fra la partita e il partito tutto si riduca solo a un gioco di pallone.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché risorge la paura di una guerra nucleare

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kimjong-un

Sembrava in disuso, ma da almeno una settimana c’è una parola che rivive di cupa luce propria: “Nucleare”. Si allude alla minaccia che la Corea del Nord continua a rivolgere nei confronti dell’America. Venti di guerra sull’onda del sanguinoso conflitto che scuote la Siria da sei anni. Ma, al di là dei proclami del regime di Pyongyang e delle sue marce militari a passo d’oca che odorano di preistoria, è la prima volta dopo gli anni della Guerra Fredda e la lunga era della dissuasione sul “primo colpo” tra potenze egualmente armate di bombe atomiche, che questo nuovo incubo s’aggira per il mondo. Pareva relegato alle tristi cerimonie con cui, ogni anno, le autorità di Hiroshima e Nagasaki suonano campane di pace e invitano chi li aveva bombardati per invocare il “mai più” di un attacco nucleare da parte di chiunque.

Fu l’ultimo, drammatico atto della seconda guerra mondiale, quando ordigni battezzati addirittura con nomi affettuosi furono sganciati dagli Usa sul resistente Giappone il 6 agosto 1945 sulla prima città e tre giorni dopo sulla seconda, devastandole. “Non so con quali armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta sì: con bastoni e pietre”, era la celebre riflessione del grande fisico Einstein, frutto dell’orribile lezione della storia e del rischio che i contemporanei la dimenticassero.

Intere generazioni sono perciò cresciute sull’idea che le guerre non risolvano, ma aggravino i conflitti, come Papa Francesco ha ricordato anche in una Pasqua di preoccupazioni. Ma tutti soprattutto sappiamo che un attacco nucleare va considerato alla stregua di un tabù: guai a chi osasse infrangerlo, ripresentandoci la follia atomica.
Per abitudine consolidata, dunque, avevamo relegato il tema alla storiografia e alla fantascienza del cinema: qualcosa su cui mai cessare di riflettere, certo, facendo purtroppo parte della storia dell’umanità. Ma un crimine non riproponibile, un’opzione senza vincitori né vinti, un’ipotesi aberrante senza ritorno.

Invece l’atomica non sembra più un reperto archeologico. Quell’equilibrio delle paure che ha indotto le principali potenze e non scherzare col fuoco del nucleare, è oggi in pericolo. Un pericolo per ora solo verbale. Ma anche le parole possono essere “pietre e bastoni”. Anche il lessico può assuefarci a un evento che fino a ieri sembrava impensabile: che qualcuno ricorre al nucleare per regolare i suoi macabri conti.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

 


Ecco la vera posta in gioco alle elezioni presidenziali in Francia

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presidenziali francia

Dopo aver subìto nove attentati (di cui i tre più spaventosi fra Parigi e Nizza) negli ultimi due anni, ed aver pianto ben duecentotrenta morti ammazzati innocenti, è difficile immaginare che il terrorismo di matrice islamica non influirà sul voto dei francesi. Ma più dell’ultima rivendicazione fatta dall’Isis a proposito dell’attacco del trentanovenne francese radicalizzato, Karim Cheurfi, che giovedì scorso ha ucciso un poliziotto ferendone altri due prima di essere a sua volta ucciso sul celebre viale dei Campi Elisi, è la polemica politica tutta incentrata sul tema della sicurezza e dell’immigrazione a rivelare l’effetto della campagna del terrore sulla campagna elettorale.

Marine Le Pen ha chiesto la chiusura delle frontiere al presidente uscente Hollande, sospendendo ogni impegno elettorale. Anche altri due candidati all’Eliseo, Macron e Fillon, hanno rinunciato ai comizi, promettendo a loro volta il pugno di ferro nella corsa alla presidenza. La paura è sempre una cattiva consigliera. Ma i francesi sono sotto tiro da troppo tempo per farsi condizionare all’improvviso sulle loro scelte. Scelte che forse sono maturate nel lungo periodo sulla percezione, purtroppo avallata dai fatti, cioè dai crimini, d’essere diventati il principale bersaglio della violenza fondamentalista in Europa. L’ombra cupa del kalashnikov di Karim Cheurfi cala sulle urne. Ma l’agenda delle priorità in Francia era già cambiata da tempo.

Per i terroristi destabilizzare Parigi significa diffondere lo spettro dell’incertezza e dell’odio in tutta l’Unione europea, oltre che colpire una nazione in prima fila contro la barbarie anti-occidentale.
Sarebbe, perciò, riduttivo considerare ora il voto francese, qualunque ne sarà l’esito, soltanto una questione di populismo o di rivincita ideologica delle varie destre, estreme o non, su una sinistra a pezzi.

Il risultato finale, che secondo i sondaggi arriverà dopo il ballottaggio tra i due candidati più votati al primo turno di domani, invece ci dirà se saranno i nuovi muri o ancora i ponti il futuro dell’Europa. Ci dirà se la minaccia jihadista si affronterà con sempre maggiore prevenzione (punto debole della strategia investigativa non solo francese) e con l’implacabile rigore delle leggi. Ci dirà se al panico dilagante subentrerà presto la consapevolezza delle responsabilità.

Stavolta la posta in gioco non è solo l’Eliseo, ma come i francesi e gli europei vorranno costruire il loro destino di libertà.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Tutte le differenze fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen

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consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Non potevano essere più diverse e contrapposte fra loro le due France che vanno al ballottaggio. Da una parte quella inedita, globale ed europeista rappresentata dal trentanovenne Emmanuel Macron. Dall’altra quella “profonda”, nazionalista da sempre e anti-europea da ultimo incarnata dalla quarantottenne Marine Le Pen. Il voto di testa contro il voto di pancia, la proposta contro la protesta.

Il bel tecnocrate che sa di economia e ha fondato un suo partito appena l’anno scorso, e la presidente del Front National ed europarlamentare dal 2004 che solletica, da politica, il disagio dell’anti-politica. Radicalmente diversi persino sotto il profilo familiare. Di lui si sottolinea che ha sposato Brigitte, la sua ex professoressa di francese più grande di ventiquattro anni. Di lei che è figlia di Jean Marie, a sua volta finito al ballottaggio di quindici anni fa contro Chirac, e interprete di una destra estrema e senza alleati.

Le urne del primo turno delle presidenziali francesi ci consegnano, dunque, l’espressione di un un Paese spaccato in due. Ma non più, com’era tradizione in Francia, tra gollisti e socialisti, ossia fra destra e sinistra storiche. Stavolta la divisione si specchia in due personaggi agli antipodi e anomali rispetto ai due schieramenti di classico riferimento, un uomo e una donna che al primo turno sono riusciti a raccogliere consensi ben oltre il loro elettorato potenziale. Ma al ballottaggio del 7 maggio, secondo tutte le previsioni, dovrebbe nettamente prevalere Macron, il giovane fuori dagli schemi della partitocrazia che pure piace al Palazzo. Non solo per essere stato ministro dell’Economia nel 2014 nel primo governo-Valls (socialista) dopo essersi formato all’Ena, l’istituzione che forgia i funzionari della pubblica amministrazione.

Dunque, Macron favoritissimo per l’Eliseo. I candidati principali rimasti fuori dalla corsa, a cominciare dal gollista Fillon, già invitano a non votare per Marine Le Pen e per “l’intolleranza delle sue idee”.

A sua volta Marine è già partita attaccando Macron sulla sicurezza (“con lui frontiere aperte”) e sul liberismo senza regole. La patria contrapposta al mondo, la paura alla speranza, ecco gli ingredienti anche emotivi dello scontro tra populismo e pragmatismo che si prospetta carico di tensione. Ma un bel sospiro di sollievo può intanto tirarlo l’Europa: Macron ha la vittoria in tasca.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Il Papa d’Egitto

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Muhammad al-Tayyeb

Neanche i recenti attentati alle chiese, né le violenze ricorrenti contro la minoranza cristiana copta gli hanno fatto cambiare idea: da ieri Papa Francesco è “pellegrino di pace” per due giorni in Egitto. Senza auto blindata e senza pretese, se non quella di far sapere a tutti che un altro mondo è possibile. A costo di sembrare un sognatore della fede, nell’era in cui i muri hanno preso il sopravvento sui ponti. Al prezzo di apparire un profeta senza patria, nell’epoca delle nazioni che pensano a come difendere i propri confini dall’assalto di emigranti armati solo di fame e disperazione. Al rischio dell’impopolarità, perché l’universo sta andando dalla parte opposta. Va nella drammatica direzione in cui lo porta il terrorismo di matrice islamica, che semina odio e morte. Va verso il minaccioso braccio di ferro atomico fra l’americano Trump e il coreano Kim Jong-un. Naufraga, questo mondo, nella Siria che da sei anni bagna di sangue il Medioriente.

L’innegabile e tragica realtà potrebbe indurci a credere che il Papa rischi di essere percepito, specie nell’Egitto della contrapposizione, come l’uomo sbagliato nel momento sbagliato: parlare di pace, mentre il pianeta si nutre di violenza? Immaginare di poter dialogare con l’Islam, proprio negli anni della massima e universale diffidenza verso quella religione? Evocare l’accoglienza, quando la sicurezza vacilla nel Mediterraneo e i barconi della speranza per chi parte diventano barconi della paura per chi riceve?

Francesco va controcorrente rispetto a gran parte della politica e a un crescente comune sentire di cittadini che non si fidano più. Che non coltivano fiducia nel futuro e negli altri. Che sono scottati dall’insipienza e dall’insensibilità delle loro classi dirigenti nel risolvere i problemi: e perciò protestano ovunque, anche col voto.

Ma proprio in questo deserto di paura e pregiudizio è importante che qualcuno accenda un faro e incarni un esempio: viaggiare a testa alta e senza protezioni. Sfidare i violenti invocando la bellezza dell’incontro. Ricordare che siamo tutti figli di incroci, che il Sud del mondo è un punto di vista: sempre qualcuno avrà bisogno, sempre saremo chiamati ad aiutarlo. Col suo viaggio in tutti i sensi temerario, il Papa d’Egitto indica l’unica strada possibile per l’umanità, non appena essa sarà tornata libera, nella testa e nel cuore, di percorrerla con serenità.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


L’Italia sfiduciata fotografata dal Censis

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consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

E’ l’altra faccia dell’insicurezza, quella che non trova megafoni in Parlamento, meno che mai un’eco alle mitiche primarie dei partiti: le priorità della politica, si sa, sono altre. Invece il Censis ha appena fotografato il disagio concreto di un’Italia sfiduciata, che teme di perdere il proprio benessere o di non poterlo raggiungere. Sette italiani su dieci, dice il rapporto rivelatore, hanno paura di scivolare nella scala sociale. “Il capitombolo”, come viene battezzato, ossia il rischio percepito di cadere in basso, tanto si considera incerto il presente. L’84,7 per cento degli interpellati, addirittura, ritiene difficile pure il contrario, cioè salirla, la scala sociale. Fermi tutti, dunque, e mobilità bloccata. Regna l’insicurezza sia nella prospettiva positiva di poter migliorare la propria condizione, sia nel timore negativo di poterla peggiorare.

A conferma del pessimismo nazionale c’è un dato che potrebbe far sorridere -se non fosse invece indice di vero malessere-, perché ci riporta agli anni dei soldi sotto il materasso: l’accumulo della ricchezza in contanti negli ultimi dieci anni è aumentato di 133 miliardi di euro, che corrisponde al triplo del pil (prodotto interno lordo) di un intero Paese come la Croazia. Tanto è seria e grave l’insicurezza percepita che, nel dubbio, non investiamo, non consumiamo, non risparmiamo nelle forme classiche, bensì teniamo il denaro alla nostra immediata portata, perché non si sa mai.

Eppure, la storia dell’Italia è stata di ascesa sociale. Per decenni ogni generazione viveva con la certezza di poter fare meglio dei padri e molto meglio dei nonni. Era l’ambizione di una nazione intraprendente, accompagnata da una classe dirigente che capiva l’importanza del “sogno italiano” (chiamato “miracolo italiano” negli anni di maggior fervore). Anche la pubblica burocrazia mostrava senso dello Stato, anziché l’immobilismo inefficiente e la pigrizia amministrativa che tanto contribuiscono, oggi, alla rabbiosa frustrazione dei cittadini.

Il mix fra istituzioni non all’altezza della società e una crisi troppo a lungo e nel profondo vissuta porta alla fragilità sociale, ai soldi nel comodino di casa, alla sensazione che il nostro futuro sarà peggiore, e non migliore, rispetto a quello dei padri e perfino dei nonni.

Contro la paura c’è un antidoto: la fiducia. La politica deve indicare la strada per far tornare a correre gli italiani e le loro speranze.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco la vera posta in gioco fra Macron e Le Pen alle presidenziali in Francia

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Marine Le Pen programma economico

Il conto alla rovescia è cominciato all’insegna dell’insulto. Anche l’unico faccia a faccia televisivo tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen ha confermato che al ballottaggio presidenziale vanno due France inconciliabili tra loro. Persino sull’Europa, che il primo ama e la seconda detesta.

Chi ha avuto la pazienza di seguire il lungo botta e risposta avrà notato non soltanto il dialogo politico tra sordi, ma anche l’argomentare poco accattivante dei due candidati, che s’interrompevano di continuo. I sondaggi del giorno dopo confermano il consolidato vantaggio di Macron del giorno prima: secondo il 63 per cento dei telespettatori avrebbe vinto lui.

Persino Jean Marie, il padre di Marine, ha dichiarato che la figlia non è stata all’altezza dell’opportunità, visto che a seguire l’evento erano sedici milioni di francesi. Ma attenzione a considerare la partita per l’Eliseo già chiusa, pur essendo molto ardua e poco il tempo a disposizione per l’eventuale rimonta di Marine. Almeno due precedenti, e rilevantissimi, dovrebbero indurre gli osservatori a ritenere che la grande sfida finirà solo quando davvero sarà finita, cioè nel segreto dell’urna. I sondaggi assicuravano che gli inglesi sarebbero rimasti in Europa. E invece fu subito Brexit. Sempre i sondaggi davano per fatta l’elezione di Hillary Clinton alla Casa Bianca. E invece fu Trump a sorpresa. Gli istituti di ricerca fanno fatica a cogliere la reale volontà di una parte di sostenitori delle posizioni percepite come le più distanti o radicali rispetto alla moderazione dei più o al politicamente corretto di moda. Dunque, la Brexit o Trump, ecco le scelte sottovalutate, eppur popolari. E poi l’interpretazione degli analisti e dei giornalisti spesso antepone l’ideologia propria alla verità dei fatti. Prudenza, perciò. Anche se il tema che più sta a cuore agli elettori, l’economia, ha visto Macron prevalere nettamente, mentre sul problema che più assilla la nazione vittima del terrorismo di matrice islamica, la sicurezza, Le Pen è stata durissima.

Intanto, la procura di Parigi ha aperto un’indagine per propagazione di false notizie, secondo l’esposto di Macron contro la sua nemica, che lo ha attaccato insinuando anche di conti all’estero. E l’ex presidente Obama ha inviato un video messaggio in appoggio al giovane candidato. Denunce, appelli e lanci di uova (a Marine in Bretagna): la tensione rivela l’importanza della posta e dei valori in gioco.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Perché con Macron la Francia farà asse con la Germania di Merkel

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europa, mercati, macron,

L’inno alla Gioia prima ancora della Marsigliese, l’evocazione dell’Europa all’insegna del grande compositore “tedesco” Beethoven nell’orgogliosa patria francese che invoca libertà, uguaglianza e fraternità da oltre due secoli. Se Parigi val bene una mossa, quella fatta a sorpresa dall’appena eletto e “audace” Emmanuel Macron davanti al Louvre per festeggiare anche con una scelta musicale insolita il suo arrivo all’Eliseo, e da nessun altro presidente europeo azzardata nel proprio Paese prima di lui, scuote l’intero continente. Coi suoi trentanove anni e la rivendicata estraneità ai partiti tradizionali, Macron è andato controvento, e i suoi cittadini l’hanno seguito. Soffiava forte il populismo della Brexit e di Trump incarnato da Marine Le Pen, rappresentativa della “collera francese”, come la chiamava lo stesso vincitore Macron. Nell’ora della verità due elettori su tre hanno fatto una scelta popolare sconfiggendo il populismo. Qualcosa di simile era successo anche in Olanda un paio di mesi fa, quando il premier liberale Mark Rutte fermò l’avanzata di Geert Wilders, leader del radicalismo ostile all’Unione europea.

È forse la rivincita di Bruxelles (e della sua nomenclatura) a tempo quasi scaduto? Certo che no. Francia e Olanda hanno solo dimostrato che un’altra Europa è possibile senza distruggerla, bensì rinnovandola in fretta e nel profondo. Ma il cambiamento dell’onda anti-populista ora interpretato da Macron passerà, paradossalmente, dal ritorno all’antico: l’intesa franco-tedesca, l’asse Merkel-Macron destinato a trovare un nuovo equilibrio di guida nell’Europa senza bussola.

È una prospettiva resa molto vicina dall’addio della Gran Bretagna -chiamata alle urne l’8 giugno dalla premier May, speranzosa di rafforzarsi-, e dal voto autunnale in Germania, che vedrà Frau Angela candidata alla cancelleria per la quarta volta.

In questa partita a scacchi, Roma non può stare a guardare, proprio nel momento in cui la sua voce -si pensi solo al dramma dell’immigrazione- più alta dovrebbe tuonare. Non mancano le buone ragioni né il peso politico, economico e culturale dell’Italia per far valere un ruolo che la geografia mediterranea, la storia europeista e la sua forza industriale da sole le riconoscono. La presidenza italiana del G7 a Taormina il prossimo 26 maggio sia l’inizio di una nuova consapevolezza e di una maggiore ambizione.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

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