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La differenza fra Italia e India spiegata dalla Cassazione

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marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Voleva girare per strada armato di un coltello lungo e affilato. Non perché avesse cattive intenzioni, ma perché questo gli imponeva la sua religione. Invece l’indiano sikh dovrà fare a meno del “kirpan”, come si chiama tale sacro pugnale. La Corte di Cassazione, oltre ad aver respinto il suo ricorso, confermando la condanna a una multa di duemila euro che aveva subìto per quella lama di venti centimetri portata in pubblico, ha stabilito un principio elementare di valenza generale, riaffermato per la prima volta in modo molto chiaro: in Italia non si può fare quel che si fa in India. “Non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori, seppur leciti secondo le leggi vigenti nei Paesi di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante”.

Dunque, sulla sicurezza non c’è precetto che tenga e gli immigrati che hanno scelto di vivere nella società occidentale – ha detto la Corte – devono conformarsi ai nostri valori. Naturalmente, nessun divieto per il libero esercizio di ogni credo, per la possibilità di coltivare i propri costumi o di seguire le tradizioni d’origine. Porte aperte. L’integrazione del mondo multi-etnico nel nostro Paese non passa dall’abbandono della cultura da cui si proviene né dalla riduzione del pluralismo ma – ammoniscono i giudici – “ha un limite invalicabile: il rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica” della nazione ospitante. La difesa delle nostre radici.

Già il Consiglio di Stato aveva messo fuorilegge il kirpan, perché negli ultimi dieci anni altri casi simili erano stati sollevati soprattutto nel Veneto e in Emilia. Ma, come succede spesso, sulla controversia la politica aveva spaccato il capello in quattro all’insegna dello scontro ideologico fra i due soliti fronti: quello che denuncia il buonismo imperante sul tema dei migranti e quello che, all’opposto, accusa il dilagare della xenofobia. La Cassazione pone un punto fermo nella polemica che in queste ore puntualmente riaffiora, indicando nell’obbligo di rispettare le leggi e i valori del Paese accogliente l’unica bussola valida per tutti. “Decisione equilibrata, ma la politica non strumentalizzi”, chiede la Cei, a proposito di una sentenza pragmatica, che distingue il diritto alla fede dal dovere della sicurezza, il turbante dal kirpan, la libertà di preghiera sempre garantita dall’uscire di casa con un coltello alla Sandokan.

(Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



WannaCry, cosa è successo e cosa può succedere

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Non era mai successo, ma anche nel web c’è sempre una prima volta. In queste ore almeno settantaquattro Paesi, tra i quali l’Italia, sono stati vittime di un massiccio attacco informatico con un risvolto che potrebbe far sorridere, se non fosse invece tremendamente serio e grave: gli hacker hanno chiesto un “riscatto” dell’equivalente di 300 dollari in bitcoin, la moneta elettronica, per ogni singolo computer preso di mira come condizione per porre fine all’offensiva telematica. E così all’improvviso il mondo scopre di essere catapultato nella vera, anche se invisibile, terza guerra mondiale, che non è fatta solo dei tanti conflitti a scacchiera che insanguinano varie parti del globo, ma soprattutto di un bombardamento anonimo e incontrollato che può mettere a rischio i principali sistemi di organizzazione sociale, colpire l’economia e rendere fragile la stessa sovranità di uno Stato. Perché questi moderni e organizzati pirati della Rete prendono di mira aziende di comunicazione e ospedali, sistemi di difesa e alta funzionalità delle istituzioni.

Il rischio è che l’universo ripiombi nel buio, sia perché risulta difficile individuare in tempo da dove provengano gli attacchi per prevenirli, sia perché il nemico sposta di continuo e oltre ogni frontiera il suo armamentario virtuale. Virtuale, eppure in grado di mettere in crisi le nostre democrazie per le quali la tecnologia è come l’aria che si respira: impossibile farne a meno. Coincidenza vuole che proprio ieri al G7 dei ministri finanziari si è posto il problema di come tassare con equità i colossi che offrono i servizi di internet. L’internazionalizzazione ha reso questo campo economicamente minato, perché privo di regole e con ogni azienda che fa gli affari suoi dove più le conviene sotto il profilo fiscale, mentre l’Europa chiede finalmente di avere voce in capitolo.

Sono due, perciò, le questioni che viaggiano in parallelo: come fermare la guerra scatenata sul web con l’obiettivo di destabilizzare i governi e le popolazioni, e come dar vita a un sistema nel quale gli speculatori abbiano sempre meno potere e privilegi e gli utenti sempre migliori servizi. L’emergenza informatica è una priorità per chi vuol difendere i suoi principi di libertà, di sicurezza e di riservatezza. Al maxi-attacco degli hacker serve una risposta politica. E serve che le nazioni si scambino ogni informazione sul sempre più insidioso “attimo fuggente”: un semplice colpo di clic per mandare il mondo intero nel panico.

(Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

 

 


Il divorzio, oggi come 40 anni fa, specchio dell’Italia che cambia

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Se il matrimonio non è per sempre, neanche il divorzio può perpetuare lo stesso stile di vita. Con questo principio solo all’apparenza paradossale, ma in realtà rivoluzionario, la Corte di Cassazione ha appena cambiato i criteri che per trent’anni sono stati applicati per stabilire l’assegno da sempre parametrato al precedente tenore di vita per l’ex coniuge – nella grande maggioranza dei casi la donna -, che lo riceveva. D’ora in poi, hanno sentenziato i giudici supremi, il mantenimento non dovrà essere riconosciuto alla persona richiedente che è economicamente in grado di farcela da sé. Per capirlo, bisognerà guardare ai suoi redditi, ai beni immobili e mobili posseduti, alla “stabile disponibilità di un’abitazione”, al lavoro personale che svolge o che è in grado di svolgere. È chiaro che in mancanza di queste risorse o possibilità, all’ex coniuge spetterà un trattamento equo per vivere una vita dignitosa. Altrimenti si tornerebbe all’era del pre-divorzio e all’ingiusta discriminazione del “più debole”, che nessuna Cassazione potrebbe mai avallare.

Dunque, il divorzio non viene più associato all’idea unitaria di una coppia che si divide, ma alla realtà separata di due singole persone che si lasciano definitivamente. E se esse hanno deciso di rompere il vincolo giuridico – dice la Corte -, non si comprende perché dovrebbe restare vita natural durante il rapporto economico preesistente che era legato a quel matrimonio indissolubile, eppur dissolto.

Così come quarant’anni fa l’introduzione della legge sul divorzio – confermata dai cittadini con referendum – era il ritratto dell’Italia che stava cambiando, e che esigeva per moglie e marito il diritto civile di potersi dire addio, di nuovo è il divorzio a segnalare la svolta del costume e della società.

La condizione delle donne che oggi lavorano, quindi autosufficienti, è imparagonabile a quella delle mogli-casalinghe degli anni Settanta. Se la vera parità, anche economica, tra uomo e donna è ancora lontana, è tuttavia indiscutibile il cambio di rotta nell’equilibrio sociale e familiare tra coniugi. I giudici prendono atto e, anticipando i dormienti legislatori, danno una nuova interpretazione del diritto destinata a incidere molto nei divorzi vip, tipo Veronica Lario e Silvio Berlusconi. Ma è un richiamo forte alla auto-responsabilità dei divorzianti, che si antepone al principio, finora più considerato, della solidarietà.

(Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Contro chi marciare davvero

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L’accogliente Milano fa bene a essere orgogliosa d’aver manifestato per una buona causa: l’integrazione dei tanti stranieri che da ogni parte del mondo, e da molti anni ormai, arrivano nel nostro Paese per vivere con dignità e serenità. Come ha sintetizzato il presidente del Senato, Grasso, “chi è nato in Italia e studia in Italia è italiano”. Un auspicio di elementare buonsenso, un’idea di cittadinanza che deve poter aggiungere allo ius sanguinis, il diritto naturale e civile secondo il quale è italiano chi è figlio di italiani, anche lo ius soli: italiani non si nasce solamente, ma si diventa anche, vivendo sul territorio della nazione italiana, frequentandone le scuole, amandone la lingua, le tradizioni e la Costituzione.

Ma la marcia dei centomila e il bel motto (“insieme senza muri”) che l’ha animata, e che neppure le contestazioni dei centri sociali hanno scalfito, è solo un risvolto del fenomeno che scuote l’Europa. L’altro si chiama sicurezza e non può essere separato dal primo, cioè dall’integrazione: il dovere del rispetto per il popolo italiano e per la sua tranquillità accanto al diritto di aprire le porte a chi giunge qui per scelta o necessità. Sarebbe ipocrisia o demagogia sottovalutare questo secondo aspetto, che molto inquieta i cittadini, e non senza ragioni.

Gli italiani assistono, infatti, a un’Europa che ha delegato solamente a noi il compito di confortare il dolore dell’universo. E il fatto che lo facciamo con un coraggio, una competenza e talvolta un amore unici nel pianeta, non esime gli altri europei dall’obbligo di darci una mano forte, anziché di elogiare la nostra solitudine nel Mediterraneo. Neppure la Spagna, geograficamente più a ridosso dell’Africa di noi, mostra un decimo dell’impegno e del denaro che la Repubblica italiana investe per salvare vite sull’altra sponda. La prossima marcia la si organizzi a Bruxelles, e di protesta contro la compiaciuta indifferenza.

A ciò s’aggiunga la “variante” dei criminali, che ovviamente speculano sull’immigrazione incontrollata e non distribuita in modo responsabile fra tutti i Paesi dell’Unione. Si va dai delinquenti inumani quali sono gli scafisti alle infiltrazioni mafiose che cercano di lucrare e sporcare l’opera benemerita delle organizzazioni volontarie. Per non dire del fondamentalismo violento e inconciliabile coi valori occidentali che si cela e si alimenta nel deserto dell’insicurezza.

Accoglienza e rigore devono sempre “marciare” insieme.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco come Donald Trump si è mosso al G7 di Taormina

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g7 Angela Merkel, Paolo Gentiloni, Emmanuel Macron, Donald Trump

Per il novello presidente americano l’ingresso in società, la diffidente società europea, è stato finora tiepidino.

L’extracomunitario più celebre e potente del mondo, Donald Trump, ha cominciato da Roma il suo giro continentale, che proprio oggi, con l’inaugurazione del G7 a Taormina dopo il vertice-Nato di ieri a Bruxelles, troverà il “nuovo inizio”: quel via libera alla necessaria collaborazione fra l’Europa e l’America, abbandonando ciascuno i suoi pregiudizi.

Nel caso del presidente Usa la diversità di vedute abbraccia tutti i temi principali, con l’eccezione della lotta al terrorismo, l’unica incombente priorità sulla quale “the Donald” e i governi europei viaggiano in sintonia. Né potrebbe essere altrimenti dopo l’attentato a Manchester e la minaccia globale dell’Isis non ancora sradicata. Eppure, persino su questo percorso condiviso non è mancata la polemica Londra-Washington, con la premier May che ha accusato gli Stati Uniti per la fuga di notizie fra i rispettivi servizi segreti finite sulla stampa americana, e con Trump costretto ad assicurare i britannici che indagherà e punirà i responsabili.

Tuttavia, da oggi le prevenzioni anti-Donald degli europei e l’isolazionismo pan-americano che lui sembra prediligere, dovranno andare in archivio. All’insegna della Filarmonica della Scala con Puccini, Rossini e Verdi, che inaugureranno il summit, la forza del destino ha concesso all’ospitante Italia il compito di “integrare” l’americano in Europa, ricordando agli europei che l’America resta sempre la nuova frontiera dell’Occidente. Questo significa ritrovare un’intesa sulla tutela del pianeta e sul commercio internazionale, dove le idee del presidente protezionista sono distinte e distanti (anche se a Papa Francesco, che glielo faceva notare durante l’incontro freddino, Trump ha detto di non aver “ancora deciso” la strategia ambientale).
L’agenda del blindatissimo G7 contempla, oltre al terrorismo, l’emergenza dei migranti, sulla quale dovranno essere più gli europei che non l’americano a dare risposte all’Italia. E poi sfide internazionali, Siria e Nord Corea, perciò con la Russia convitato di pietra del vertice, e con la Cina interlocutore lontano, ma imprescindibile.

Ma pure la Brexit, la sicurezza informatica e alimentare, l’innovazione. Chissà, allora, che la lirica italiana in apertura al Teatro Antico riesca nell’impresa più della politica europea: far capire a Trump l’importanza e la bellezza d’essere un americano a Taormina.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Viicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Vivaldi è vivo (in mostra a Venezia)

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Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Quando nacque, a Venezia, lo battezzarono subito in casa, perché era in gravi condizioni. Quando morì, a Vienna, lo seppellirono in fretta in una fossa comune. Di salute cagionevole come Leopardi e protagonista di una fine anonima come Mozart: è solo ai geni, in particolare a quelli incompresi nel proprio tempo, che bisogna associare la grandiosa parabola di Antonio Vivaldi, compositore e violinista tra i più amati, oggi, al mondo e adesso personaggio di un evento speciale, “Viva Vivaldi”, da poco inaugurato nella città lagunare e che durerà un anno. Un omaggio al musicista che vanta più di seicento lavori tra opere, concerti e sonate. E che subì il destino di tanti grandi.

Inascoltato come capita ai profeti in patria – e lui era pure sacerdote -, e caduto in un lungo oblio, fu riscoperto e valorizzato due secoli dopo dagli studiosi italiani. Ad Alfredo Casella si deve il ritrovamento del “Gloria” di nuovo eseguito nel settembre 1939 presso l’Accademia Chigiana di Siena. Il “prete rosso”, così Vivaldi era soprannominato per il colore dei capelli, visse fra il 1678 e il 1741. L’esattezza delle date è precaria non meno della “strettezza di petto” che sempre lo tormentò (probabilmente l’asma).

“VivaVivaldi” vuole raccontare, ma soprattutto far rivivere il rinascimento in corso di un artista, Maestro e impresario nei sessantatré anni di una vita intensa e ricca quanto povera e solitaria ne fu la morte. Non è una classica mostra, bensì un viaggio tra narrazione audio, effetti e ricostruzioni virtuali, profumi e atmosfere per coinvolgere i visitatori nei capolavori musicali. Tutto è allestito nella casa quasi naturale per quel prete rosso, il Museo Diocesano a pochi passi da piazza San Marco. Una scelta voluta e non solo dovuta: dire dell’uomo e della sua fede divina nella musica, cercando di capire perché sia diventato un patrimonio italiano dell’umanità.

Il sentiero per immergersi nell’epoca di quel rivoluzionario inafferrato che -ricordano gli esperti- portò la ridondante musica del barocco, basata sui contrasti sonori, verso uno stile quasi impressionistico, caldo e luminoso, è diviso in tre parti e comincia dal chiostro.

Alcuni minuti di necessarie informazioni-audio sulla vita dell’artista e religioso (un utilissimo aiuto che andrebbe esteso a tutto il percorso), prima di salire alla sala denominata “Ritratto di un genio”. Dove anche il buio è contemplato per illuminare gli inizi del prete-musicista, la sua famiglia, la fatica nel respirare e le fonti dell’ispirazione a partire da Venezia, dove paradossalmente conobbe l’insuccesso più amaro. Camminando oltre, ci si imbatte in un video, dove un Vivaldi raffigurato bambino accompagna con gli occhi i momenti salienti della propria esistenza. Lo sguardo ripercorre il rapporto col padre barbiere, da cui apprese l’arte del violino, e poi le lezioni che il Maestro impartiva alle orfanelle dell’Ospedale della Pietà, mentre una ballerina incarna lo spirito della musica barocca. “Anche un genio è un mistero a se stesso”, è il titolo della seconda tappa.

Ma più che ai titoli, è alla musica di Vivaldi che è stata affidata la delicata missione di “voce narrante” nel cammino tra un salone e l’altro: la sfida più difficile. L’ultima e terza fermata è costruita per offrire il “dono del genio al mondo”. Non può mancare, allora, un passaggio d’ascolto delle Quattro Stagioni, l’opera che rappresenta il nostro “Inno alla Gioia” per l’impeto e il senso di felicità che trasmette.

“Immagini, suono, percezioni, tutto è stato pensato per costruire un percorso individuale al visitatore, perché diventi lui stesso regista di quello che sta vedendo”, racconta Gianpiero Perri, ideatore del progetto e direttore della società che l’ha organizzato (per informazioni: www.vivavivaldivenezia.com).

Alla ricerca delle emozioni perdute, dunque, tra spazi visionari ed esperienze sensoriali “per venire incontro alla sensibilità estetica del nostro tempo -spiega Perri-, e suscitare nuova attenzione sulla figura dell’artista, che non era certo un grigio educatore. Per venticinque anni ha allevato generazioni di musiciste, concertiste e cantanti”.
Un affresco su Vivaldi sacerdote del violino, compositore che influenzò Bach e numerosi suoi contemporanei, eppure uomo solo.

Un italiano fuori dal tempo, che il tempo ci ha fatto ritrovare.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Viicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Come Ariana Grande le canta a Isis dopo la strage a Manchester

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Neanche dieci giorni sono passati, ma Ariana Grande, l’amata cantante statunitense d’origine italiana, ha annunciato che tornerà sul luogo del delitto. Tornerà a Manchester, che ancora piange i suoi ventidue morti causati da un attentato suicida il 22 maggio scorso, subito rivendicato dall’Isis. Tornerà per esibirsi sul palco, per ballare, per condividere le sue canzoni con il pubblico giovanissimo e universale che la segue. E che si sta già mobilitando per partecipare al bis.

Ma domenica prossima non andrà in scena soltanto un concerto di beneficenza a favore delle famiglie colpite in una città ferita e dolente per il più grave attacco di terrorismo subìto in Gran Bretagna dopo quelli, a catena, del 2005 nella metropolitana di Londra (cinquantasei vittime, assassini compresi, e ben settecento feriti).

A Manchester assisteremo anche alla reazione più bella che gli europei, attaccati nel cuore e nell’anima in tanti loro Paesi, devono dare ogni volta agli insaziabili nemici dell’odio e delle stragi: non chiudersi in casa, né chiudere i confini di casa, ma spalancare le porte della libertà. Non arrendersi alla paura di chi vorrebbe relegarci nelle catacombe, ma uscire in piazza “col sole in fronte” – come a loro volta cantavano Pavarotti e prima di lui Villa -, perché “voglio vivere così”, senza cambiare la felicità delle nostre abitudini e l’importanza dello stare insieme. La festa di Manchester sarà la risposta all’eccidio di Manchester. Le lacrime dei tanti ragazzi che torneranno allo stadio, stavolta, di cricket – ed essi non pagheranno il biglietto-, sarà il ricordo più tenero e profondo per i ragazzi e bambini uccisi, ma non dimenticati. La musica come antidoto contro chi vuole spegnere le nostre voci. Cantare per commemorare il silenzio degli innocenti.

Con Ariana Grande arriveranno i Take That, Katy Perry, Justin Bieber e altri artisti: tanta solidarietà che nessuna violenza individualista o di cellule potrà mai sradicare. “One love Manchester”, “Un solo amore Manchester”, diventi il modello: la grande festa contro chi detesta anche un piccolo sorriso. L’allegria della gente contro il rancore degli inumani. Il nuovo sogno contro l’incubo dei vili senza speranza.

Intanto, in rete gira uno spot diventato “virale” e fatto da una compagnia telefonica araba contro il terrorismo. Ecco, comunicare con parole, immagini e canzoni che dopo Manchester il mondo non sarà più come prima. Nessuna resa: qui si canta.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

 


Ecco le ultime (pessime) notizie sulla povertà in Italia

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Il dato è un pugno nello stomaco, e non solo perché a renderlo noto è una fonte importante come la Banca d’Italia: un bambino su dieci vive in una situazione di “povertà assoluta”. Succede qui, in Italia, uno dei Paesi più industrializzati e benestanti del mondo. Succede che nel periodo della crisi preso in esame dall’istituto, in particolare nel 2015, le famiglie più numerose siano state le più colpite. Nuclei sopra i due/tre figli, in cui i minori – più ancora che gli anziani, precisa lo studio -, hanno pagato il prezzo delle difficoltà. Ed è spiegabile con la mancanza di protezione sociale per i bambini, a differenza, appunto, degli anziani, che magari possono godere di pensioni, per quanto minime esse siano, o di assistenza sociale: la rete della comunità in qualche modo li ha difesi dalla crisi infinita. Invece i piccoli no, i piccoli hanno sofferto tutti i drammi delle loro famiglie. E di una società per la quale già la questione della denatalità – la media in Italia è di 1,2 figli per coppia: tra le più basse dell’universo -, non rappresenta una grave priorità da affrontare. Basti ricordare un altro primato negativo, quello della minor quantità di asili nido per le donne che lavorano, ormai la grande maggioranza. E, per giunta, mal distribuiti lungo la penisola. La sofferenza ricade soprattutto sui nuclei di cittadini stranieri, i più danneggiati (due su tre in percentuale).

Questa non curanza per il diritto fondamentale che dovrebbe essere riservato a ogni bimbo, ossia il diritto di poter crescere con amore familiare e serenità economica, finisce per esplodere al momento della crisi. Secondo la fotografia di Bankitalia, l’aumento della povertà tra i minori è frutto di una doppia circostanza. Da un lato il periodo nero che ha attraversato l’economia nostra ed europea. Dall’altro l’insensibilità che a livello amministrativo e legislativo il tema ha finora registrato. Misure ad hoc come la legge-delega sulla povertà o iniziative sui redditi poco incidono. Invece la strada dovrebbe essere quella di intervenire sulle famiglie più bisognose, garantendo servizi o assicurando benefici.

Ma un Paese del G7, vertice che ha ben chiaro il dovere di investimenti in Africa per alleviare la povertà tra i bambini, non può trascurare o sottovalutare come aiutare anche i nuclei di italiani e di stranieri che molto male se la passano in casa. Una politica per i bambini non è solo un atto d’amore e di giustizia: è un interesse nazionale.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Cosa penso del caso di Totò Riina

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Totò Riina

È vecchio, malato e forse neppure più pericoloso come un tempo. Pertanto, al pari di ogni detenuto, anche lui ha “il diritto a morire dignitosamente”. Lo ha stabilito la prima sezione penale della Corte di Cassazione, invitando il tribunale di sorveglianza di Bologna a riesaminare la pratica. Ma il “lui” in questione non è un vecchietto qualunque, magari dimenticato dai parenti in uno dei tanti penitenziari della Penisola. L’uomo per il quale potrebbero presto aprirsi le porte del carcere si chiama Totò Riina. Basta il nome.

Per aiutare gli immemori a capire di chi si parla, del ruolo che ha esercitato e della fama che s’è conquistato tra i complici, ricordiamone un po’ di soprannomi: “Capo dei Capi, “la belva”, “il Padrino” (quello vero, non il Marlon Brando del film di Coppola), essendo la sua biografia costellata di crimini e di ergastoli. Ben sedici condanne a vita è il primato di delitti accumulati dal boss di Cosa Nostra. Che ha finora passato ventiquattro anni in galera, anche in isolamento -come la legge prevede-, trattato con tutte le regole previste dall’ordinamento.

Certo, nel frattempo Riina ha compiuto ottantasei anni. Ma non è colpa dei morti ammazzati per mafia se i compleanni del condannato si festeggiano tra le sbarre, anziché a casa tra i suoi familiari. Certo, il carcere deve tendere non solo alla rieducazione dei reclusi, ma anche a preservarne dignitosamente l’umanità. Umanità, peraltro, che si fatica a cogliere nell’illustre detenuto, al solo pensiero degli attentati orribili in cui morirono Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino (ma la drammatica lista di sangue è assai più lunga). Comunque, l’esistenza dignitosa del detenuto è rispettata dalle guardie carcerarie che l’hanno in custodia. Dai medici che intervengono in caso di necessità. Dagli avvocati e familiari che lo visitano. Dalla stampa, pronta a rivelare eventuali violenze subìte, se fossero mai esistite.

Non risulta che al Capo dei Capi sia stato abolito uno solo dei molti diritti riconosciuti anche a uno come lui, dall’accertata e gravissima attività criminale alle spalle. Attività dalla quale il boss dei boss non sembra essersi dissociato né pentito: mai ha collaborato con lo Stato.

Ma non confondiamo le carte, anzi, le cartelle cliniche. Una cosa è curarlo e trattarlo con quell’umanità che a troppe vittime della mafia non è stata riservata. Altra sarebbe scarcerarlo: un insulto all’Italia e a chi è caduto per difenderla e per sempre onorarla.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Per battere il femminicidio c’è un’arma soltanto: prevenirlo

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Non una, ma dodici volte la donna aveva denunciato il marito in Sicilia. “Aiutatemi, mi ha minacciato con un coltello, non so più che cosa devo fare”, furono le sue ultime, ma inascoltate parole. Perché nonostante il grido di dolore più volte lanciato, Marianna Manduca, così si chiamava, fu uccisa, e proprio con sei coltellate al petto e all’addome, il 4 ottobre del 2007 a Palagonia (Catania).

Vent’anni di condanna sta da allora scontando in carcere l’uomo che lei aveva accusato, che aveva sposato e con cui aveva fatto tre figli.

Si deve al padre adottivo di questi tre bambini nel frattempo diventati ragazzi -un secondo padre che è cugino della povera vittima-, se adesso la Corte d’Appello di Messina ha a sua volta condannato a un risarcimento di 300 mila euro due magistrati che non avrebbero fatto quanto in loro potere di fronte al disperato allarme. Quasi si trattasse non della cronaca di una morte annunciata, ma di uno dei tanti e accesi litigi in famiglia. È un’omissione che viene per la prima volta riconosciuta e sanzionata in sede civile dopo un tortuoso e lungo iter giudiziario, se si pensa che sono passati ben dieci anni dal delitto. E che questa sentenza non è ancora definitiva. Ma anche se non saranno i due pubblici ministeri a pagare di tasca loro (toccherà farlo alla presidenza del Consiglio, che potrà poi rivalersi sui magistrati), è stata introdotta un’importante novità nell’ordinamento e, si spera, soprattutto nel costume istituzionale: d’ora in avanti sarà vietato per tutti sottovalutare il rischio di femminicidio.

Anche in questo caso, come in troppi altri presi alla leggera dagli inquirenti e spesso persino da familiari e amici della vittima, la donna uccisa stava mettendo in guardia in anticipo su un atto di incombente e irreparabile violenza. Per battere il femminicidio (una donna ammazzata da un uomo ogni tre giorni, in media, in Italia) c’è un’arma soltanto: prevenirlo. Si possono fare buone leggi, e non mancano sul tema. Si può puntare a far crescere una nuova coscienza nell’opinione pubblica e nei ragazzi fin dai banchi di scuola: e lo si sta facendo. Si può pretendere severa consapevolezza dagli investigatori chiamati ad affrontare il fenomeno, e anch’essa sta maturando.

Ma il punto non cambia: l’unico modo per evitare il peggio, è intervenire prima che accada. Prestare sempre ascolto e aiuto alla donna che denuncia anche e soltanto una volta sola. Figurarsi dodici.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché il Russiagate non è un Watergate

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Watergate, clima, Donald Trump e Melania Trump

Esattamente quarantacinque anni fa, il 17 giugno 1972, un addetto alla sicurezza che lavorava negli uffici del “Watergate Hotel” a Washington dava inizio, senza saperlo, al più grande scandalo politico negli Stati Uniti. L’inconsapevole aveva notato uno strano nastro adesivo su una porta nel passaggio fra le scale e un parcheggio sotterraneo. Immaginando che fosse stato dimenticato da chi faceva le pulizie, lo tolse. Eppure, rifacendo il giro di vigilanza poche ore dopo, s’accorse che una manina aveva rimesso un altro nastro nello stesso posto.

Il sorvegliante chiamò la polizia. E così, investigando su ciò che si sarebbe scoperto che era – anche grazie alla rigorosa inchiesta giornalistica di Bob Woodward e Carl Bernstein – un’intercettazione illegale a danno dei Democratici, s’arrivò alla prospettiva di messa in stato d’accusa del presidente Richard Nixon e alle sue dimissioni per evitarla.

Non si perdonava all’inquilino della Casa Bianca, e al suo staff, d’aver negato il coinvolgimento di persone legate ai Repubblicani nella brutta storia di spionaggio, dunque d’aver mentito. Comportamento che in America non rappresenta una marachella, ma un reato grave: ostruisce la ricerca della verità da parte della giustizia. Così fu interpretato anche il pervicace rifiuto di Nixon di far ascoltare le sue conversazioni nello Studio Ovale. Quando, alla fine, consegnò dei nastri al giudice, quei colloqui anche volgari lo condannarono politicamente.

Dunque, suggestione a parte, il celebre “Watergate” ha poco da spartire con l’attuale Russiagate che vede al centro Donald Trump. Anche stavolta, certo, Robert Mueller, il procuratore che indaga, valuterebbe l’ipotesi di un presunto ostacolo alla giustizia -secondo le anticipazioni del Washington Post – per il ruolo di uomini della cerchia di Trump. “La caccia alle streghe più grande nella storia degli Stati Uniti”, è la furiosa reazione del presidente.

Ma, a prescindere da come finirà la vicenda sul ruolo della Russia nelle elezioni del 2016 col trionfo di Trump, i fatti sono diversi. E l’opinione pubblica ha maggiori strumenti d’informazione, rispetto a quarant’anni fa, per farsi un’idea del caso sulla base di accertamenti “senza guardare in faccia nessuno”, com’è abitudine da quelle parti. Specie dopo il siluramento del direttore dell’Fbi, James Comey, che indagava sul Russiagate. Mentire oggi sarebbe più difficile per chiunque occupi posizioni di potere in una nazione, oltretutto, dove gli “Intoccabili” esistono solo nei film.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ius soli, il diritto (temperato) all’italianità

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Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Quando, nell’ottobre di due anni fa, alla Camera dei deputati fu approvato il testo che concede ai bambini nati in Italia da figli di stranieri d’essere anche per l’anagrafe ciò che già sono nei fatti, cioè italiani, le polemiche furono limitate e ragionevoli. Ora che l’identico provvedimento s’è affacciato al Senato per diventare legge della Repubblica s’è invece scatenato il finimondo politico: perché?

Intanto, perché anche una legge che riguarda principi importanti per una grande nazione come l’Italia – ossia la questione giuridica e culturale della cittadinanza – diventa subito e purtroppo campagna elettorale: di qua il governo e il Pd che premono per introdurre la novità nell’ordinamento, sapendo anche che ne beneficeranno in termini di consensi. Di là le opposizioni che contestano la fretta di un simile cambiamento a fronte di altri e più urgenti problemi da risolvere. Consapevoli, a loro volta, di interpretare le diffidenze e le paure della propria “opinione pubblica”. Poi c’è una seconda e ineludibile ragione: sull’onda, soprattutto, dei ripetuti e orribili attentati in Europa il tema dell’identità e di come integrare gli immigrati extracomunitari in Europa s’è inevitabilmente intrecciato con quello della sicurezza. Accoglienza per chi ha bisogno e merita, ma tolleranza zero per chiunque, a prescindere da dove arrivi e quali idee, lingue o fedi professi, s’azzardi a calpestare con violenza e radicalismo i nostri valori. Da qui il timore che, accanto all’atto di giustizia reso a un milione di ragazzi non ancora italiani anche se l’Italia è l’unica loro e amata patria, si possa aprire una breccia per dare la cittadinanza a chi odia la nostra cittadinanza.

Né è sufficiente, oggi, invitare i senatori alla lettura di un testo che non solo conserva la civiltà dello ius sanguinis – continueranno a essere italiani i figli di italiani ovunque nati nel mondo -, ma che prevede l’aggiunta dello ius soli, cioè il diritto all’italianità per chi è nato o cresciuto sul suolo della penisola da genitori stranieri, con una serie di paletti: l’aver frequentato un ciclo scolastico in Italia, l’avere padri e madri residenti da tempo, con un reddito provato e così via. Ius soli “temperato”, non per caso lo chiamano. Sarebbe ora di temperare le polemiche, spiegando bene ai cittadini che gli integratissimi “nuovi italiani” nulla hanno da spartire con i violenti che ci odiano.

Se serve altro tempo, la politica se lo prenda. La priorità non può essere litigare anche su questo.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


La Cumparsita, “el tango de los tangos” cent’anni dopo

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Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Il giovanotto cercava una colonna, la più grande che potesse trovare, per nascondersi dallo sguardo dei tanti uomini in abito scuro, farfallino e cappello di paglia pronti a giudicarlo. Era arrivato il momento di ascoltare per la prima volta l’opera che il ragazzo impegnato a nascondino, aveva appena composto. E quel caffè della Belle Époque ormai al tramonto anche in Sudamerica, il più importante e centrale di Montevideo, capitale dell’Uruguay, s’era riempito di gente in attesa che il gruppo di musicisti suonasse, finalmente, l’annunciata novità.

Gerardo Hernán Matos Rodríguez, vent’anni appena e studente di architettura, mai avrebbe immaginato che il suo primo componimento da lui stesso seguito, ma non eseguito -tanto ne temeva il fallimento-, sarebbe diventato il tango più conosciuto e suonato al mondo.

Era il 19 aprile 1917. Presso “La Giralda”, luogo bohémien della borghesia dove assistere a spettacoli musicali con una coppa in mano, esordiva “La Cumparsita”. Cent’anni sono passati dalla nascita de “el tango de los tangos”, com’è considerato quel motivo inventato per caso, ma nel tempo interpretato da più di mille orchestre e con millesettecento versioni registrate. E cantato -con almeno tre testi diversi- anche da Carlos Gardel, l’irrompente voce del tango e uruguaiano pure lui come il timido Matos Rodríguez.

Ma dimenticate le parole, voi che ballate, perché è la melodia ciò che ha fatto della “Cumparsita” un “patrimonio dell’umanità” riconosciuto dall’Unesco nel 2009. Un patrimonio pieno di Italia, a cominciare dal nome storpiato e dovuto a un cameriere italiano. Ogni volta che costui vedeva arrivare il gruppetto di musicisti in erba cappeggiato da Matos Rodríguez, diceva: “Eccoli quelli della Cumparsita”. In realtà avrebbe dovuto dire “Comparsita” con la o, perché dalla parola spagnola “comparsa” tale soprannome prendeva le mosse.

La storia è la seguente. Avvicinandosi il carnevale del 1917, lo studente di architettura e i suoi amici volevano inventarsi “una comparsa para cantar en los cafés”, ossia un costume per esibirsi nei caffè. Matos Rodríguez, in verità, del musicista non aveva ancora molto. S’era, però, creato un motivo armonioso per i fatti suoi. Quando lo propose alla comitiva per associarlo al travestimento carnevalesco e suonarlo nei bar, inevitabilmente quel motivo, grazie all’ignara incursione battesimale del cameriere italiano che cambiò la vocale spagnola, diventò “La Cumparsita”.

Ma di ascendenza italiana furono pure quanti contribuirono con la loro arte a strappare l’ovazione dei presenti già al debutto in quella indimenticabile giornata d’autunno latinoamericano. A cominciare dall’apporto decisivo del pianista argentino Roberto Firpo, oriundo genovese che, oltre a suonarla, intervenne sulla parte finale della composizione, aggiungendovi un motivo di Verdi.

Basta poi seguire le orme dei cognomi per scoprire quanto il canto universale debba all’ispirazione italiana, che è il vero comune denominatore fra gli artisti argentini e uruguaiani (storicamente il tango sboccia fra Buenos Aires e Montevideo, appartenendo alla cultura di entrambi i Paesi affacciati sul Río de la Plata): Maroni e Contursi ne scrissero le parole nel 1924. Nel quartetto del pianista Firpo i violinisti si chiamavano Roccatagliata e Ferrazzano. E il bandoneón, il mitico strumento a mantice lontano parente della fisarmonica, era nelle mani ferme di De Ambroggio. Persino gli studiosi che alla Cumparsita si sono dedicati rivelano la discendenza, dalla nipote di Matos Rodríguez, che si chiama Infantozzi e ha ordinato partiture e ricordi in un libro (“mio nonno era l’autore più sconosciuto del tango più conosciuto”) allo studioso Varese, che è andato a rileggersi i giornali dell’epoca per riscoprire il caffè che non c’è più, pur avendo dato i natali al tango che ci sarà per sempre.

All’oriundo più celebre, Astor Piazzolla, La Cumparsita non piaceva. Troppo poverella, diceva quel genio a cui poco garbava la semplicità della melodia. Eppure, non rinunciava mai a suonarla, cioè a vestirla con la sua interpretazione, “perché un buon abito -diceva sornione e gigione- migliora sempre l’aspetto”.

(Articolo pubblicato sul Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Vi svelo il segreto musicale della Cumparsita di Matos Rodríguez

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Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

“Le quindici battute iniziali. Il segreto musicale della Cumparsita è tutto lì: nella melodia. Stravinsky diceva che la melodia è quella componente che non si può imparare in alcun conservatorio. L’opera di Matos Rodríguez è unica. Piace perché è semplice. Anche nella musica la cosa più difficile è essere facili”.

Parla Héctor Ulises Passarella, musicista e compositore uruguaiano che da tanti anni ha scelto l’Italia, la patria dei bisnonni, come terra della sua vita e arte. L’arte del tango, che lui insegna a suonare a colpi di bandoneón, il tipico strumento col quale fa il giro del mondo per concerti. Con un primato: ha fatto suonare ben otto “bandeononisti” insieme, cominciando dal figlio Roberto, italiano, che segue le orme del padre. “La Cumparsita -riprende Passarella- può essere divista in tre parti. La prima è quella accattivante, specie per l’epoca. Una melodia che, come “Libertango” in tempi più recenti, è diventata universale per il messaggio emotivo che solletica. Già la seconda parte della Cumparsita potrebbe non essere tutta farina del sacco di Matos Rodríguez. Quanto alla terza si sente la mano di Roberto Firpo, grande pianista di tango. Con un frammento di Verdi”.

Ma lei la suona spesso nei suoi concerti?

“Da Seul alla Germania, ma anche in ogni angolo d’Italia, La Cumparsita me la riservo sempre come “bis”. Un buon tango ha bisogno di tre cose: l’intuito melodico, l’interpretazione e l’arrangiamento. Per questo il lavoro di Matos Rodríguez con il prezioso apporto di Firpo colpisce l’anima di chi ascolta”.

Quanto c’è di italiano nel tango “rioplatense”, cioè argentino e uruguaiano?

“Moltissimo. Da Piazzolla a Manzi, a Troilo c’è una tradizione di oriundi che furono valenti musicisti, autori, compositori (io stesso fui allievo dell’italiano Guido Santorsola radicato in Uruguay). Il tango non è “musica triste che si balla”. E’ musica amara, ma dignitosa, perché riflette la storia degli emigranti italiani e dei loro discendenti in Sudamerica. Il tango è dignità e malinconia. Come diceva un compositore americano “è la musica popolare più colta al mondo”.

(Intervista pubblicata su il Messaggero e tratta dal sito www.federicoguiglia.com)


Vi racconto le prime mosse di Emmanuel Macron

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sinistra, EMMANUEL MACRON

Tutti attendevano il giovane debuttante al varco. E lui, l’europeista Monsieur Macron, il nuovo presidente francese che gode di un consenso senza pari in patria, non li ha delusi. Al suo primo Consiglio ha battezzato la prima risposta dell’Unione dopo l’inizio delle trattative per la Brexit e il minacciato disimpegno di Trump con la “vecchia” Europa: all’unanimità i capi di Stato e di governo hanno dato il via libera alla tanto invocata, ma mai finora realizzata, difesa comune.

Non è poco, in epoca di terrorismo, prevedere una cooperazione militare contro le minacce e le crisi. Nasceranno battaglioni misti di reazione rapida con la divisa verde e l’emblema blu dell’Europa, così come centri di addestramento congiunto e di assistenza medica insieme. Solo un passo in avanti oppure una svolta “storica”, come già prospetta l’esordiente Macron, rappresentante -dopo l’uscita della Gran Bretagna- dell’unica nazione europea con diritto di veto all’Onu e con arsenale nucleare? Meglio essere prudenti. Troppe volte l’Europa sembrava pronta a sostenere il cambiamento naufragando nella retorica. E’ successo, del resto, anche ieri con un mare di belle parole spese da molti per l’Italia alle prese, da sola, col fenomeno delle migrazioni in Europa. Ma in questo caso nessuna unanimità ha suggellato il maggiore e consapevole impegno che il presidente del Consiglio, Gentiloni, pur reclamava. Ricreare fondi per l’Africa e condividere lo sforzo che l’Italia compie nel Mediterraneo non è meno importante dell’accordo che è stato invece trovato per smascherare i “combattenti” europei e la violenza in Rete a sostegno dell’autoproclamatosi Stato islamico. Aiutare e distribuire i migranti fra tutti i ventisette Stati non è meno rilevante della riaffermata volontà di affrontare compatti quei problemi dell’economia, del lavoro e delle banche che da tempo ci affliggono.

Con l’arrivo di Macron, l’addio dell’euroscettica Gran Bretagna e la sconfitta elettorale dei populismi a raffica (Austria, Olanda, Francia), l’Europa ha oggi una grande opportunità davanti a sé: rifondarsi, ritrovare quella dimensione umana e sociale di “comune destino” che la crisi economica prima e il fondamentalismo di matrice islamica poi hanno messo a grave rischio. Ma il tema della solidarietà fra Stati membri, specie a fronte del dramma universale dell’immigrazione, è prioritario per capire se la musica è cambiata davvero.

(Commento pubblicato sull’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Perché per me il vitalizio è un privilegio

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Matteo Richetti, Vitalizi

La lunga marcia è durata quattro anni, sei mesi e un giorno. Ma oggi, 15 settembre, i 608 maratoneti di tutti i colori politici e alla loro prima corsa tra Camera e Senato (sui 945 parlamentari più i cinque senatori a vita), arriveranno all’agognato traguardo: il vitalizio per tutti. Insieme hanno vinto. Ora potranno tornare a dividersi e a litigare su tutto il resto. L’obiettivo raggiunto è una pensione di fatto tra i 1.000 e 1.100 euro netti al mese, che Lorsignori potranno incassare a partire dai sessantacinque anni. Ma anche più sostanziosa e prima, la prebenda, per chi avesse altre legislature alle spalle o fosse rieletto: sessant’anni, ecco il nuovo limite minimo.

E’ una prospettiva meno oscena rispetto ai criteri da scandalo con cui il Parlamento s’è regolato i suoi privilegi per troppi anni. Ma ancora lontanissima dalla realtà di milioni di italiani per quantità di anni di lavoro necessari, come requisito, affinché scatti il diritto. Per l’età sempre più avanzata nel tempo in cui poter andare in pensione. E soprattutto per la diversità dei compiti. Lavorare per quarant’anni in miniera, a scuola, in un’impresa o nell’orbitante Stazione Spaziale, non è proprio la stessa cosa che rappresentare gli italiani nel luogo più sacro della Repubblica. Un onore, una missione, un servizio ai cittadini che già di per sé dovrebbero “appagare”: cosa c’è di più bello e nobile che l’essere eletti nel tempio della democrazia per contribuire in modo concreto – e giustamente ben retribuito -, al futuro della nazione?
Eppure, molti onorevoli non colgono l’indignazione dei cittadini. Cavalcata, invece, dai Cinque Stelle, che sul bollente tema hanno costruito buona parte della loro fortuna elettorale.

Lassù, nel lontano Palazzo, ancora non si comprende che il vitalizio è diventato l’insopportabile emblema della casta, che si fa e disfa la tela previdenziale come vuole. Anzi, se la fa e basta, perché il testo del deputato Richetti (Pd) già approvato alla Camera per cercare di equiparare i vitalizi tra ieri e domani, s’è arenato a Palazzo Madama. Un testo pasticciato, “a rischio di incostituzionalità”, come dicono i compiaciuti detrattori, che si dondolano sui cavilli e sul presunto attacco ai “diritti acquisiti”. Ma anche un pasticciaccio è meglio di niente, se imprime una svolta. Intanto, aggiorniamo pure quella vecchia, ma celebre canzone: se potessi avere, mille euro al mese…

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi ed è tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco gli ostacoli che dovrà superare Luigi Di Maio

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THE ITALIAN PUBLIC DEBT IN THE EUROZONE

 

“Andiamo a Palazzo Chigi e facciamo risorgere l’Italia”. Con un post su Facebook, come si conviene a un movimento politico che della Rete ha fatto il suo braccio comunicativo, Luigi Di Maio rompe gli indugi e si presenta quale primo candidato alle elezioni prossime, ma ancora da convocare (primavera 2018). Dovrà passare, certo, per le forche caudine delle primarie on line in nome dell’”uno vale uno” e fra le polemiche di chi già parla di regole ad personam. E perciò di vincitore annunciato, oltre che appoggiato da Beppe Grillo, il capo dietro e davanti alle quinte. Ma è innegabile che con Alessandro Di Battista detto Dibba, Di Maio sia il politico più popolare dei Cinque Stelle.

Solo il tempo, e naturalmente il voto, diranno se e quanto l’annuncio dell’aspirante candidato somigli al famoso e allora vittorioso “L’Italia è il Paese che amo” con cui Silvio Berlusconi annunciava -lui in tv; altra epoca, altro impero: il suo-, la “discesa in campo” il 26 gennaio 1994. Ma, nell’attesa, è chiara la svolta che il partito di Grillo intende compiere con questa scelta, dieci anni dopo l’irriverente apparizione nelle piazze d’Italia all’insegna dei “vaffa”. Vicepresidente della Camera, dunque con un ruolo istituzionale, sempre vestito in giacca e cravatta, con il trentunenne Di Maio, uomo del sud -di Avellino- che sa parlare al nord con idee anche radicali, ma con garbo, il partito di Grillo spera di “fare centro”. Nonostante l’inesperienza amministrativa e le gaffe storico-geografiche di Di Maio (confuse il Cile col Venezuela), che i suoi avversari si preparano a rinfacciargli. Nell’infuocata campagna elettorale che si preannuncia, non sarà sufficiente protestare contro la casta e invocare onestà: Di Maio dovrà anche destreggiarsi in economia, schierarsi in politica estera, spiegare agli italiani non quali siano i problemi, ma come si risolvano.

Se nei Cinque Stelle il dado è tratto, nel centro-sinistra è scontro tra chi apprezza e chi contesta Renzi (entrambe le fazioni con identico vigore). E nel centro-destra regna la rivalità fra Berlusconi e Salvini. Aspettano tutti l’esito del voto in Sicilia per trarre conclusioni sui competitori per Palazzo Chigi. Ma l’Italia è ormai tripolare. Ecco perché, a parte il già posizionato Di Maio ai nastri di partenza, la scelta dei nomi sarà decisiva per cercare di strappare un voto in più degli avversari e guadagnare la prima fila verso Roma. Dove, intanto, sta “correndo” Gentiloni, altro possibile aspirante che non alza la voce.

(Articolo pubblicato su Il Giornale di Vicenza e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Se Gentiloni porta gli sbarchi all’Onu

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Paolo Gentiloni

Se l’Europa non ci sente, proviamoci con l’Onu. E’ quel che ha fatto Paolo Gentiloni nel suo viaggio americano aprendo, davanti all’assemblea generale di New York, il capitolo delle migrazioni che l’oligarchia di Bruxelles sfoglia malvolentieri. Rivolgendosi all’organismo più universale che ci sia, il premier spera di richiamare il mondo sulla sottovalutata emergenza: “Proporre, chiedere, sollecitare le Nazioni Unite a tornare in forze in Libia”.

Si tratta di un intervento sempre più necessario, oltrepassando la miope moda dei muri, che piace a diversi Stati -dall’Austria all’Ungheria passando per la Francia- indifferenti o impauriti dalla tragedia africana dei popoli in movimento. Il punto è, invece, raggiungere una condivisione multilaterale delle responsabilità: Libia, una grande questione internazionale. Non sono un problema solo italiano i barconi nel Mediterraneo. Non riguarda soltanto la dirimpettaia Sicilia il fiume quotidiano di essere umani che da Tripoli, Bengasi e drammatici dintorni preme per straripare in Europa. Non è unicamente un nostro interesse nazionale la stabilità in Libia, la pace tra le fazioni, il rispetto dei diritti umani dei migranti, lasciati in balìa di aguzzini in terra ferma, prima ancora che degli scafisti in mare.

Dunque, è uno sforzo colossale e collettivo quello che Roma tenta di indicare all’Onu. Perché gli sbarchi possono certo diminuire ed essere meglio monitorati, come sta accadendo da quando l’Italia s’è data regole innovative per i soccorsi, pretendendone il pieno rispetto, e sancito nuove intese con le pur fragili autorità libiche. Ma il fenomeno di massa che dall’Africa si riversa verso l’Europa, indotto dalla speranza di migliorare condizioni disperate dell’esistenza, è inarrestabile. Nessun muro potrà impedire a gente mossa dalla fame, dalla miseria, dalla disumanità di regimi brutali e corrotti di cercarsi, a qualunque costo, una nuova via e una nuova vita salpando verso nord.

Ecco perché gli elogi di Emmanuel Macron e di Angela Merkel per il comportamento italiano esemplare sui migranti, specie se paragonato all’ignavia dei governi europei, non devono appagare nessuno. Al contrario, consapevoli del grande e solitario sacrificio che il Paese s’è sobbarcato, siamo i più legittimati ad esigere l’impegno dell’Onu. La Libia è vicina al mondo: questo si vede dall’Italia.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Come l’Italia deve incunearsi fra Germania e Francia

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VERTICE INTERGOVERNATIVO ITALO-FRANCESE

Se il voto tedesco rende Merkel, e perciò l’Europa, più debole e incerta, il forte appello di Macron a riscoprire una visione invece unitaria delle istituzioni nel continente, la rilancia. Ma allo stesso tempo certifica l’entrata in crisi dell’asse franco-tedesco: niente sarà più come prima, dopo le elezioni in Germania.

La svolta nazional-populista registrata nell’elettorato tedesco non avrà soltanto come conseguenza di far diventare meno scontata la nascita di un governo, del quale, a oggi, si sa solamente che toccherà a Frau Angela guidarlo per la quarta volta. Ma di nuovo con la Cdu/Csu-Spd, la paradossale “grande coalizione” degli sconfitti? O scopriremo la difficile novità della cosiddetta “coalizione Giamaica”, che imbarcherebbe i distinti e distanti, cioè Verdi e Liberali, con la Cdu?

Mentre la Germania s’interroga su come ritrovare la sua proverbiale stabilità, forse per una volta invidiando il fantasioso machiavellismo della politica italiana e delle sue formule, i francesi corrono ai ripari in anticipo. A Parigi si pronostica l’inevitabile annacquamento dell’europeismo fin qui mostrato da una Cancelliera che, da domani, dovrà inseguire gli elettori tedeschi in libera uscita verso la protesta anti-immigrati, euroscettica e pangermanica interpretata dall’estremismo alternativo dell’Afd.

E così Macron va subito in contropiede, prospettando l’Europa ambiziosa di un ministro unico delle finanze, di una difesa in comune, di un’immigrazione regolata insieme, anziché subìta dai singoli Stati. Idee che sono da tempo patrimonio italiano, come lo stesso Macron riconosce alla vigilia dell’incontro di oggi con Gentiloni.

E allora, se Parigi e Berlino prenderanno direzioni diverse, se Frau Merkel dovrà inasprire il suo rigorismo economico per accattivarsi i liberali e convertirsi alla durezza sull’immigrazione per accontentare i tedeschi preoccupati e impauriti che le hanno voltato le spalle, ecco che Roma ha una grande opportunità. Seguendo quella terza via euro-economica così ben incarnata da Mario Draghi a Francoforte – rigore e crescita non si escludono, ma si tengono per mano -, il governo italiano può infilarsi tra i prossimi separati in casa Merkel e Macron. Può condizionare l’uno e l’altra, può far valere il suo punto di vista senza essere il terzo incomodo. Gentiloni colga la nuova occasione di rendere più italiana quest’Europa che è già meno franco-tedesca.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa insegnano i casi Del Turco, Mastella, Raggi e Penati

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Del Turco

Anche se la giustizia “è uguale per tutti”, come ammonisce la scritta che campeggia nei tribunali, guai a giudicare in modo eguale l’esito di inchieste giudiziarie radicalmente diverse tra loro.

È quello che sta, invece, accadendo nel mondo politico, pronto a polemizzare all’unisono con i magistrati, se e quando le assoluzioni riguardano esponenti della propria area. Oppure, al contrario, a gongolare in maniera pronta, cieca e assoluta – per parafrasare il buon Guareschi -, quando le richieste di rinvio a giudizio colpiscono gli avversari. Non fa eccezione il caso di Virginia Raggi. Hanno chiesto il suo rinvio a giudizio per falso, e perciò gli oppositori del sindaco di Roma l’attaccano. Ma i Cinque Stelle la difendono, perché è stata richiesta l’archiviazione per l’ipotesi di abuso d’ufficio “dopo mesi di fango”. In contemporanea nel Lazio va in scena la polemica sul rinvio a giudizio per sedici ex consiglieri regionali del Pd per l’inchiesta “spese pazze”. Ma tutti, indistintamente, fanno valere il solito teorema: garantisti o giustizialisti a seconda, e a corrente alternata.

E allora bisogna oltrepassare l’inattendibile faziosità con cui la politica ormai da venticinque anni – da Mani Pulite, 1992, in poi -, interpreta le vicende giudiziarie, per constatare alcuni fatti che mortificano la ricerca della verità e il senso di giustizia da assicurare agli italiani.

Ben tre scandali che all’epoca contribuirono a far cadere un governo, un’amministrazione regionale e una classe dirigente, si sono sgonfiati. E’ successo con Mastella, ex ministro della Giustizia nell’esecutivo-Prodi, assolto dai presunti illeciti in nomine sanitarie e politiche dopo nove anni di processo. È successo con Del Turco, ex governatore dell’Abruzzo, assolto, sempre dopo nove anni, dal pesante reato associativo che ne aveva decapitato la giunta. E ora pronto a chiedere la revisione del processo per contestare la condanna residua per induzione indebita “rideterminata” in tre anni e undici mesi. È successo con Penati, ex presidente della Provincia di Milano e già sindaco di Sesto, con la confermata assoluzione in appello, sei anni dopo l’avvio dell’inchiesta che lo vedeva accusato per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Tre casi molto diversi tra loro. Ma tre indizi, si suol dire, rappresentano una prova. La prova che qualcosa di fondamentale non funziona nel sistema giudiziario/legislativo. E non solamente quando di mezzo ci vanno gli alti papaveri.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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