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Perché l’italiano è il nostro futuro della memoria. La lezione di Francesco Sabatini

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PRESENTAZIONE DEL LIBRO PARLAR CHIARO

Dimmi che lingua parli e ti dirò chi sei? Impossibile. Già di Carlo V si diceva che parlasse in francese con gli uomini, in italiano con le donne, in spagnolo con Dio, in tedesco con i cavalli e in inglese con gli uccellini. Cinquecento anni dopo, l’Europa senza più sovrani “cinguetta” ancora con i tweet, e le lingue sono diventate un concerto della comunicazione fra i popoli. Il poliglotta parla di più e parla meglio. Ma il nuovo impero della globalizzazione ha imposto nuovi spartiti che stanno cambiando anche le parole e perciò i pensieri dei parlanti. E allora col suo “Lezioni di italiano, grammatica, storia, buon uso” (Mondadori), Francesco Sabatini (in foto) torna alle origini per guardare lontano: spiega perché l’italiano è il nostro futuro della memoria. Presidente onorario dell’Accademia della Crusca, Sabatini rappresenta quella sempre più consapevole generazione di studiosi che ha cambiato musica. Non è più il tempo di restare chiusi nelle torri d’avorio a contemplare la lingua di Dante, mentre essa viene sfregiata dalle “location”, “mission”, “welfare”, ”endorsment” e via mortificando. Né il linguista Sabatini si volta dall’altra parte, se in Alto Adige si tenta di sradicare la secolare toponomastica italiana dall’obbligo del bilinguismo. Ma questa svolta di professori che non hanno paura di dire pane al pane e italiano all’italiano con appelli alle istituzioni, riflessioni sui giornali e libri firmati, ora ha anche un punto di riferimento intenso e leggero, con dialoghi e prove di lingua rivolti ai lettori. L’autore parte mettendo in discussione la convinzione che la lingua serva soltanto per parlare. “Sì, io ho una patria: la lingua francese”, diceva non per caso Albert Camus, premio Nobel per la letteratura. Se lo scrittore Vergílio Ferreira notava che dalla sua lingua portoghese “si vedesse il mare”, dalla lingua italiana si può vedere il sole. Sabatini vede l’inizio stesso della vita, perché la lingua, che lui chiama “lingua prima” -e bene fa in un mondo sempre più plurilingue-, si acquisisce “mentre il poppante succhia e assapora il latte e ascolta e registra la parola latte (se intorno si parla italiano)”.

Dunque, siamo alle fondamenta: il suono, la trasmissione del linguaggio da madre e padre, il miscuglio perfetto tra cervello e sentimento. “La lingua è dentro di te, tu sei tra le sue braccia”, per citare Mario Luzi che l’autore pone come viatico del proprio lavoro. Ma il libro è un viaggio oltre la famiglia e la nazione. Per parlare di grammatica si scomoda perfino l’Homo sapiens “col suo ben formato linguaggio verbale”. Attenzione, perché siamo a duecentomila anni fa.

Per fortuna Sabatini ci riporta presto alle più vicine radici del greco e del latino, rispettivamente il pensiero analitico e critico e la civiltà sociale e giuridica di cui siamo figli dei figli, noi che abbiamo il privilegio di misurarci con la “meravigliosa potenza” della lingua italiana. Interessante e anticonformista, rispetto a certa retorica, l’incursione nei dialetti. “Si possono imparare dalla realtà, non s’insegnano” (a scuola), così liquida la pratica.

Ampie e documentate le considerazioni sull’anglismo, tema affrontato con lo sguardo di chi conosce come va il mondo. Da sempre le lingue si sono felicemente contaminate fra loro. Scrive il linguista: “Fiumi di parole germaniche entrano nel tardo latino e nei volgari che ne stavano derivando. Un mare di francesismi di livello colto diffuse l’Illuminismo. Un’ondata di ispanismi nel pieno Cinquecento e nel Seicento. E da parte italiana dall’Umanesimo in poi è venuto un forte apporto in tutte le lingue del continente nel campo delle arti, della musica e, non si direbbe, delle armi, e più di recente nella gastronomia”. Lingue vive, tutte, lingue che si arricchiscono l’una con l’altra. Ma l’anglismo che ferisce la millenaria lingua italiana non è bella mescolanza. “La quantità dei vocaboli, la velocità del processo e l’atteggiamento della massa dei parlanti”, spiega l’autore, ne fanno un caso speciale. Unico al mondo, aggiungiamo noi, perché in tutte le aree linguistiche dell’universo gli anglismi vengono resi con traduzione o adattamenti grafici e fonetici nella lingua del posto. “Ordenador” o “computadora”, mai “computer” nel pur variegato mondo di lingua spagnola. Sabatini, che pur considera lodevole “lo stile asciutto della prosa inglese”, se confrontato alla prolissità di certa italica burocrazia, contesta l’”assordante propaganda per l’apprendimento dell’inglese”. E pone quattro quesiti fulminanti al provincialismo del ceto dirigente che usa vocaboli in inglese per parlare in italiano: “Sei veramente padrone del significato di quel termine? Lo sai pronunciare correttamente? Lo sai anche scrivere correttamente? Sei sicuro che il tuo interlocutore lo comprende?”. A domanda lo stesso autore risponde: “Quando anche uno solo di questi requisiti non è rispettato, vuol dire che stai facendo una brutta figura. Oppure che usi quel termine per pigrizia. Oppure che disprezzi il tuo interlocutore”.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Ecco la lezione di Roma per Beppe Grillo e il Movimento 5 stelle

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ROMA

Sono due donne-simbolo della nuova e giovane politica, entrambe contestate per i gravi errori compiuti, ed entrambe si sono scusate coi loro elettori. L’una, Alessandra Moretti, s’è alla fine dimessa da capogruppo del Pd nella Regione Veneto, travolta dalle polemiche per il viaggio in India mentre risultava assente dai lavori in Consiglio per malattia. L’altra, il sindaco Virginia Raggi, deve risolvere “quer pasticciaccio brutto” del Campidoglio, che la vede sott’assedio a Roma come mai lo era stata in sei mesi di pur tempestoso mandato.

E i Cinque Stelle sono così al bivio. Possono decidere di “resistere, resistere, resistere”, sperando che passi la nottata. Un atteggiamento da vittime, tipico di quelli che ovunque vedono complotti orditi ai loro danni, che non rispondono alle domande dei giornalisti, e che magari in cuor loro pensano “chi se ne importa, tanto la rete vi seppellirà”.

Oppure il movimento di Grillo, che sull’onda della più bella promessa politica che sia stata fatta in questi anni -“l’onestà tornerà di moda”- avevano raccolto un largo e trasversale consenso degli italiani, può scegliere la strada opposta. E ammettere, come sanno fare le persone perbene allergiche alle ipocrisie, che sì, è vero, non tutta la classe dirigente è all’altezza del compito. Riconoscere che chiudersi nella torre d’avorio del “popolo web”, dio telematico che tutto vede e provvede, significa perdere di vista la realtà e nobiltà dell’impegno politico, che è fatto di sudore e di lacrime non solo fra la gente, ma anche tra forze politiche con regole trasparenti, dissensi, leader vincitori e sconfitti: è la democrazia, bellezza. Per governare il Paese o un paese, non basta la fedina penale immacolata, presupposto minimo di ogni civile convivenza. Occorrono anche competenze, preparazione, capacità nella scelta dei collaboratori. Il civismo al potere, che è la grande rivoluzione perseguita dai Cinque Stelle, non è sufficiente né per aggiustare le buche sulle strade, né per far sentire la voce dell’Italia in Europa. Nel mondo sempre più interconnesso ma pure affamato di conoscenza, che elegge la sua rappresentanza politica per avere risposte, il partito di Grillo deve scegliere come interrogarsi.

L’esperimento fallimentare nella Capitale rappresenta l’ultima chiamata per il futuro del movimento. Roma può diventare il grande avvenire dietro le spalle. Oppure l’opportunità per imparare la lezione con umiltà ed entrare nell’età matura della politica.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa celano le parole infelici di Giuliano Poletti

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Giuliano Poletti

Che la frase sia stata molto infelice, l’ha già capito lo stesso interessato che l’ha improvvidamente pronunciata e che s’è pubblicamente scusato. Ma la mozione di sfiducia che le opposizioni hanno ora presentato contro Giuliano Poletti, il ministro del Lavoro che a proposito dei centomila ragazzi italiani costretti a cercare all’estero ciò che non trovano in patria aveva detto di conoscere gente che è “bene che sia andata via”, e che l’Italia non soffrirà certo a “non averla più tra i piedi”, può diventare un’occasione importante per tutti: come affrontare con serietà in Parlamento un tema che non si può liquidare a suon di battute che non fanno ridere, né di scontri che nulla cambiano.

Dovrebbero, invece, governo e opposizioni domandarsi come impedire che la “meglio gioventù” sia indotta e emigrare per farsi valere. E come invogliarla a tornare a casa. Paradossalmente, bisognerebbe obbligarli tutti, ragazze e ragazzi, all’Erasmus, la vera “naja” per le generazioni del nostro tempo. E poi offrire a tutte queste “reclute” dello studio, della ricerca e del lavoro la libertà di rientrare, sapendo che qui potranno realizzare i loro sogni. Qui potranno mettere a frutto la straordinaria formazione italiana ricevuta in tanti anni di sacrifici. Accade, purtroppo, il contrario: i giovani se ne vanno volontariamente, e non perché “richiamati” dall’obbligo morale di una “leva” culturale e strategica all’estero da parte di uno Stato capace di guardare lontano. E sempre più spesso quei giovani restano liberamente altrove. Causando, così, un danno al Paese che ha investito nella loro crescita scolastica e sociale. Alle famiglie e alla comunità che perdono gli affetti e il valore di quelle persone. Alla classe dirigente di domani che s’impoverisce. A se stessi, perché i cervelli che fuggono non sono entusiasti di abbandonare la loro terra.

E’ un problema sempre più diffuso: chi non conosce una famiglia con un figlio scappato via, in mancanza di lavoro e di futuro? Anche se non sembra, questo, il problema del ministro Poletti, il cui figlio ormai grandicello -accusa l’opposizione- ha un’attività lavorativa che può godere di contributi pubblici nel tranquillo Belpaese.

Ma l’addio all’Italia di così tanti giovani è un’emergenza. Ce lo ricordano, con dolore, anche le tragedie della trentunenne abruzzese Fabrizia Di Lorenzo e della veneziana Valeria Solesin, che avevano scelto l’una Berlino e l’altra Parigi per farsi valere da italiane.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che Onu sarà con Donald Trump?

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Donal Trump

Delle numerose organizzazioni internazionali che operano sul piano politico, nessuna è più rappresentativa dell’Onu, a cui aderiscono 193 Paesi: il 93 per cento del mondo intero. Perciò quando il prossimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ormai freme per insediarsi, accusa quest’assemblea universale d’essere “un club di chiacchiere”, la battuta va presa sul serio. Soprattutto perché l’Onu ha subìto, semmai, la critica opposta, d’essersi cioè troppe volte adeguato al volere degli Usa.

Come sempre succede quando s’esprime un pensiero forte in modo fulminante, e con l’intento di sorprendere l’uditorio, c’è del vero nel tuono, peraltro l’ennesimo, di Trump. Troppe sono state le crisi, dal Ruanda all’ex Jugoslavia (basti una parola: Srebrenica), per non ricordare con raccapriccio l’imbelle azione delle Nazioni Unite. Troppi sono stati i fallimenti mascherati, come l’aver avallato la guerra in Iraq voluta dall’America di Bush con l’alibi di inesistenti armi di distruzione di massa. Troppo è il perdurante anacronismo che cinque Stati sui 193 abbiano loro, e soltanto loro, il diritto di veto su ogni decisione di tutti gli altri sulla base di equilibri politici del 1945, settant’anni dopo: come se il mondo si fosse fermato alle rovine della seconda guerra mondiale. Purtroppo i disastri e le carneficine sono ancora all’ordine del giorno. Ma è proprio questo ciò che rende il ruolo dell’Onu imprescindibile, per quanto chiacchierato e contestato possa essere.

E’ vero, spesso è prevalso il metro dell’ideologia, per esempio agitando il bastone contro la democrazia d’Israele (è polemica di queste ore sulla risoluzione che blocca nuove colonie nei territori) e offrendo, invece, la carotina a dittature di lungo corso, tipo il regime cubano. Rispecchiando il mondo, l’Onu ne esalta anche le plateali ingiustizie e le odiose differenze, perché buona parte del pianeta non balla al ballo della libertà. L’Assemblea generale ospita il “bla-bla” tra visioni contrapposte e a volte inconciliabili, tra eterne tensioni.

Ma l’Onu resta una palestra unica per dialogare, e non solo chiacchierare. Per diffondere valori: si pensi alle campagne un tempo solitarie contro la fame nel mondo e la pena di morte, alle cure per i bambini senza diritti e alla parità tra uomo e donna.

Certo, all’Onu si deve parlare, e soprattutto fare, meglio e di più. Ma parlare è già fare molto in questo tempo così restio ad ascoltare.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Io, Allah e Gesù. La testimonianza di Mohamed Darrat

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Presepe con Mohamed

Camminare a Roma lungo corso Trieste e affacciarsi al palazzo che dà su piazza Istria, l’unico col Tricolore sempre esposto sul pennone condominiale, significa imbattersi in un quarantasettenne educato che veste in giacca, cravatta e fazzoletto nel taschino. “Prego, sono il portiere dello stabile, dica a me”, si presenta al visitatore di turno Mohamed Darrat, libico e musulmano osservante. Ma per tutti è “Mimmo”, come si fa chiamare nel quartiere, dove lavora da nove anni dei quattordici da quando è arrivato in Italia. Mohamed detto Mimmo è laureato in economia e commercio e viene da Bengasi. Prega cinque volte al giorno, fa il Ramadan, va in moschea, ha il Corano sul tavolo e la voce del muezzin che “chiama per pregare” come suoneria del telefonino.

Ebbene, quest’uomo dall’incrollabile fede musulmana ha deciso di costruire con le sue mani, e senza che nessuno glielo chiedesse, un meraviglioso presepe usando cartone, legno e piccole strutture in ferro. Ha così dato grazia a sei pastorelli che si muovono. E a quattro fontanine da cui scorre acqua vera. E al bambino Gesù, che Mohamed ha messo nella grotta la notte del 24. Un’opera che funziona grazie alla quarantina di attacchi di corrente elettrica da lui predisposti per mettere in azione motori e pompe d’acqua. Per creare il gioco fra luci e ombre. Per dare al Natale quel senso d’amore e di mistero che questo presepe trasmette da quando se n’è sparsa la voce: la gente dei vicini palazzi viene apposta per ammirarlo.

Ma perché mai Mohamed ha scelto di fare il presepe e mostrarlo dalla finestra della portineria, mentre non mancano i soliti episodi di italiani e cattolici che rinunciano a evocare il Natale e i suoi canti, perfino nelle scuole, per “non turbare” la sensibilità di chi non è cristiano? Lui risponde così: “Io sono musulmano e per me la storia del presepe non conta. Ma so che conta molto per voi. Come il Ramadan, che per me è importante, ma per voi no. Il senso della vita è il rispetto. Quando abitavo a Bengasi, vicino a casa mia c’era una chiesa cattolica. Vedevo passare le suore. Nella mia terra provavo lo stesso sentimento che provo ora in Italia: vivere insieme, rispettando ciascuno le tradizioni degli altri”. È il quinto anno che Mohamed crea presepi, e sempre diversi. Ma la tragedia del 13 novembre 2015 a Parigi gli ha dato una motivazione definitiva. “Quella strage mi ha lasciato senza parole”, racconta. “Con la mia ragazza, che è cristiana, progettavamo un viaggio in Francia. Al Bataclan potevamo esserci anche noi. Orribile. E ora l’attentato a Berlino. Ma in nessuna parte del Corano c’è scritto: vai e uccidi”.

Il portiere ripensa alla sua Libia, “dove non si capisce più niente, ma quando posso ci torno, perché è il mio Paese”. Presto lo sarà anche l’Italia, perché Mohamed ha avviato le pratiche per la cittadinanza. Così diventerà quel che è già: Mimmo pure per l’anagrafe. “La cosa più bella di qui? La gente. Se gli italiani si fidano di te, ti danno il cuore. A volte io mi sento un vostro figlio”. Ad avvicinarlo alla vita italiana furono le canzoni di Ramazzotti e della Pausini e il Milan, “da Bengasi seguivo tutto”. A Roma tanti lavori occasionali, nonostante la laurea. Da cuoco a portiere di condominio, da Mohamed a Mimmo, con la salda fede in Allah e il rispetto esemplare per Gesù.

(Articolo Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Come evitare che Facebook diventi una fogna?

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facebook

Non è il caso di offrire neanche un quarto d’ora di attenzione a quella pagina di Facebook dal nome, che si commenta e condanna da sé, “auguriamo la morte di Matteo Renzi”. Da tempo abbiamo scritto che il mondo virtuale di internet vomita di tutto: guai a correre dietro ogni pensiero del “webete” di turno, com’è stato simpaticamente battezzato da Mentana. E poi la Rete non è il Vangelo della globalità. E’ soltanto un mezzo, straordinario, di comunicazione. E perciò può diventare il ponte o la fogna del mondo, a seconda di come e da chi lo usa.

Ma questa minaccia telematica all’ex presidente del Consiglio, che il Pd ha segnalato alla polizia postale per capire chi si nasconda dietro l’anonimato e un’immagine di Mussolini in uniforme, arriva in piena bufera politica sulle fonti d’informazione. “Il web non diventi un ring permanente”, aveva esortato il presidente della Repubblica, Mattarella, nel suo messaggio di fine anno. Poco dopo scoppiò la polemica di Grillo contro i quotidiani e i tg “fabbricatori di notizie false”, con la proposta, allo stesso tempo seria e non troppo come ci ha ormai abituato con le tante cose che dice, di una giuria popolare a cui sottoporre i servizi dei telegiornali e gli articoli dei giornali. Montanelli gli avrebbe risposto che un tribunale in attività permanente, e molto severo, già esiste, ed è quello formato dai lettori, dai telespettatori, dagli ascoltatori. Giudici implacabili: cambiano canale o giornale, se ritengono di essere stati defraudati.

I Cinque Stelle, si sa, nutrono una preferenza per la Rete come fonte di più libera, genuina e consapevole partecipazione, a cui delegare sia scelte politiche importantissime, sia un ruolo di informazione dal vivo col molto celebrato -ma non sempre da loro stessi utilizzato- streaming. Lo stesso Renzi, peraltro, è un globe-trotter del tweet, affidando fin dall’alba buona parte delle sue convinzioni alla tecnologia che tutto divulga subito, ovunque, a chiunque.

Ma forse è arrivato il momento di pretendere da chi ne ha istituzionalmente le competenze che la fogna non tracimi sul ponte. Anche nella Rete, come nella vita, si può essere contro tutti e contro tutto senza sacrificare il buonsenso, che è alla base dei rapporti fra le persone e le comunità. Altri Paesi l’hanno fatto: una bella discussione in Parlamento sul web (naturalmente in diretta streaming)

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Vi racconto il pasticciaccio di Casaleggio e Grillo a Strasburgo

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Federico Guiglia

Quel pasticcio all’italiana naufraga a Strasburgo. Dopo il matrimonio europeo che s’era consumato a sorpresa col gruppo di Nigel Farage, il principale artefice della Brexit, e l’altrettanto sorprendente addio di queste ore al medesimo contraente, Beppe Grillo adesso si trova nella condizione politica del sedotto e abbandonato. Con una mossa il cui senso continua a sfuggire ai più, il leader dei Cinque Stelle aveva deciso di far passare le sue truppe da Farage, dove si trovavano accampate, al gruppo liberale Alde, che è il terzo più grande nell’Europarlamento. Confortato dal voto del suo blog, tale scelta risultava incomprensibile a una parte dei suoi stessi e spiazzati simpatizzanti. Come fa un movimento che contesta quest’Europa a finire proprio coi politici che quest’Europa difendono? Ma tant’è: se Beppe così aveva fiutato, così sia. Il cortocircuito fra euroscettici ed europeisti sembrava superato in nome della ragion di Grillo.
Invece a chiudere la porta sono stati coloro che avrebbero dovuto aprirla. “Non ci sono sufficienti garanzie per portare avanti un’agenda comune per riformare l’Europa”, ha spiegato il capogruppo liberale Guy Verhofstad. “L’establishment ha deciso di fermarci”, è stata la reazione pepata dei Cinque Stelle, che puntavano all’inedita alleanza per “rendere più efficace il programma”. Ma che oggi si trovano in mezzo al guado. Posto che Farage e lo stesso Grillo difficilmente faranno un matrimonio riparatore di gran corsa.
In Europa, si sa, gli eletti espressi dai vari Stati hanno bisogno di associarsi in gruppo tra loro per poter esercitare al meglio l’attività politica. Ma popolari e socialisti fanno la parte del leone. Molte e singolari “intese tecniche” sono state perciò inventate, nel tempo, per evitare il rischio di finire fra i “non iscritti” del gruppo misto, che contano come il due di picche. Tuttavia, a quest’astuzia ricorrono le formazioni piccole o estreme. Con ogni evidenza i Cinque Stelle recitano una parte ben diversa, governando importanti città in Italia, a cominciare da Roma, e candidandosi alla guida del Paese.
Da qui nasce la necessità di trovare una finestra importane da spalancare in Europa. Ma questa nuova consapevolezza politica impone a Grillo non soltanto un chiaro programma di governo, ma anche una coerenza nelle alleanze. E un autogol del genere non è contemplato, quando si aspira a Palazzo Chigi.

(Articolo pubblicat ieri su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa cambia per l’Europa con Trump alla Casa Bianca

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donald trump

Chi pensava che il ruolo istituzionale ne avrebbe attutito l’approccio da “Trump contro tutti” della campagna elettorale, resterà deluso, ma non sorpreso. Nella sua prima uscita da presidente, è stato l’attacco la miglior difesa mostrata da “the Donald”, che sconta ancora le critiche di chi non l’ha votato e la diffidenza del resto del mondo in buona sua parte. Perciò, forse per sottolineare che non si farà condizionare da nessuno, eccolo reagire con parole forti e con un piglio da trincea. Ne ha avute per tutti, dunque. Da Obama, il presidente uscente di cui ha contestato la riforma sanitaria, al Messico, a cui Trump conta di addebitare l’allargamento del muro al confine tra i due Paesi. Ai russi, che riconosce essere stati “dietro gli hacker”, augurandosi però un buon rapporto con Putin e precisando che il nuovo inquilino della Casa Bianca “non è ricattabile”. Con Putin Trump spera di intensificare la lotta all’Isis, altro tema che rimprovera -l’eccessiva debolezza contro il terrorismo-, a chi l’ha preceduto.

Prima conferenza-stampa ufficiale e conferma dell’atteggiamento un po’ guascone, rifiutandosi di rispondere alle domande della Cnn, “perché voi siete fake news”, cioè divulgatori di notizie false.

Naturalmente, non bisogna prendere per buono né per vero tutto ciò che Donald Trump ha voluto dire all’universo mondo che l’ascoltava, quasi a testimoniare che lui non è cambiato: e per questo cambierà l’America. Anche le pur bellicose intenzioni, e molti degli annunci che, si può giurarlo, ne seguiranno da qui a quando eserciterà con pieni poteri il suo nuovo compito, dovranno essere giudicati sulla base degli atti e dei fatti. Nella democrazia americana neanche un presidente così intraprendente per prerogative istituzionali, oltre che per tracimante personalità, può agire ignorando il Congresso e i molti altri vertici che agiscono sul piano interno e internazionale. Ma non c’è dubbio che la prima uscita pirotecnica di Trump già ci dice una cosa: che la sua America intende essere protagonista in modo molto diverso da quella di Obama. Che l’interesse degli americani rappresenterà una preferenza permanente nella geopolitica del nuovo arrivato, e perciò l’Europa deve prepararsi a un ruolo più attivo, impegnandosi contro il rischio di isolazionismo d’Oltreoceano. Trump ha una sua visione delle cose, molto singolare per troppi aspetti, molto criticabile per altri. Ma con la quale il mondo dovrà imparare, presto, a fare i conti.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Come si muoverà Donald Trump fra Angela Merkel e Xi Jinping

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Federico Guiglia

In questo mondo sempre più alla rovescia anche le certezze della globalizzazione si capovolgono. Negli Stati Uniti, terra che più di qualunque altra ha diffuso l’universo senza frontiere come filosofia di vita e di economia, ci si prepara all’insediamento del nuovo presidente all’insegna dell’indietro tutta. Proprio alla vigilia della cerimonia che il 20 gennaio lo incoronerà inquilino della Casa Bianca per quattro anni, Donald Trump ha di nuovo lanciato messaggi di chiusura in nome di quel “prima di tutto l’America” che da tempo teorizza con orgoglio.
Ha così preannunciato misure per limitare l’ingresso anche degli europei nel Paese che pure essi fondarono. Ha contestato la politica della Merkel troppo conciliante sui migranti. E continua a snobbare i rapporti storicamente stretti con l’Unione europea, criticando pure il ruolo di organizzazioni internazionali finora considerate imprescindibili, quali la Nato e perfino l’Onu. Torna, dunque, d’attualità l’isolazionismo per la nazione più globale della Terra. Paradossalmente, nelle stesse ore il tradizionale Forum mondiale dell’economia che si apre oggi a Davos, in Svizzera, vedrà per la prima volta la partecipazione di Xi Jinping, presidente di un Paese-continente a partito unico chiamato Cina. Arriva il massimo rappresentante della nazione che per un verso spaventa l’Occidente per la sua prorompente ma sregolata carica sui mercati. Ma per l’altro la Cina sembra cercare di aprirsi, provando a liberalizzare la sua immensa potenzialità pur fra enormi contraddizioni e oltre il dirigismo politico che ancora l’imprigiona. La Cina è vicina e l’America è lontana? Comunque il mito della globalizzazione inarrestabile sembra vacillare più a colpi di Trump che di Xi Jinping, che ora sonda in prima persona il mondo economico senza confini per capire in che modo farne parte rilevante.
Resta, invece, invariata, e irraggiungibile, la quota dei ricchissimi tra poverissimi. Secondo l’ultimo rapporto Oxfam, un’organizzazione non governativa britannica che si occupa di economia sociale, otto Paperoni del pianeta hanno la ricchezza equivalente a metà dell’umanità intera. L’1 per cento degli abitanti ha accumulato quanto il restante 99 per cento. In Italia in sette possiedono beni corrispondenti al trenta per cento della popolazione.
Mai il livello di diseguaglianze era stato tanto sproporzionato, mentre Cina e Stati Uniti fanno prove tecniche di grande cambiamento.

(Articolo pubblicato su L’arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa prevede in Russia la nuova legge sulla violenza domestica

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VLADIMIR PUTIN

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Dalla Russia con stupore. Chi picchia la moglie in quel Paese potrà presto cavarsela con un’ammenda di ottanta euro.

È quanto prevede il minimo della sanzione, che già produce il massimo della polemica, in una nuova legge in dirittura d’arrivo a Mosca per depenalizzare la violenza domestica anche contro i figli. “Percosse in famiglia” è il reato che viene ammorbidito in assoluta controtendenza con le raccomandazioni da parte di organizzazioni internazionali come l’Onu ad aumentare il rigore punitivo nei codici per far diminuire la violenza contro donne e bambini. Solo un lontano e sorprendente cambiamento che poco ci riguarda?

Mica tanto. È vero che in Italia negli ultimi anni molto è migliorata la legislazione a tutela della donne vittime di violenza, in particolare nella prevenzione: come dare l’allarme in tempo agli investigatori, ecco il punto attorno al quale è cresciuto il dibattito sul femminicidio e si è affinata la tecnica legislativa. Ma se da noi a nessuno verrebbe in mente di attenuare le pene ai maschi picchiatori, la percezione sociale di questo abuso s’è incredibilmente abbassata. Lo rivela un sondaggio della Swg, secondo il quale è calata di dieci punti, dall’82 al 72 per cento, la percentuale di italiani che avverte oggi come un’emergenza l’uccisione o la violenza contro le donne da parte del partner. Ad abbassare la guardia sono in particolare gli uomini, i giovani nella fascia d’età 18/24 e i residenti al Nord, dove pure si registra il maggior numero dei femminicidi (il 53 per cento dell’intero anno scorso).

Il sondaggio arriva proprio nel giorno in cui a Parma una donna di quarantaquattro anni, Arianna Rivara, è stata trovata senza vita, pare strangolata, in un appartamento. Giaceva accanto al corpo dell’ex compagno cinquantenne morto anche lui. Un omicidio-suicidio secondo i rilievi dei carabinieri. Un femminicidio ogni tre giorni è la media drammatica, più volte denunciata, che non accenna a fermarsi. Come si spiega, allora, che, a fronte di tante donne ammazzate, sfregiate con l’acido, brutalmente picchiate, si affievolisca l’idea del fenomeno prioritario da affrontare? Eppure la maggioranza del campione interpellato (85 per cento) considera la violenza alle donne “assolutamente ingiustificabile”. Quindi non nasconde, non rimuove la gravità del reato. Mettere insieme gravità e urgenza è il passo decisivo da compiere contro il femminicidio ancora sottovalutato.


Cosa pensa davvero Angela Merkel dell’Europa

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Federico Guiglia

Alla signora Merkel l’Europa piace così tanto, che ne vorrebbe due. Per la prima volta, e proprio alla vigilia delle celebrazioni già previste in Italia, il prossimo 25 marzo, per i sessant’anni dei Trattati di Roma che istituirono la Comunità economica europea, cioè l’atto fondativo dell’Unione, Frau Angela legittima l’ipotesi di un continente a due velocità. “La nuova integrazione non sarà per tutti”, ha detto la cancelliera tedesca e sovrana riconosciuta dell’Unione europea, perfino annunciando che tale prospettiva potrebbe essere indicata nella “dichiarazione di Roma”. Bel modo di “fare la festa” ai 27 Paesi che ancora credono nell’opportunità di stare insieme dopo la Brexit.

La lezione che in realtà si doveva ricavare dall’addio della Gran Bretagna in pieno corso, oltre che dall’umiliante condizione di vigilata in casa della Grecia, poteva e doveva essere opposta: che fare per ritrovare il senso di un destino condiviso. Come rendere la politica continentale un servizio per i suoi cinquecento milioni di cittadini che esigono scelte chiare sull’economia, la sicurezza, l’immigrazione e i rapporti umani, culturali e diplomatici col resto del mondo.
Invece la Merkel rilancia immaginando che, per unirci ancor più, dovremo dividerci. Da una parte i Paesi virtuosi che riescono a tenere il passo della Germania e dei suoi interessi, dall’altra gli inseguitori.

Che l’ipotizzato dimezzamento avvenga mentre al di là dell’Oceano Donald Trump, il nuovo presidente degli Stati Uniti, non perde occasione per dire tutto il male possibile dell’Europa (e chissà se l’ha fatto anche nella prima conversazione telefonica ufficiale che ha appena avuto col nostro Paolo Gentiloni), la dice lunga sul vento pavido che spira nei Palazzi. Posto che quello, caldissimo, che soffia nelle piazze sempre più si chiama e si richiama al populismo.
Ma se l’unica ricetta per rimettere la traballante Europa in cammino è quella di separarne i marciatori, il traguardo resterà lontano per tutti. Solo l’Unione fa la forza, specie quando l’America sembra interessata a farsi gli affari suoi. Tutti lo sanno: la Casa europea deve essere ristrutturata in fretta. L’europeismo suona come vuota retorica rispetto al lavoro che non c’è, al terrorismo che incombe, ai giudizi e pregiudizi che gli europei coltivano per le migrazioni senza fine.
Ma una certa idea dell’Europa è l’unico sogno che una classe dirigente degna dei suoi popoli non dovrebbe far tramontare, sessant’anni dopo.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa succede in Marocco

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Federico Guiglia

La notizia è arrivata dal Marocco: basta condanne a morte per chi abbandona l’Islam. L’apostasia, come si chiama il ripudio della propria fede per abbracciarne un’altra, non comporterà più il rischio della vita per i credenti. Niente di nuovo sul fronte non occidentale oppure un piccolo, grande segnale di svolta?
Le reazioni possono essere due di fronte a ogni scelta a sorpresa. E questa, appena decretata dal Consiglio superiore degli Ulema, massima autorità religiosa del Paese che ha addirittura ribaltato un precedente verdetto del 2012, lo è. Chi non confida sulla possibilità di cambiamenti nell’universo delle moschee e del Ramadan così distante e diverso dal nostro, dirà: uno Stato musulmano si adegua, con qualche secolo di ritardo, a principi di civiltà condivisi ed esercitati nel mondo libero dalla notte dei tempi. Qual è la novità?

Chi, invece, nutre maggior fiducia, potrà sostenere che la conversione finalmente ammessa in Marocco – un atto che fa eccezione rispetto alle regole in vigore in tutti gli Stati islamici e che è stato battezzato “La via degli Eruditi”-, non è la tardiva archiviazione di un passato che non passava mai. È una sfida sul futuro.

Intanto, perché il Marocco rispetta da sempre le diversità religiose e Mohammed VI, il suo sovrano, ha dichiarato guerra al terrorismo. L’addio alla pena di morte per l’apostata significa mettere una pietra tombale sulla psicosi antica, ma purtroppo attuale, delle guerre di religioni che imponevano anche punizioni esemplari contro i “traditori”. Quel mondo è finito per sempre, ecco il risvolto simbolico della decisione. Ma l’effetto pratico è ancor più importante, specie per l’Europa che subisce attentati di matrice islamica. E che non vede tuttora soccombere il pur ridimensionato Stato del terrorismo-Isis. Troppo sangue innocente, troppe minacce hanno portato al dubbio: riuscirà mai l’Islam a integrarsi coi nostri valori senza farsi intimorire dai pochi, ma irriducibili estremisti?

La scelta del Marocco di seppellire una tradizione inaccettabile che pareva eterna, ci dice che l’auspicata svolta è possibile. Di qua l’Islam europeo-italiano dei molti che credono e convivono; di là gli isolati fanatici di guerre sante contro infedeli. Come quando Armstrong camminò sulla luna, la “via degli Eruditi” è un piccolo passo per l’uomo credente. Ma potrà rivelarsi, chissà, un grande passo per l’umanità.
(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Foibe, 60 anni di dolore anti italiano

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Federico Guiglia

Il muro di Berlino era caduto da un pezzo e la Russia non si chiamava più Unione Sovietica. Eppure, in Italia soltanto Indro Montanelli continuava a scrivere, nel 2001, che ai trecentocinquantamila connazionali costretti ad abbandonare le terre italiane di Istria, Fiume e Dalmazia dal 1943 al 1947 e ai quasi ventimila torturati, ammazzati e buttati nelle foibe dai partigiani comunisti di Tito, bisognava chiedere perdono per come furono trattati dalla loro nazione. Ricordando, inoltre, che erano “gl’italiani migliori di tutti per serietà, dignità, coraggio e discrezione”.

Cinquant’anni e più erano nel frattempo passati dalla “drammatica espressione di uno degli orrori del Novecento”, come l’ha oggi definita il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha fatto precisare d’essere in Spagna, anziché alle cerimonie, per un impegno istituzionale.

Ma di quell’esilio di gente innocente e laboriosa che aveva perso tutto, fuorché l’amore e l’onore di sentirsi italiana, di quegli stranieri in patria che venivano accolti al grido di “fascisti” dai militanti e intellettuali di sinistra dell’epoca, di quel martirio senza fine rappresentato da donne e uomini gettati vivi dentro voragini crudeli di una terra bellissima, non si doveva né si poteva parlare. “La congiura del silenzio”, l’avrebbe successivamente denunciata un altro presidente, Giorgio Napolitano. “Vi fu un moto di odio e di furia sanguinaria e un disegno annessionistico slavo che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica”, disse sempre Napolitano nel giorno del Ricordo di dieci anni fa su quanto era stato a lungo taciuto e rimosso.

Una pagina strappata per decenni dalla memoria d’Italia, oltre che dai libri di storia nelle scuole. Persino dai vocabolari: alla voce “foiba” si leggeva solo “grande conca chiusa”. La politica, l’istruzione, l’intellighenzia avevano a loro volta inghiottito la verità dei fatti.

Ma ieri la tragedia censurata ha compiuto settant’anni di dolore. Grazie a una legge tardiva, ma necessaria, e votata nel 2004 da un Parlamento che finalmente seppelliva ogni pregiudizio ideologico di fronte alla gravità dell’eccidio avvenuto a danno di italiani per il solo fatto di essere italiani, il “Giorno del ricordo” ha così riproposto le vicende della violenza e dell’esodo proprio nell’anniversario del Trattato di Parigi, che il 10 febbraio 1947 assegnava le terre italiane sul confine orientale alla nel frattempo scomparsa Jugoslavia.

Tanti eventi in tutto il Paese, dalla Camera con decine di scolari invitati che hanno intonato l’inno nazionale e la presidente Laura Boldrini che ha colto una delle virtù di quei profughi che abbandonavano e che sono stati abbandonati -il loro straordinario spirito di pace- al ricordo in Campidoglio. Alla foiba di Basovizza nel comune di Trieste, che soltanto nel 1992 è stata dichiarata “monumento nazionale”. Prima era considerata, appena, “monumento di interesse nazionale”, a conferma del colpevole oblio e dell’inconcepibile imbarazzo anche istituzionale per un luogo tanto sacro di dolore italiano.

La rimozione è finita, ma le polemiche non si placano. Presenti alla cerimonia di Basovizza, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (centro-destra) hanno criticato la perdurante distrazione della stampa sul tema e, soprattutto, l’assenza delle massime autorità dello Stato proprio nel settantesimo anniversario. A rappresentare il governo c’era solo un sottosegretario, Benedetto Della Vedova.

Ma il rischio vero, ora che nessuno oserebbe più dare alla parola foiba soltanto il significato di fenomeno fisico-geografico, è di relativizzare il Male, di minimizzarlo. Di giudicarlo una delle tante tessere insanguinate nel mosaico brutale della guerra mondiale, dei fascismi, dei comunismi. Ridimensionare quel massacro e l’obiettivo territoriale di quel massacro anti-italiano. Il pericolo incombente? “E’ sconfortante e sconcertante che ci sia oggi in giro qualcuno che tenta di coltivare l’ideologia, balzana e balorda, del negazionismo”, ha detto il vescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi.

Le foibe, l’esilio, l’obbligo di raccontare tutto quel che accadde, alla frontiera, “agl’italiani migliori”: è l’unica forma di perdono che l’Italia possa chiedere ai suoi figli dimenticati e alla loro memoria non più smarrita, settant’anni dopo.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Il Messaggero e sul sito www.federicoguiglia.com)


Chi sono i nuovi pirati chiamati hacker

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Sempre pirati sono, e navigare resta il loro avventuroso mestiere.

Ma al posto dei ricchi vascelli carichi d’oro e di spezie che, sciabola in mano e coltello fra i denti, amavano un tempo assalire in mezzo all’Oceano, ora vanno all’assalto di istituzioni e di governi, di grandi aziende e di banche. E lo fanno forse ancora con una benda nera sugli occhi, ma di sicuro seduti comodi in poltrona: la loro nuova arma è il computer, che li fa navigare da un continente all’altro senza bandiere, e perciò invisibili, carpendo i segreti e mettendo così alla berlina i loro pur sempre potenti “nemici”.

L’ultima incursione tentata dai corsari globali che oggi si chiamano hacker (gente informata e informatica), avrebbe preso di mira la Farnesina l’anno scorso. Per quattro, lunghi mesi -ha scritto il quotidiano britannico Guardian-, il nostro ministero degli Esteri sarebbe rimasto alla mercé di hacker russi in paziente agguato. Ma l’allora ministro e oggi presidente del Consiglio, Gentiloni, li avrebbe presi per fame: poiché non usava le mail sott’assedio, gli assedianti non poterono compiere al meglio l’impresa.

Qualcosa di serio deve essere successo, se la Procura ha aperto un’inchiesta, il governo assicura che nessun “dato sensibile” è stato catturato e i russi smentiscono con sdegno il mancato abbordaggio. Ancora loro, i russi, già sospettati di aver dato un aiutino, via informatica, al nuovo presidente americano Donald Trump nel duello per la Casa Bianca vinto all’ultima stoccata contro Hillary. Del resto, siamo nell’era di Wikileaks, dove il web può smascherare e non solo colpire: tutto dipende da chi lo usa e dall’uso che se ne fa.

Ma questa nuova battaglia navale che si combatte a colpi di clic, è molto insidiosa. Intanto, perché la pirateria agisce nell’anonimato. Le vittime “hackerate” non vedono brigantini all’orizzonte, né possono capire in anticipo quali siano i veri interessi in ballo. E poi l’evoluzione continua della tecnologia rende ogni forma di attacco o di spionaggio quasi inafferrabile e difficilmente dimostrabile. Un software può, dunque, aprire le comunicazioni e le frontiere del mondo. Oppure destabilizzarlo come mai avvenuto in passato.

Mettere in ginocchio un sistema di governo, colpire economie e alleanze sull’onda di informazioni rubate in pochi secondi, è la minaccia a vele sempre più spiegate del nostro tempo.

(Articolo pubblicato sull’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Ecco cosa prevedono le nuove norme per i dipendenti statali

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FESTA ROMANA DELL'UNITA'

Di solito si ammalano il lunedì o il venerdì. Con punte di febbre nei periodi natalizi e quando gioca la Nazionale. Sono puntuali, gli assenteisti nella Pubblica amministrazione. Ma da ieri lo scandalo che fa infuriare i cittadini, e che s’è guadagnato, come al cinema, persino un titolo al demerito – quello di “furbetti del cartellino” -, forse avrà vita un po’ più difficile. Il Consiglio dei ministri ha infatti approvato il decreto che, sulla carta, consente allo Stato di licenziare i dipendenti infedeli entro un mese, previa loro sospensione di quarantotto ore. Questo significa che, in teoria, non dovremmo più venire a sapere, tantomeno vedere, gente assunta per lavorare e poi, invece, strisciare il cartellino di riconoscimento per sé o per altri, vestiti di tutto punto o in mutande, e “andare lontano”, come canta Baglioni. Tanto, si sa, li paghiamo noi, comunque e dovunque andranno.

Ma in epoca di lavoro che non c’è, di giovani che fanno i salti mortali pur d’avere un’attività fosse anche a tempo parziale e determinato, nell’epoca triste di adulti lasciati per strada dalla crisi più grave e soprattutto più lunga di questi anni, il governo tenta di evitare l’indecenza di gente che si fa gli affari suoi alla faccia di tutti noi.
Perché continuare a chiamarli, allora, “furbetti”? In realtà sono truffatori, che non possono restare al loro posto, se colti in flagranza dalla telecamera o se denunciati dai colleghi oltretutto costretti a lavorare anche per loro. Ora rischieranno l’addio pure i dirigenti che dovessero coprire l’assenteista o girarsi dall’altra parte.

Dunque, linea dura verso un fenomeno insopportabile: gente che non lavora potendolo e dovendolo fare, a fronte di chi il lavoro se lo sogna. Ma quale sarà l’effetto pratico? E’ facile immaginarlo: l’approfittatore seriale oppure occasionale ricorrerà alla magistratura per far valere il torto delle sue ragioni. E i giudici, navigando nella giungla di cavilli, di gradi, di infausti precedenti e dell’inamovibilità sancita a principio, saranno spesso tentati o dovranno rimettere il licenziato dove non merita più di restare. Troppi e recenti casi inducono al pessimismo.

Ma adesso la svolta politica c’è stata. E perciò l’interpretazione delle norme da parte dei magistrati dovrebbe andare nel senso di punire, non già di perdonare, una così grave offesa al bene comune. Perché la volontà degli italiani è chiara: basta con lo scandalo. La legge si adegui al cambiamento e non ci faccia tornare indietro.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Ecco come saranno aboliti i nomi italiani in Alto Adige. Documento esclusivo

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INAUGURAZIONE NUOVA AREA D'IMBARCO E ALL'AEROPORTO DI FIUMICINO

Chiedo subito scusa ai lettori: il testo normativo che qui pubblichiamo per la prima volta, è scritto in un italiano che non si fa leggere. Ma bisogna leggerlo. E’ tutta farina della cosiddetta Commissione paritetica dei Sei, composta, appunto, da sei persone non elette da nessuno per questo compito costituzionale, ma nominate in rappresentanza dello Stato e della Provincia autonoma di Bolzano. Così paritetica, che sono di lingua italiana soltanto due membri su sei.

Chiedo scusa ai giuristi che, dopo aver letto tale “schema di decreto legislativo”, potrebbero domandarsi: ma com’è possibile che un simile obbrobrio sia destinato all’attenzione del Consiglio dei ministri e alla firma del Quirinale senza che almeno i consiglieri giuridici del presidente del Consiglio e del capo dello Stato, dicano ad alta voce: “Attenzione, Gentiloni, attenzione Mattarella, questo provvedimento dall’innocua apparenza e incerta scrittura in realtà è uno schiaffo senza precedenti all’ordinamento della Repubblica”.

Voglio scusarmi con gli oltre cento docenti universitari di tutta Italia. E della Germania, del Belgio, della Polonia, della Spagna, degli Stati Uniti. E poi con gli accademici della Crusca. Tutti insieme, gli studiosi di grande peso e competenza hanno inviato appelli alle Istituzioni del nostro Paese, implorandole: “Salvate i toponimi italiani”.

Hanno dimostrato un coraggio civile sconosciuto in un mondo intellettuale e politico non di rado così vile e servile. Si sono presi ogni genere d’insulto da estremisti sudtirolesi che vivono di propaganda e pregiudizio, e soltanto per aver fatto la cosa giusta. Soltanto per aver invocato, quei professori italiani e stranieri, il rispetto della legge in Alto Adige, Italia.

Chiedo scusa all’italiano Alcide De Gasperi e all’austriaco Karl Gruber, gentiluomini del tempo che fu: il loro Accordo del 1946 sta per diventare carta straccia.

Chiedo scusa alla comunità di lingua tedesca che, in grande maggioranza, non è affatto ostile al buonsenso del bilinguismo; chi è di lingua italiana dica pure in italiano ciò che noi, di lingua tedesca, diciamo in tedesco: dove sta il problema? Anche nella Svp non mancano gli animati dallo stesso civismo, che poi vuol dire saper convivere e voler rispettare la storia d’Italia e di tutti.

Ma costoro sono silenti: non parlano. In loro vece si leva la voce prepotente di chi si giustifica così: noi decidiamo di sradicare un gran bel pezzo di nomi, solo per evitare che l’addio ai monti italiani lo rivendichi, molto peggio di noi, l’estremismo politico fiorente alla nostra destra. Ma che bravi, che buoni che sono: selezionano i toponimi da far scomparire solo per aiutarci.

Cercasi, dunque, il ragionier Fantozzi di turno (ma va bene anche un don Abbondio di passaggio; e purtroppo se ne trovano tanti), che si inchini alla Svp e magari la ringrazi pure per l’atto di generosità: anziché esigere l’estirpazione dell’intero patrimonio linguistico italiano, il furbo padrone per il momento s’accontenta di tagliarne a man bassa solamente una notevole parte. Come se potesse giuridicamente farlo. Come se dovesse umanamente farlo.

Chiedo, infine, scusa a tutti per queste ultime riflessioni purtroppo necessarie per leggere il testo in controluce. Un testo che l’8 marzo, giornata internazionale delle donne, conoscerà la sua definitiva formulazione per passare poi al varco e al varo del Consiglio dei ministri, del Quirinale e diventare norma d’attuazione di rango costituzionale.

Si deve, allora, sapere che, pur dovendo attuare precise disposizioni dello Statuto speciale d’autonomia in materia di toponomastica prescritte dagli articoli 101, 102 e 99 dello Statuto del 1972, tali disposizioni non vengono neppure menzionate. Un’imperdonabile dimenticanza? Certo che no. Quegli articoli stabiliscono con chiarezza costituzionale (già “interpretata” pure dalla Corte Costituzionale con una precedente sentenza, la 28 del 1964), che la Provincia di Bolzano può solo “accertare l’esistenza ed approvare la dizione” dei toponimi tedeschi e ladini, non già cancellare la centenaria esistenza di quelli italiani in vigore. La norma costituzionale non le consente l’abominio, non le consente d’eliminare le dizioni italiane. Non possono farlo, non devono farlo.

Aver ignorato queste disposizioni dello Statuto rivela, quindi, che non si tratta di norma di ”attuazione”, bensì di ’“alterazione” dello Statuto, perché ne stravolge, cioè viola, la lettera e lo spirito.

Seconda riflessione. Nessun riferimento viene fatto alla vigente legislazione nazionale sulla toponomastica, pur essendo, oggi, l’unica esistente sul piano giuridico e formale.

Alludo all’importante decreto legislativo 179 del 2009, consacrato da una significativa sentenza della Corte Costituzionale (la 346 del 2010). Tale decreto ha reso “repubblicano” ciò che in precedenza era “regio”, ossia il primo decreto sulla toponomastica del 1923.

Non citare la legge in vigore in Italia sulla toponomastica è un atto di sfida (anche di spregio?) per l’ordinamento della Repubblica. E’ come dire: noi regoleremo i toponimi a nostro piacimento, a prescindere dalle norme vigenti frutto della storia d’Italia e tutelate al massimo livello dalla Corte Costituzionale.

Terza riflessione. Per raggiungere l’obiettivo di rendere monolingue, cioè solo in tedesco, ciò che da cent’anni è indicato in italiano e in tedesco, si prevede il criterio comico, ma devastante della “denominazione diffusamente utilizzata”. Un criterio indimostrabile e discutibile in eterno, che perciò si presterà all’arbitrio di chi ha più forza politica e maggior potere: la Svp. E poi come bussola per stabilire quel che si può conservare e quel che si deve eliminare, s’inventa il criterio della presunta “dizione originaria in lingua tedesca e o ladina dei nomi storici” (si noti la raffinatezza grave e greve: non si prevede una “dizione originaria in lingua italiana”; per noi italiani la storia non vale e non conta).

Ecco, forse siamo al punto: che cosa c’è dietro. “Dizione originaria” significa andare in retromarcia alla ricerca del “chi c’era prima”, quasi esistesse una fonte di purezza toponomastica a cui obbligatoriamente abbeverarsi, una presunta e sacra origine solo tedesca.

Attenzione, è un concetto anacronistico, inaccettabile, e due volte insidioso. Si potrebbe, infatti, scoprire che il toponimo italiano “Appiano” è nome prediale (da “Appius” + suffisso anum), storicamente molto anteriore, addirittura di epoca romana, rispetto al tedesco “Eppan”. Ma nell’elenco dei nomi da decapitare, guarda un po’, non figura semmai la scure per l’intedescato “Eppan” (e sarebbe una follia), bensì la ghigliottina già calante per l’antico “Castel d’Appiano”, che diventerebbe un grottesco “Castel HochEppan”. Semplicemente vergognoso.

Come si vede, il vigente e inderogabile obbligo di bilinguismo (“Castel d’Appiano/Burg Hocheppan”) è anche un magnifico baluardo contro l’ignoranza e l’arroganza. E’ un’isola di libertà, dove nessuno è prigioniero dell’altrui volontà. Dove nessuno può vietarmi la parola nella mia lingua.

Ultima avvertenza. Hanno messo nero su bianco persino che l’”ordine di precedenza” linguistico nei cartelli e nella segnaletica stradale “è dato dalla consistenza dei gruppi linguistici nei luoghi di pertinenza risultante dall’ultimo censimento generale della popolazione”. Insomma, con l’eccezione nei comuni di Bolzano e di Laives, tutto dovrà essere prima in tedesco.

Si sono preoccupati di regolamentare il metro col centimetro non per teutonica precisione ma, vuoi vedere?, per continuare a non attenersi a una sentenza della Corte Costituzionale. Quella celebre sul “maso avito”, la 21 del 1987. Stabiliva la precedenza della lingua italiana, che è “la lingua ufficiale dello Stato”. Come se non bastasse, un’altra esemplare sentenza della Corte Costituzionale appena depositata, la numero 42 di quest’anno, ha riaffermato che l’italiano è la lingua intoccabile della Repubblica.

Il conto alla rovescia è così cominciato. Dieci giorni mancano alla decisione finale dell’8 marzo, giornata internazionale delle donne.

Se in questo Paese chi esercita pubbliche funzioni coltiva ancora il senso dello Stato e lo Stato di diritto, si è in tempo a fermare lo scempio politico-giuridico di una norma di “alterazione” impresentabile, che apre la strada all’abolizione definitiva di una parte smisurata di nomi italiani dalla secolare tradizione in Alto Adige.

Sono in gioco principi, valori e diritti che ogni persona libera, ma soprattutto ogni Istituzione pubblica, dovrebbe sentire propri, e saper difendere “con onore”, come scrive la nostra Costituzione in uno dei suoi articoli più belli e dimenticati.

Federico Guiglia

f.guiglia@tiscali.it

www.federicoguiglia.com

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Schema di decreto legislativo concernente norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol in merito all’art. 8 comma 1, numero 2) del D.P.R. n. 670 del 31 agosto 1972 e in materia di uso della lingua tedesca e ladina nei rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e nei procedimenti giudiziari

 

Art.1

 

  1. La Provincia autonoma di Bolzano esercita la propria competenza in materia di toponomastica nei limiti ed ai sensi dell’articolo 8, numero 2) del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, nel rispetto dell’obbligo della bilinguità o, laddove prevista, trilinguità.
  2. Fermo restando quanto disposto dall’articolo 56 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670, la Provincia autonoma disciplina con legge la forma bilingue o, ove prevista, trilingue dei toponimi tenendo conto dei seguenti principi:
  3. individuazione, secondo criteri oggettivi, delle denominazioni diffusamente utilizzate per le località nelle rispettive lingue italiana, tedesca e ladina;
  4. l’accertamento delle denominazioni diffusamente utilizzate nelle lingue italiana e tedesca per il territorio provinciale, escluse le località ladine, e i relativi criteri tecnico-scientifici, sono determinati da un comitato composto da sei esperti in materia storica, geografica, cartografica, linguistica o giuridica, in numero uguale per ciascuno dei gruppi linguistici italiano e tedesco, designati dal Consiglio provinciale su proposta della maggioranza dei consiglieri dei rispettivi gruppi linguistici. Il Comitato decide a maggioranza assoluta dei componenti e, in ogni caso, con il voto favorevole della maggioranza assoluta dei componenti designati da ciascun gruppo linguistico;
  5. l’accertamento delle denominazioni diffusamente utilizzate per le località ladine, e i relativi criteri tecnico-scientifici, sono determinati da un comitato composto da quattro esperti in materia storica, geografica, cartografica, linguistica o giuridica; due componenti sono designati dalla maggioranza dei consiglieri del gruppo linguistico ladino, uno dalla maggioranza dei consiglieri del gruppo linguistico tedesco e uno dalla maggioranza dei consiglieri del gruppo linguistico italiano. Il Comitato decide a maggioranza assoluta dei propri componenti;
  6. mantenimento nella loro dizione originaria in lingua tedesca e/o ladina dei nomi storici qualora non risulti sussistente una denominazione in lingua italiana individuata secondo i criteri di cui alle precedenti lettere a) e b), ferma restando in ogni caso la traduzione dei termini aggiuntivi come ad esempio “malga”, “lago”, “montagna”, “fiume”, “castello”, e similari;  
  7. Restano ferme le attribuzioni della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol in relazione all’ordinamento e alle denominazioni degli enti locali.  
  8. Un primo elenco ricognitivo dei toponimi è allegato al presente decreto. Tale elenco può essere successivamente integrato e modificato secondo le disposizioni di cui al comma 1, lett. b) e c) del presente articolo. La cancellazione del predetto elenco di denominazioni nelle lingue italiana e tedesca è deliberata dal Comitato nella composizione di cui al comma 1 lett. b) del presente articolo, e in deroga al procedimento a maggioranza qualificata ivi previsto, a maggioranza dei votanti.

 

Art.2

All’articolo 4, dopo il comma 4, del D.P.R del 15 luglio 1988, n.574, è aggiunto il seguente:

4-bis. Le denominazioni dei toponimi sulla cartellonistica e sulla segnaletica stradale vengono riportate nelle versioni in lingua tedesca, italiana e ladina, in quanto in uso in ciascuna di tali lingue in conformità alla normativa di cui all’art. 8 comma 1, numero 2) del D.P.R. n. 670 del 31 agosto 1972 e delle relative norme di attuazione. L’ordine di precedenza è dato dalla consistenza dei gruppi linguistici nei luoghi di pertinenza, risultante dall’ultimo censimento generale della popolazione.


Tutte le ultime scaramucce nucleari fra Trump e Putin

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trump

Tutto cambia, ma come cambia in fretta. Donald Trump e Vladimir Putin, i “carissimi nemici” che sembravano grandi alleati, adesso si mandano pesanti avvertimenti.

A trenta giorni dall’insediamento alla Casa Bianca, il presidente più pirotecnico della storia americana ha metaforicamente lanciato la sua ultima bomba. E, dato il personaggio, l’ordigno verbale non poteva che essere atomico.

In uno dei suoi raptus di grandezza, Trump ha difeso la supremazia nucleare degli Usa, mettendo in dubbio l’accordo per la limitazione dei rispettivi arsenali firmato tra Washington e Mosca.

Di fatto, il presidente Usa ha contestato quella faticosa strategia della non proliferazione e del disarmo per tutti frutto dell’orribile lezione di Hiroshima e Nagasaki in tempo di guerra. Da decenni l’universo cerca di imparare, firmando trattati di amicizia e giurando “mai più l’atomica” agli abitanti del pianeta sempre più consapevoli del pericolo senza ritorno.

“Se Washington procederà nel suo obiettivo di supremazia nella sfera nucleare, il mondo tornerà alla guerra fredda col rischio di una catastrofe globale”, è stata l’immediata reazione di Leonid Slutzky, presidente della Commissione esteri della Duma. E così la strana intesa fra Russia e America all’improvviso vacilla: stiamo forse entrando nell’era della “pace fredda”? Assisteremo a un nuovo, rischiosissimo equilibrio fra potenze che si fanno la faccia feroce agitando il coltello nucleare?

Per ora il botta e risposta è solo una patriottica esibizione di muscoli. Ma se l’Europa non fosse un fantasma incapace perfino di far paura, questo sarebbe il suo momento per separare i duellanti prima che combinino disastri. Non per il timore che, dalle parole, americani e russi possano mai passare ai fatti; ché, se lo facessero, nessuno potrebbe raccontare com’è andata a finire. Il pericolo del braccio di ferro in sorprendente corso è l’indietro tutta verso un mondo di piccine egemonie e forti contrapposizioni, dove si finirà per perdere di vista chi è il vero “nemico principale” da abbattere: la fame e il terrorismo, le malattie e le guerre, i muri e i pregiudizi.

La “pace fredda” indurrebbe tutti gli altri al ruolo di perdenti e comprimari. E allora verrebbe da dire Europa, se ci sei, batti un colpo. Almeno un colpetto.

(Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Dj Fabo, l’eutanasia e la pietà

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Federico Guiglia dj fabo

Giudicare la vita degli altri è già un esercizio molto complicato, soprattutto se non si è capaci di giudicare, prima di tutto, se stessi. Figurarsi, allora, che cosa si possa mai dire di una persona che era piena di energia e popolare tra i ragazzi quando stava bene, e che ha chiesto di morire perché da tre anni cieco e tetraplegico e solo – solo “dentro”, nell’anima ferita – per colpa di un incidente stradale.

Pietà, soltanto pietà per dj Fabo, nome d’arte di Fabio Antoniani, ora che non c’è più, perché ha scelto – o meglio – è stato costretto a scegliere la Svizzera per realizzare quell’ultimo desiderio che aveva più volte richiesto invano al suo amato Paese: l’eutanasia, la dolce morte che in vari Stati d’Europa è contemplata pur in forme diverse, e che in altri è invece proibita e punita, se qualcuno – medici, familiari, amici – contribuisce a provocarla. Fabo è stato accompagnato a morire da Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, che adesso ripropone il grande dilemma di coscienza a un Parlamento dal vuoto legislativo.

La differenza dell’Italia col resto dell’Unione non è fra il torto o la ragione di legislazioni che mai potranno indicare quale sia la via da seguire quando la vita, che è il bene più prezioso e non negoziabile, diventa un calvario per chi sente di non riuscire più a sopportarlo. Immobile e tra sofferenze inenarrabili, come dj Fabo (“un inferno di dolore, dolore, dolore”, fra le sue ultime parole).

È giusto, non è giusto? Che domanda mal posta. L’unica libertà che una società civile deve saper assicurare ai suoi cittadini è quella di vivere. Ma non si possono chiudere gli occhi davanti a drammi che si svolgono quasi sempre in silenzio e talvolta, come nel caso di Fabo, gridando al mondo la volontà di dire addio col filo di voce rimasto.

La vita è amore, il divino sentimento “che move il sole e l’altre stelle”. Ma la storia del dj sfortunato e disperato e di altri come lui ci dicono che le meravigliose parole di Dante non bastano per spiegare tutto.
Il Parlamento non può buttarla sul filosofico-religioso, zigzagando tra opposte ideologie del “fine vita” per gli uni, i favorevoli all’eutanasia, e dell’“aiuto al suicidio di Stato” per gli altri, i contrari.

Occorrono regole certe nel pur incerto confine dell’”accanimento terapeutico”. Regole che consentano a medici, familiari, persone così malate da non essere più consapevolmente disposte a sopportare l’”inferno di dolore”, di prendere le loro decisioni, e a noi di rispettarle.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Nomi italiani in Alto Adige, ecco tradimenti e magagne contro l’Italia

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Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

A interrompere il conto alla rovescia è il colpo di scena di 102 senatori che rappresentano tutti i gruppi parlamentari (fuorché i Cinque Stelle;  loro prenderanno una posizione in queste ore): “No alla cancellazione dei toponimi italiani in Alto Adige. Nessuna decisione venga presa l’8 marzo dalla Commissione dei Sei. Si pronunci la Corte Costituzionale”. I riferimenti sono al testo quasi definito per essere approvato fra cinque giorni a Roma dalla Commissione paritetica Stato/Provincia autonoma di Bolzano detta dei Sei (così paritetica che sono di lingua italiana solo due componenti su sei). “Fermi tutti”. Il richiamo è invece ai dormienti giudici costituzionali sul ricorso promosso nel 2012 dal governo-Monti contro una legge altoatesina che consentiva d’abolire migliaia di toponimi italiani dalla secolare tradizione. Ora la carica dei 102 scuote i Palazzi: la Corte decida, anziché barcamenarsi di rinvio e rinvio richiesti dai governi. Decida, per venire a capo di una vicenda voluta dalla potente e prepotente Svp e subìta dai suoi fragili alleati politici di lingua italiana a Bolzano, ma che neppure doveva essere prospettata tanto è incostituzionale. La risolva “il massimo organo di garanzia della Repubblica e custode riconosciuto dei diritti di tutti”.

Il loro è un appello nell’appello, perché i 102 parlamentari del Pd e di Forza Italia, dell’Area popolare e del Gal, della Lega, hanno condiviso la mobilitazione e le parole dell’Accademia della Crusca e di numerosi e importanti linguisti italiani e stranieri (della Germania, Belgio, Spagna, Polonia e Stati Uniti), che avevano inviato lettere aperte a tutte le Istituzioni: “Salvate i toponimi italiani”. Meglio tardi che mai, se la politica dà ora ragione alla cultura e al diritto. Quel diritto che l’Italia ha riconosciuto con l’Accordo De Gasperi-Gruber del 1946 alla minoranza di lingua tedesca: usare i propri toponimi in modo ufficiale e permanente. Quel diritto che, settant’anni dopo, si vorrebbe invece negare proprio a coloro che te l’avevano riconosciuto, impedendo agli italiani di continuare a nominare nella loro lingua, che è la lingua ufficiale della Repubblica (come confermato dall’esemplare e recente sentenza 42 della Corte Costituzionale), nomi che da un secolo già esistono in versione italiana. Politica immemore e ingrata.

Ma come si spiega, allora, l’altolà dei senatori di maggioranza e opposizione che segna una svolta nell’incredibile vicenda? Forse ai piani alti i politici più avveduti, dopo aver letto il testo che doveva essere approvato l’8 marzo per poi diventare norma d’attuazione di rango costituzionale, si sono resi conto del grave e imbarazzante rischio istituzionale: come si fa, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, a esporre il capo dello Stato alla firma di un testo sulla toponomastica che ignora la legge dello Stato? Non c’è una sola parola in premessa che faccia riferimento al decreto legislativo 179 del 2009, confermato e protetto dalla sentenza della Corte Costituzionale 346 del 2010. Tale decreto è l’unico in vigore nell’ordinamento. I soli nomi oggi “ufficiali” sono quelli italiani. Proprio quelli che si vogliono sradicare. La Provincia di Bolzano non ha ancora esercitato le sue prerogative, che lo Statuto speciale e costituzionale (articoli 101 e 102: pure essi non a caso ignorati) limita alla facoltà di legiferare solo per le dizioni tedesche e ladine dei nomi. Invece di “ufficializzare” i nomi tedeschi e ladini, si prospetta l’impossibile e l’inaccettabile: far fuori gran parte dei nomi italiani.

L’altro punto sconcertante del testo contestato è che, oltre a prefigurare un criterio comico e arbitrario del toponimo valido solo se è “diffusamente utilizzato”, si introduce il “mantenimento nella loro dizione originaria in lingua tedesca e ladina dei nomi storici”. Cioè il nome che da un secolo è italiano-tedesco da domani diventa solo tedesco, se non si dimostra che la dizione italiana “sussiste”.

Da una parte neanche si prevede che possa esistere una “dizione originaria in lingua italiana dei nomi storici”; dall’altra s’adombra il criterio, molto pericoloso, del “chi c’era prima”. Comprimendo, così, il ruolo del nome italiano, che è invece alla radice dell’ordinamento e fonte giuridica ineliminabile del bilinguismo. Ma anche ignorando che la storia dei nomi rispecchia quella dei popoli: è la meravigliosa mescolanza, e non già la ricerca di una purezza toponomastica a cui abbeverarsi -la presunta e sacra origine solo tedesca-, che rende il mondo migliore.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Chi e come ha fermato la rottamazione dei nomi italiani in Alto Adige

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CONFERENZA STAMPA SU GIUSTIZIA E COMPETITIVITA'

Al novantesimo, ma il testo che doveva abolire i toponimi italiani in Alto Adige è saltato. Forse per sempre. “Tutto rinviato”, secondo la formula, naturalmente edulcorata, proveniente dalla Commissione dei Sei, che era chiamata a Roma al varo definitivo, e dato per scontato, di una norma sempre più contestata in modo trasversale. Ma in realtà la rottura è stata politica e tutte le Istituzioni della Repubblica chiamate in causa, a cominciare dal Quirinale, non sono rimaste insensibili al grido di dolore lanciato dai centoquindici docenti italiani e stranieri che solitariamente diedero il primo allarme contro l’incredibile affronto alla lingua e alla storia d’Italia. E’ così arrivato il colpo di scena dei 102 senatori di maggioranza e opposizione, che hanno condiviso l’appello accademico per fermare subito i lavori dei Sei, sollecitando invece la pronuncia della Corte Costituzionale sul tema.

Sono poi partiti due siluri imparabili: un tale provvedimento sarà incostituzionale, hanno ammonito ben due ex presidenti della Consulta, Antonio Baldassarre e Giovanni Maria Flick. Baldassarre fu l’estensore della sentenza-pilota sul bilinguismo inderogabile dei toponimi, la numero 21 del 1987, che impedì il primo tentativo di aggirare la Costituzione e cancellare la secolare memoria d’Italia in Alto Adige. Secondo la storica sentenza la Provincia di Bolzano doveva introdurre e far precedere (essendo l’italiano la lingua ufficiale dello Stato) l’espressione “maso avito” a quella di “Erbhof”, il solo termine che la legge altoatesina invece contemplasse a proposito dei masi su cui legiferava: “Maso avito-Erbhof”.

Nel frattempo erano scattate la raccolta di firme dei deputati e la scelta di Forza Italia (Brunetta, Romani e Michaela Biancofiore) di rivolgersi il prima possibile al Quirinale. E il lavoro incisivo di informazione del consigliere regionale Alessandro Urzì presso le autorità nazionali, che avevano sottovalutato la gravità della scelta locale voluta dalla Svp e subìta dai fragili alleati di lingua italiana. Subìta da quel Pd altoatesino che non ha trovato sponda nel Pd nazionale, molto attento al rischio di trascinare il Quirinale in un’avventura indifendibile.

Perfino il dibattito infuocato con cui lunedì scorso a Bolzano rappresentanti della comunità italiana di ogni idea politica hanno contestato il presidente della Commissione dei Sei, Francesco Palermo, ha lasciato il segno. E così il giocattolo s’è rotto –pare- sulla questione posta da Roberto Bizzo (Pd), presidente del Consiglio provinciale di Bolzano (e da sempre perplesso): si metta in premessa il riferimento alla vigente norma dello Stato sulla toponomastica. L’unica, oltretutto, che oggi regolamenti la materia. Invece la menzione era “nascosta” nell’allegato per poter dire che c’era, ma senza darle la forza giuridica del “nei limiti e ai sensi di”. Quel riferimento avrebbe reso più difficile sradicare i nomi italiani. Alla Provincia di Bolzano spetta, oltretutto, solo la facoltà, non ancora esercitata, di “ufficializzare” le dizioni tedesche e ladine. Ma la richiesta del riferimento alla legge dello Stato dove andava messo, avrebbe irrigidito Karl Zeller, commissario/senatore della Svp che non accettava migliorie, pur minime, al compromesso raggiunto col Pd locale in barba alla Costituzione e al principio fondante dei toponimi bilingui scolpito nell’Accordo De Gasperi-Gruber del 1946.

Che la rottura sia avvenuta su questo o altre questioni poco importa. E’ lo stesso e sconfitto Palermo, che non ha voluto farsi carico della valanga di critiche piovute d’ogni dove, a dichiarare ora parole di delusione che suonano come una resa. Ma se questo rinvio sarà la fine di ciò che mai sarebbe dovuto iniziare (l’idea che in Italia si possa, anzi, si debba far fuori il 65 per cento dei secolari nomi italiani in Alto Adige), saranno in molti a poter dire: c’è un’Istituzione, a Roma.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Il Messaggero e tratto dal sito  www.federicoguiglia.com)


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