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Stranieri ai vertici dei musei italiani? Perché no?

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Il Paese più bello del mondo ha scelto di affidare agli stranieri la valorizzazione di alcuni dei suoi più celebrati musei pubblici. Provinciale esterofilia oppure investimento lungimirante sul patrimonio storico-artistico più vasto dell’umanità?

Solo il tempo dirà. Ma intanto la scelta d’aver assegnato sette delle venti direzioni dei principali “contenitori” di arte italiana a professionisti provenienti dall’estero è una sfida temeraria e necessaria, oltre che il frutto di una selezione da un concorso internazionale.

Ma la notizia non è che gli studiosi nominati (tre tedeschi, due austriaci, un britannico e un francese), possano avere un curriculum migliore o peggiore degli altri tredici italiani anch’essi prescelti, e quattro dei quali provenienti da importanti esperienze all’estero. Tutti, perciò, di spessore, italiani e stranieri. La novità è nel fatto che, per la prima volta, il concorso è stato aperto anche ai non dirigenti della pubblica amministrazione. E che i venti musei, finora retti quasi sempre da semplici funzionari, ora avranno un direttore di peso. E beneficeranno di autonomia finanziaria, nel senso che ciascuno dei nominati avrà un bilancio di cui dovrà rispondere nel bene e nel male, senza più dipendere dalle sovrintendenze. E, infine, che i venti prescelti avranno quattro anni di tempo per farci vedere di che cosa sono capaci.

Se è eccessivo parlare di “svolta”, come ha fatto il ministro Dario Franceschini difendendo la sua decisione (così come eccede Vittorio Sgarbi, per il quale la scelta di Franceschini “umilia i nostri”), l’esperimento può però diventare una scossa per l’intero e paludato sistema. Quei sette stranieri portano una sensibilità differente, esperienze e conoscenze distinte e distanti dalle nostre, un approccio comunque innovativo.

E’ un’opportunità per l’Italia, allora, un po’ di aria fresca per cambiare abitudini. Per denunciare gli scempi, l’indifferenza, la mancanza di civismo e di visione che spesso sono stati l’incrocio mortale fra una politica miope e un’ottusa burocrazia. Sette marziani estranei a quel mondo.

Se poi l’esperimento darà buoni frutti, perché non estenderlo al governo? Forse un ministro francese agli Esteri avrebbe evitato la vergogna dei due marò sequestrati in India da tre anni e mezzo. E un ministro tedesco alla Giustizia riuscirebbe, chissà, ad applicare la certezza della pena. E uno spagnolo al Turismo magari saprebbe come farci tornare in cima per numero di visitatori.

Passi pure lo straniero, se e quando ama l’Italia più degli stessi e a volte distratti italiani.

f.guiglia@tiscali.it  



I miei 18 anni di cure e segreti con la mummia del Similaun

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Eduard Egarter Vigl

Questa intervista è stata pubblicata sul Messaggero

E’ il 19 settembre 1991, ore 13.30. A 3.210 metri d’altezza sul confine fra l’Italia e l’Austria due turisti tedeschi fanno la più grande scoperta archeologica del secolo senza rendersene conto: trovano il corpo dell’”uomo venuto dal ghiaccio”, come sarebbe stato battezzato. O uomo del Similaun, dal nome della montagna altoatesina vicina al ritrovamento. Una delle mummie più antiche dell’universo, che gli austriaci, i primi ad averla accudita per sei anni, chiamano Ötzi. Quest’uomo visse tra il 3350 e il 3100 a.C. Aveva 45 anni, era alto 1,60, pesava cinquanta chili e portava i capelli scuri, lunghi e ondulati. Aveva la barba. Ma per appena 92 metri e mezzo l’uomo del Similaun giaceva in territorio italiano. E perciò dopo l’inevitabile braccio di ferro, dal 1997 lui è tornato a casa, in Italia, dove riposa nel Museo archeologico di Bolzano.

E allora nessuno meglio dell’altoatesino Eduard Egarter Vigl, 66 anni, già a lungo primario ospedaliero di anatomia patologica e medicina legale a Bolzano e attuale direttore scientifico della Claudiana (struttura universitaria della sanità), conosce la seconda, lunga vita della mummia del Similaun. Da diciott’anni è il responsabile della cura e della conservazione. Più che un medico personale ne è diventato l’amico e custode d’ogni segreto.

Come sta l’uomo venuto dal ghiaccio?
Si trova in una cella frigorifera al Museo archeologico di Bolzano, struttura che è il frutto di un ventennio di sperimentazioni. Un processo empirico che subisce modifiche continue quando la tecnologia ci dà qualche nuova possibilità. E quando la mummia, che stranamente non è sempre stabile, ma cambia, lo richiede.

Di che soffre l’illustre paziente?
Di due “malattie”. La prima è l’ossidazione. Sta in un ambiente aerato. Sappiamo che l’aria che respiriamo ha il 25 per cento di ossigeno, che è un gas molto aggressivo: attacca tutti i composti organici e li ossida. Non è l’ideale per una mummia che deve mantenersi per generazioni. L’altro rischio è la disidratazione. La mummia è una cosiddetta mummia umida. Significa che nei tessuti, al contrario di quanto non manifestino, per esempio, le mummie egizie, che sono secche, c’è una certa quota di acqua. Il che permette al campo sperimentale di riattivare dei composti chimici organici e studiarli meglio.

Che fa per “tenerla in vita”?
Per cinquemila anni l’uomo è stato conservato nella neve e nel ghiacciaio: che cosa possiamo fare meglio noi della natura, che l’ha mantenuto così a lungo? L’unica cosa è creargli un ambiente sterile attorno. Eliminare i batteri, i funghi, i parassiti, tutti gli inquinamenti che, al di fuori di un ambiente protetto, lo intaccherebbero. Filtriamo l’aria della cella e tre volte all’anno sottoponiamo la mummia a profondi test micro-biologici.

I controlli dal medico, come quelli che fa ognuno di noi…
Sono controlli di due livelli. Quello più basso avviene ogni settimana. Io dedico mezz’ora a guardare il sistema della registrazione del colore. Determinati punti della mummia sono illuminati con una luce artificiale ad onda lunga fissa e la luce riflessa viene registrata e analizzata per capire se ci sono cambiamenti. E poi il livello alto dei tre test.

Che cosa la colpì quando la vide per la prima volta?
L’integrità del corpo. Professionalmente sono abituato a vedere i morti, anche quelli non proprio recenti. Ma non mi era mai capitato prima, neanche vedendo i cadaveri dei soldati della Grande Guerra che i ghiacciai restituiscono quando si ritirano. Mi colpì molto anche il volto espressivo. Ha il naso schiacciato e il labbro piegato in giù, ma gli occhi ci sono e si vedono. Un’espressione viva.

Di che colore sono?
Occhi blu. Ma le analisi genetiche dicono che in origine l’iride fosse marrone: c’è stata una trasformazione del colore nell’arco degli anni.

La scoperta più importante o sorprendente di questa lunga convivenza?
La scoperta casuale della freccia sulla spalla sinistra. Quando il corpo fu trasferito da Innsbruck a Bolzano scoppiarono grosse polemiche politiche. Gli austriaci non volevano, i movimenti oltranzisti della destra dicevano “questo è un tirolese, deve rimanere qui, che ci fa in Italia?, gli italiani poi lo portano a Roma” e così via. Ma i patti erano chiari. Il ritrovamento era stato definito in territorio italiano. “Vedrete, fra tre mesi ce lo restituiranno perché non riescono a conservarlo”, ironizzava la stampa austriaca. Anche quando vennero pubblicati i primi risultati scientifici dei team italiani o altoatesini o anche misti con partecipazione locale i commenti non erano lusinghieri. Ma noi mantenemmo tutti gli impegni presi dagli austriaci anche con gli studiosi americani. E proprio in un’occasione del genere abbiamo scoperto, con una particolare radiografia, che una punta di freccia aveva colpito la mummia sulla spalla sinistra. Abbiamo scoperto noi la causa della sua morte! Per me questa è stata una grande soddisfazione e un po’ una bella ripicca di fronte alle critiche ricevute”.

Ma quest’uomo millenario che lavoro faceva?
Non lavorava manualmente. Viveva nel periodo di passaggio tra la società dei cacciatori-raccoglitori e quella agricola. Era muscoloso e ben fornito, ma aveva le mani da pianista, non certo da uno che utilizzasse le pale.

E’ vissuto cinquemila anni: quanto potrà vivere ancora?
La conservazione attuale permette un mantenimento in buone condizioni per moltissimi decenni.

L’uomo aveva sessantun tatuaggi sul corpo, quasi come un calciatore d’oggi…
In realtà sono tatuaggi di tipo sanitario e poco ornamentali. Fatti con polveri di carbone che, immesse nel tessuto, provocano reazioni infiammatorie superficiali, ma alleviano il dolore profondo.

C’è chi parla di maledizione: otto persone che hanno avuto a che fare con la mummia sono morte. Normale statistica o meglio essere scaramantici?
No comment. Ma ogni cinque anni faccio un check-up medico. Se poi esco per strada e una macchina mi mette sotto…

Le capita mai di parlare al suo fedele paziente?
Nei lunghi periodi di solitudine in due non credo di avergli parlato. Anche se non posso averne l’assoluta certezza… Lui ha uno sguardo espressivo, ma quegli occhi fissi nascondono anche una certa vena di cattiveria. E talvolta mi viene da chiedergli: ma che vita hai vissuto, quali patemi hai sofferto, e quali preoccupazioni, e gioie?

Se la mummia si risvegliasse, che cosa direbbe oggi?
Sarebbe sopraffatta dal mondo contemporaneo. Chiederebbe di tornare a dormire per sempre.

C’è un ultimo, grande mistero che non ha ancora risolto?
Una volta all’anno io salgo sul punto del ritrovamento, in autunno, quando le baite chiudono, c’è calma e i pensieri possono vagare. E sempre mi chiedo: ma che cosa è venuto a fare quassù? Il posto, a 3.200 metri, è formato da un piccolo canalone con pareti di pietra alte sette, otto metri sul lato posteriore. Sul lato anteriore la valle è molto ripida con abissi. Si ha una visione molto bella e ampia della valle della Tisa e del lago artificiale di Vernago. A sinistra c’è la grande montagna del Similaun, 3.500 metri, a destra la punta del Finail, di fronte la catena dell’Ortles-Cevedale. Certo, all’epoca il clima era diverso, faceva un po’ più caldo e in altitudine c’era maggiore vegetazione. Ma lassù non c’è nulla. Regna la più completa solitudine. Che ci faceva quest’uomo con le mani da pianista, colpito a morte dalla freccia? Questo è il grande mistero.


Come prosegue la guerra totale di Isis al mondo libero

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 Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Hanno usato il bulldozer come un bazooka per radere al suolo il monastero di Mar Elian, uno dei centri cattolici più importanti della Siria: risaliva al V secolo d.C. Un altro sfregio dell’Isis al patrimonio storico-artistico dell’umanità. Un altro scempio che il sedicente Stato islamico ha prontamente filmato e fotografato per rivendicare la sua guerra totale al mondo libero. Sangue e simboli, nulla è lasciato al caso dai barbari del terzo millennio.

Eppure, quanto più alta diventa la sfida dell’orrore, tanto più s’acquieta la reazione delle coscienze. Come se ci fossimo tutti assuefatti alla violenza che sale di distruzione in distruzione, perfino di decapitazione in decapitazione. C’è un paradosso che fa rabbrividire, perché rivela quanto sia profondo il sonno da terrorismo. E’ il paradosso di Cecil, come non ricordare?

Cecil era il nome di quel bel leone dalla criniera nera, simbolo protetto dello Zimbabwe, che con proterva e stupida crudeltà un cacciatore americano ha prima ucciso e poi sgozzato, curandosi perfino di farsi fotografare col “trofeo”.  Del dentista Walter James Palmer, reo confesso dell’atto, si sono subito perse le tracce. E’ stato costretto alla fuga, perché la gente s’è mobilitata fin sotto il suo studio per contestarlo, mentre lo Zimbabwe ne richiedeva l’estradizione. E il tam-tam dell’universo lo additava come un mostro. L’uomo è stato colpito dall’indignazione generale ovunque.

Qualche giorno fa un archeologo ottantaduenne di nome Khaled al Assad, per cinquant’anni custode delle rovine romane di Palmira in Siria, è stato anche lui ucciso e decapitato. Anche lui poi appeso a una colonna come un trofeo. E anche lui era un simbolo: il responsabile di un patrimonio tutelato dall’Unesco. Come per Cecil, pure di Khaled si conosce l’assassino, perché l’Isis decapita e se ne vanta. Ma per l’archeologo torturato da vivo e profanato da morto la rivolta del mondo non c’è stata. A parte l’omaggio delle istituzioni d’arte, nessuna folla sotto le finestre dei governi per invocare “giustizia per Khaled”. E poi: se il dentista americano è un mostro che ha ucciso un animale, come definire gli animali che hanno ucciso un essere umano? Il destino dell’archeologo non ha indignato la coscienza collettiva quanto la fine del leone Cecil. Coscienze selettive, annebbiate, a corrente alternata, le nostre. Anche il più elementare senso di umanità sembra anestetizzato dai nuovi barbari.

f.guiglia@tiscali.it

www.federicoguiglia.com


Come governare in Europa l’esodo dei profughi

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Pensavano e soprattutto speravano che il dramma dei migranti fosse un affare interno italiano o, al massimo, anche greco: roba da mediterranei. Credevano che, elargendo un po’ di soldi, le nostre autorità si sarebbero accontentate di quelle miserabili briciole.

E dicevano: paghiamo e collaboriamo anche con le navi, per carità. Ma non un solo straniero salvato dal mare, assistito a terra o trasportato in volo finisca nei nostri Paesi. Tuttavia, la realtà è ostinata, e prima o poi s’incarica di smentire l’ottusa miopia di chi non vuol vedere, sentire e meno che mai parlare di quelle migliaia di persone, in particolare profughi, pronti a rischiare la vita propria e dei propri familiari pur di ripararsi nella vecchia ma ancora attraente Europa.

Ma l’aggiungi un posto a tavola, purché non sia la tavola di casa mia, sta barcollando sotto gli occhi delle telecamere e dell’ormai impotente polizia macedone, che non può più usare i manganelli, come purtroppo ha usato, per proteggere i suoi confini dal passaggio di un esercito di disperati verso la Serbia e ovunque.

Due o trecento persone alla volta, specialmente anziani, donne e bambini provenienti dalla Siria, ma anche dall’Iraq e dal Pakistan. Gente affamata che si muove per sopravvivere, non certo spinta dalla volontà di “invadere” né “rubare il lavoro” a chicchessia. La via Balcanica dei fatti, non le opinioni a vanvera di Bruxelles. Ora anche l’Europa a trazione tedesca ed egoismo britannico, adesso anche i perplessi spagnoli e gli spigolosi francesi capiscono -grazie a quel che sta succedendo nella piccola Macedonia- che il grido di dolore dell’Italia non era un capriccio della nazione che per prima stava vivendo sulla sua pelle e sulle sue coste la tragedia degli sbarchi. E che ancora la vive, come testimonia il salvataggio di altre cinquemila persone provenienti dalla Libia nelle ultime ore. “Viva l’Italia!”, ringraziava così questa povera gente.

L’evidenza conferma che avevamo ragione noi, quando chiedevamo ai ventotto Paesi dell’Unione di condividere lo sforzo di solidarietà. Perché soltanto dividendo i migranti fra tutti l’emergenza può essere affrontata con umanità e rigore per chi arriva e per chi accoglie. Soltanto unita nella solidarietà l’Europa può prepararsi a far fronte all’esodo – perché di esodo si tratta – dei prossimi mesi e anni.

E’ chiaro che mai si potrà consolare tutto il dolore del mondo. Ma lenirne l’attuale fase acuta, significa porre le premesse per la ricetta politica del futuro: che fare nel tempo per aiutare i migranti a non emigrare, per punire i criminali che li sfruttano nei traffici, per integrare le quote ragionevoli di persone che ogni nazione può integrare. Qui Macedonia, avamposto dell’Europa che non voleva vedere.

(Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi)


A Palagonia è stato ferito il cuore dell’Italia

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Da noi, si sa, finisce sempre tutto in politica, e perciò in rissa. Ma il fatto è più forte di qualunque polemica, drammatico e innegabile come si presenta: un diciottenne proveniente dalla Costa d’Avorio e accolto con tutto il calore della Sicilia come profugo, è ora accusato d’aver sgozzato un anziano pensionato nella sua casa di Palagonia, provincia di Catania, e d’aver buttato giù dal balcone la moglie in un tentativo di rapina in piena notte. Adesso chi glielo spiega ai figli della povera coppia di innocenti, una vita di lavoro per godersi gli ultimi anni in serenità, perché mamma e papà sono morti in quel modo orribile?

Mamadou Kamara, l’accusato del doppio e brutale omicidio forse con complici, viveva in un centro con tanti migranti veri e tranquilli: quale istituzione può oggi illustrare ai cittadini che cosa fa per distinguere ogni giorno la marea della sofferenza dall’impietosa criminalità? C’è poco da illudersi. Un simile delitto colpisce al cuore il pur grande cuore d’Italia.

Anche l’atto eroico e quasi contemporaneo di quel cittadino ucraino, Anatolij Korol, ammazzato per aver cercato di sventare una rapina in un supermercato nel Napoletano, rischia d’essere dimenticato in fretta di fronte alla crescente sensazione d’insicurezza che tanti italiani associano alle porte aperte, all’incapacità – più europea che non italiana – di coordinare e condividere i salvataggi, all’idea di un Paese-colabrodo dove chiunque può entrare e fare quello che vuole.

Solo una politica solidale ma rigorosa col fenomeno dei profughi può rasserenare la paura dilagante, che fa dire a molti (e il leghista Matteo Salvini subito salta sul carro) che è “colpa dello Stato”. Così non è, ma non è certo colpa dei cittadini se essi si sentono impauriti e indifesi fin dentro casa loro.

A Bruxelles già si chiedono regole comuni per i profughi. “L’Italia va aiutata”, ha finalmente capito Angela Merkel, che sollecita l’Europa a distribuire in modo equo i rifugiati, pena la rimessa in discussione degli accordi di Schengen che abolirono i controlli alle frontiere. La “sveglia” suonata dalla Merkel segnala che siamo all’ora X: più cooperazione nell’Unione e massima sicurezza in Italia.

Accoglienza e rigore, le due facce della stessa medaglia. Per esorcizzare la paura della gente non basta la guerra delle parole. E’ lo Stato che deve reagire con atti e fatti per restituire agli italiani il diritto di vivere in pace dopo aver assolto il dovere di tante vite salvate.

f.guiglia@tiscali.it      

Parole e gesti di Papa Francesco che scuotono la Chiesa

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PAPA FRANCESCO JORGE MARIA BERGOGLIO

Per tre lunghi secoli s’era fatto sempre così. Ma con parole, gesti e soprattutto decisioni questo Papa sta dimostrando che tradizione è anche rivoluzione. E allora in materia di matrimonio la Chiesa cambia procedure per continuare a trasmettere i suoi valori. A cominciare dal valore più grande, l’amore, che per chi crede dev’essere suggellato dalle nozze davanti a Dio. D’ora in poi anche la Sacra Rota dovrà mutare rotta: processi gratuiti e più rapidi – basterà una sola sentenza esecutiva-  con un ruolo più incisivo per il vescovo e adesso gran decisore. Invece per trecento anni s’era abituato a delegare agli uffici di curia la funzione giudiziaria sul tema.

Tutto più semplice, veloce e alla portata non solo dei Vip, ecco l’effetto concreto della novità pur richiesta dai vescovi nei Sinodi del 2005 e del 2014, ma fatta propria, e subito, da Francesco. Una riforma che accorcia tempi e costi con l’obiettivo di consentire ai coniugi coinvolti di rifarsi una vita quanto prima e al meglio, perché l’amore è un percorso di sogni che non può avere ostacoli. Ancora una volta e con piccole, grandi scosse il Papa mette il suo mattoncino per rendere la Chiesa sempre meno centro di potere – compreso quello di far aspettare degli anni per l’annullamento di un matrimonio -, e sempre più luogo naturale di apertura agli altri.

Come avvenuto con la recente e vibrante sollecitazione di Francesco rivolta a “ogni parrocchia e santuario d’Europa” ad accogliere una famiglia di rifugiati, scavalcando curie e sorprendendo parroci, e dando lui per primo l’esempio, “incominciando dalla mia diocesi di Roma”, come ha detto e fatto. Non è difficile capire che al centro della svolta matrimoniale, così come dell’incessante appello ad aiutare i migranti scolpito fin dall’inizio del suo insediamento col viaggio simbolico a Lampedusa, il Papa voglia mettere i disagiati, i non protetti, i poveri. Tutti coloro che credono nella sacralità del matrimonio, a prescindere dal ceto sociale di appartenenza. Una Sacra Rota che si adegua ai tempi per contribuire a risolvere presto e senza troppi cavilli i problemi di tanta gente.

Ma la Chiesa che tende la mano ai divorziandi, è proprio una scelta che Francesco associa da tempo a una moderna attenzione per la famiglia e all’antico concetto di misericordia, non per caso il fulcro del Giubileo straordinario del prossimo 8 dicembre. A San Pietro tutto o molto cambia, e non per lasciare le cose come stanno. I credenti vengono prima della stessa curia, trecento anni dopo.

Federico Guiglia

(articolo tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi)


Le racchettate della destra a Renzi per le feste a Pennetta e Vinci mi rattristano

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Solo una politica che a forza di vedere sempre nemici da abbattere è accecata dalla propria faziosità, può polemizzare con un presidente del Consiglio quando fa la cosa giusta: volare a New York per portare l’omaggio della nazione a due donne pugliesi che rappresentano il sacrificio, il talento e l’orgoglio dell’Italia che vince nell’universo. Flavia Pennetta e Roberta Vinci, che bella favola.

Per la prima volta nella storia internazionale del tennis due italiane nella finale all’aperto di uno dei quattro tornei – detti Grande Slam – più importanti di tutti. E le “nostre” ragazze non sono figlie di nessuno, come troppo spesso è accaduto ai campioni non solo sportivi del passato, quando le istituzioni snobbavano gli appuntamenti con il successo dell’italianità all’estero. Stavolta ad applaudire e gioire in tribuna c’è il capo del governo italiano, Matteo Renzi.

Esattamente come fece l’indimenticabile “nonno” Sandro Pertini quando, al Mondiale di Madrid nell’82, dal palco ufficiale sventolava felice la sua pipa per la vittoria degli Azzurri in finale con la Germania. E tutti noi a saltare in allegria per le strade con lui, presidente della Repubblica che ebbe la sensibilità, istituzionale e popolare, d’essere presente in modo giusto al momento giusto. Quant’è triste, allora, vedere rappresentanti di ciò che un tempo si chiamava “destra” oggi caricare a testa bassa contro una scelta impeccabile di chi per la circostanza rappresenta né più né meno che il sentimento di tutti gli italiani.

Un atto di riconoscenza per due ragazze, Roberta e Flavia, che sono arrivate a quel traguardo storico dopo aver sconfitto nientemeno che le numero uno e due del mondo rispettivamente. Chi conosce il valore invincibile della condivisione dovrebbe spronare il premier per la ragione opposta: vada più spesso per il mondo, se questo significa appoggiare l’imprenditoria del made in Italy, la moda, il cibo e il bel canto tricolori, l’Italia dello spazio, della fisica e della cultura, da Samantha Cristoforetti a Fabiola Gianotti, da Muti a Sorrentino, alla Ferrari, a Valentino il motociclista e Valentino lo stilista.

“Campioni” che alzano il nostro sguardo dalle miserie della politica casalinga, dagli scandali di mafie e ruberie, dal molto che non funziona. Quando i partiti capiranno che la nazione vale più della fazione, e che anche i gesti servono per distinguere il senso dello Stato dall’indifferenza del Palazzo, nessuno noterà più un presidente del Consiglio che ha fatto solo il suo dovere andando a New York.

Federico Guiglia

(articolo tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi)

(foto: Tiberio Barchielli)


Un Senato fuori dal mondo

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GRASSO DUE ANNI PONTIFICATO DEL PAPA IN CAMPIDOGLIO_48_resize_resize

A fronte di quel che sta avvenendo ogni giorno nel mondo, molti cittadini faticano a comprendere quel che sta invece avvenendo nel Senato della Repubblica, diventato l’ultimo fortino del “qui la va o la spacca” dei partiti.

Da una parte c’è la maggioranza che intende portare a casa la riforma della Costituzione in terza lettura, il penultimo atto perché diventi legge dello Stato (dovrà poi tornare alla Camera per il voto finale).

Dall’altra si muovono non solo l’intera opposizione, ma anche l’opposizione che nel Pd contesta il testo voluto da Matteo Renzi. Non, dunque, un corpo a corpo legislativo per i profughi che si riversano su un’Europa disunita, per l’economia che non decolla col vigore da tutti reclamato, per l’Isis che estende la sua barbarie nell’indifferenza generale.

La politica si sta radicalmente dividendo e contrapponendo su un tema del quale, oltretutto, l’ultima parola sarà affidata agli italiani. I quali saranno chiamati a ratificare o respingere la nascita del nuovo Senato e le modifiche costituzionali oggetto del focoso contendere. E come accaduto in passato, non avranno difficoltà a bocciare la riforma, se così riterranno, perché gli italiani avranno molti difetti, ma non sono nati ieri.

Invece in queste ore è tutto un via-vai di minoranza del Pd che abbandona il confronto casalingo, di maggioranza che allora vuole andare subito in aula per votare, di opposizioni che calcolano (o sperano) che alla fine non ci saranno i numeri, e perciò la riforma, il governo e soprattutto Renzi il decisionista rischieranno d’entrare in crisi.

Tutto ruota intorno all’articolo 2, che prevede d’indicazione e non più l’elezione dei futuri senatori da parte dei Consigli regionali. Ma nella contesa ognuno porta l’acqua al suo mulino, per esempio Forza Italia chiede di rivedere l’appena approvata legge elettorale. Con ogni evidenza non può essere il contenuto della riforma di per sé a produrre dissensi tanto forti, visto che il provvedimento è da mesi all’esame dei due rami del Parlamento, e la madre di tutte le battaglie poteva essere combattuta già nelle precedenti votazioni.

Sull’onda di quel che non piace, la minoranza Pd va alla resa dei conti con Renzi. E riesce difficile immaginare che tale rottura resterà senza conseguenze, qualunque esito sarà. Perché se la riforma passa, chi s’è opposto non potrà dire che stava scherzando. Se non passa, sarà lo stesso Renzi a non poter considerare l’incidente una marachella dei suoi.

Il nodo è venuto al pettine in un Senato che sembra fuori dal mondo.

Federico Guiglia

(articolo tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi)



Vita e morte nella Caienna, vecchia colonia penale d’Italia

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All’orizzonte già si vedono le colline e i canneti, e la sabbia bianca su un mare sempre più smeraldo. Incatenati nella stiva, i condannati vengono liberati per salire, uno alla volta e con la palla al piede, sul ponte della motonave. Laggiù c’è cala Sinzias, l’approdo prescelto a sudest della Sardegna, dopo che un ingegnere civile per tre mesi ha perlustrato la zona a cavallo. “Tutti sulla zattera!”, ordinano le guardie, una decina di uomini armati di moschetto ma indifesi, tanto sono spaesati. E i trenta ergastolani si mettono così ai remi per sbarcare coi loro vigilanti su una costa deserta, la sera dell’11 agosto 1875.

A guidare il primo manipolo di guardie e detenuti, c’è un audace di quarantaquattro anni, che tutti chiamano cavaliere, Eugenio Cicognani. E’ l’autore di un progetto così folle che per cinque anni è rimasto nei cassetti ministeriali di Roma, da poco diventata capitale dell’Italia unita. “La valle del diavolo”, chiamano quel luogo invivibile alla prova di un’idea visionaria: dar vita a una prigione aperta, pagando i carcerati per il lavoro compiuto. E prevedendo l’istruzione per gli analfabeti e un mestiere per tutti. Persino calcolando una pensione a fine pena; ammesso che la pena finisse mai.

L’iniziativa degna di un Indiana Jones dell’Ottocento doveva essere realizzata in un posto abbandonato da quasi quattro secoli. L’avventuriero Cicognani era chiamato col suo piccolo esercito di buoni e cattivi a risanare chilometri di campagna, costruendo e piantando una Colonia Penale a Castiadas come un fortino senza assediati. Perché la peste del 1500 e l’eterna malaria avevano decimato la popolazione, costringendo i pochi sopravvissuti a scappare. Castiadas dimenticata e riconquistata, Castiadas per sempre il luogo del delitto e del riscatto.

Per ottant’anni, dal 1876 al 1956, quel varco aperto a colpi di remi e forse di sogni da pionieri separati tra loro solo dal colore della divisa, ha fatto passare più di trentaseimila detenuti, che hanno innalzato la più grande Colonia Penale d’Italia. “La piccola Caienna”, la definivano i francesi con invidia per quei reclusi che non dormivano in cella, ma in ampie camerate, per l’attività agricola, artigianale, commerciale che svolgevano all’aria aperta, per lo stile umbertino e classico della costruzione, per il rapporto che si instaurava tra controllori e controllati. Ricorda Anna Palita, coordinatrice del Museo sorto nella Colonia e appassionata studiosa degli eventi: “Francesco Pezzuoli, l’ultimo direttore dal 1938, rimasto vedovo in un luogo per soli uomini, affidò il figlio piccolo alle cure di un condannato per matricidio”.

Il progetto del riscatto, dunque, funzionava. Qui ai primi del Novecento arrivò per scontare e cominciare la sua mistica conversione Alessandro Serenelli, l’omicida dell’undicenne Maria Goretti, diventata santa per aver resistito al tentativo di stupro al costo della vita. Qui negli anni Trenta veniva per andare a caccia Mussolini (e immancabilmente affacciarsi al balcone della struttura). Ma venivano spediti anche oppositori al regime, che finivano nelle celle di rigore su letti di marmo o di contenzione. Tuttavia, l’originario e mai venuto meno scopo della Colonia erano i reclusi che guidavano trattori e producevano formaggio, che avevano rifinito il legno di frassino utilizzato negli aerei di Francesco Baracca, l’eroe della prima guerra mondiale. Ottant’anni di storia, detenuti e guardie che vivevano e a volte morivano insieme, come capitò soprattutto agli inizi, quando la malaria uccise in un sol giorno cinquantuno condannati.

Lavoravano tutti con la palla al piede, da uno a tre chili da trascinare a seconda della pena inflitta. Fino al regio decreto del 1902 che l’abolì. Una Colonia di lavori forzati non priva di regole. Nell’orario della buonanotte, tra le 21 e le 6 del mattino, era vietato parlarsi dai letti a castello dello stanzone. Se qualcuno trasgrediva, le prime due volte scattava l’ammonimento. Alla terza disubbidienza il cartellino rosso prevedeva una settimana a pane e acqua in una delle ventisei celle di punizione sbarrate e senza sole. Una sola rivolta si registrò tra i milleduecento prigionieri distribuiti fra il corpo centrale e una dozzina di diramazioni, e cinque furono le guardie uccise.

Nessuno però ricorda il perché della sollevazione in un’isola impossibile per le fughe e poco conosciuta dai non sardi, la grande maggioranza dei detenuti. E poi la terribile “cella segreta”, un buco nelle viscere dell’ospedale – c’era anche un ospedale – edificato accanto alla Colonia. Dove si poteva morire lentamente, annegati dall’acqua che cadeva dall’alto e saliva anche da un pozzo centrale fino al mento dei reclusi. Fu usata per rinchiudere sette pluriomicidi e ribelli campani, e venne murata dopo che l’unico superstite “ripescato” in tempo dalle guardie, ebbe il coraggio di denunciarne l’esistenza a un cronista dell’Unione Sarda.

Che cosa resta di quegli ottant’anni della piccola, grande Caienna? Restano due prossimi anniversari, i 140 anni dalla nascita e i sessanta dalla chiusura. Resta il toponimo “Costa Rei”, la costa dei colpevoli, come oggi si chiama il territorio mèta spensierata di un turismo universale. In una sera d’agosto vide sbarcare un cavaliere, dieci guardie col moschetto e trenta uomini con la palla al piede. Dovevano bonificare per espiare. Erano gli eredi della solitudine.

Federico Guiglia

(articolo tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

(Articolo pubblicato sul Messaggero)


Perché i musei sono vanno tutelati dal sindacalismo estremo

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colosseo

Che per una parte del vecchio sindacato e della sinistra più ideologica il mondo debba girare ancora alla rovescia, lo conferma un’ipotesi surreale: il ventilato sciopero generale contro l’idea che anche lo sciopero, come ogni atto della politica sociale, vada ragionevolmente regolamentato. Eppure, accade anche questo nel Paese col più vasto patrimonio storico-artistico dell’umanità che finalmente, dopo quarantun anni dall’istituzione del ministero dei Beni culturali nel 1974 (primo titolare ne fu il repubblicano e uomo colto Giovanni Spadolini), s’accorge che ha un dovere di fronte all’universo, oltre che alle generazioni degli italiani che sono stati e che verranno: dare futuro alla memoria.

Fare di Pompei, del Colosseo, della Torre di Pisa, dell’Arena di Verona e di tutta la straordinaria bellezza di cui siamo circondati un tesoro così speciale, da associarlo a un bene pubblico di cui mai si potrà fare a meno, proprio come la scuola, il trasporto, l’ospedale. Sì, i custodi dell’arte alla stregua di professori, di autisti, di chirurghi, cioè di persone “essenziali” per la nostra formazione, per il nostro lavoro, per la nostra stessa vita.

Se si comprende questo – ma il governo col decreto-legge approvato e gran parte del Paese con l’indignazione non ancora passata l’hanno compreso -, non potrà mai esserci difficoltà a indire un’assemblea o a fare uno sciopero. Perché il problema da risolvere sarà sul come agire senza che l’azione arrechi danno a chi utilizza il servizio e al buon nome dell’Italia, depositaria di tanta ricchezza anche per conto di chi viene da lontano, di chi paga, di chi vi si innamora pur di vederla almeno una volta nella vita.

Si tratta di conciliare l’insopprimibile diritto a “dire di no” dei lavoratori con l’irrinunciabile dovere di aprire ogni Colosseo d’Italia per amore di se stessi e degli altri, per l’indotto economico che produce, perché in tutto il resto dell’universo così si fa. Stupisce, perciò, lo stupore di chi arzigogola sulle “norme sempre rispettate”, sulle “comunicazioni date in tempo”, sull’”unico modo per farsi sentire” e quant’altro è stato detto in queste ore per giustificare l’ingiustificabile, cioè che i visitatori del mondo debbano rispondere – loro – per i nostri conflitti casalinghi.

Nessuno contesta la legittimità di chi fa assemblea per salvaguardare i propri diritti. Ma tale azione dev’essere rivolta al datore di lavoro, al dirigente del servizio, non deve colpire gli innocenti che fanno la fila. Non può punire persone del tutto estranee alla contesa. Nel Paese di Machiavelli non mancano certo la fantasia giuridica e la responsabilità politica per tutelare sempre il diritto di sciopero e anche il valore dell’Italia nel mondo.

Federico Guiglia

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa fare in Irak contro Isis

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Roberta Pinotti

E’ solo un’ipotesi, ha precisato la Difesa, ma può rappresentare una svolta: i Tornado italiani pronti a partecipare, su richiesta di Bagdad e d’intesa con gli alleati, al bombardamento contro l’autoproclamatosi Stato islamico in territorio iracheno. Ma tanto basta perché si scateni la polemica politica. Anche se toccherà proprio al Parlamento l’ultima parola al riguardo.

In realtà è da molti mesi che anche l’Italia condivide le finalità della coalizione di Paesi (quasi una sessantina, oggi), impegnati a vario titolo per fermare l’avanti tutta dell’Isis fra l’Iraq e la Siria. Si tratta di una coalizione voluta dagli Stati Uniti e benedetta dalle vittime della violenza armata senza precedenti -per crudeltà usata e rivendicata-, nella storia più recente dell’umanità. E allora, per batterla, c’è chi partecipa ad attacchi aerei (da agosto) e chi fornisce munizioni contro i nuovi barbari. C’è chi aiuta i curdi e gli iracheni a difendersi e chi insegna loro come farlo. E poi c’è la Russia, che bombarda posizioni Isis in Siria.

Ma al di là dei molti propositi e dei numerosi avvertimenti lanciati dai governi del mondo libero per dire che il fanatismo sanguinario non passerà, è di tutta evidenza che la situazione sia grave e complicata. L’espansione dell’Isis continua, con l’aggravante che, non appena i suoi militanti conquistano pezzi di territorio e sottomettono popolazioni inermi, si curano anche di sradicare tutto quel che trovano. Non solo estirpando con la tortura la parvenza di un pensiero, di un sentimento, di una fede differenti nelle popolazioni incontrate, ma persino distruggendo le preziose e antiche testimonianze storiche della diversità. Persone e cose, come insegna la drammatica ed emblematica vicenda di Palmira, dove il terrorismo assolutista non ha avuto remore, poche settimane fa, né di uccidere e decapitare Khaled el Assad, l’archeologo ottantaduenne che per cinquant’anni custodì quelle rovine romane in Siria, né di radere al suolo (notizia di ieri) anche un arco di trionfo che risaliva a duemila anni fa (Guarda il video). Ammazzano, distruggono e se ne vantano.

Non occorrono, dunque, esperti di geopolitica o di strategia politico-militare per capire ciò che i cittadini d’ogni nazione e continente hanno da tempo capito: che qui sono in gioco valori intoccabili. Il senso stesso della vita, l’umanità e l’umanesimo, il rispetto elementare per gli altri, l’amore per la cultura e per la memoria, l’appartenenza comune a un mondo di libertà e di differenze. Tutto ciò che potrà fare la coalizione di Stati veri contro lo Stato sedicente, in accordo con i richiedenti oppressi e secondo le procedure sovrane e democratiche di ciascun ordinamento, sarà come esercitare un diritto all’autodifesa dalla brutalità dilagante. In nome di chi sta già subendo la violenza, in nome di chi non intende subirla né oggi né mai.

Come tutti gli altri, e con l’auspico del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di una “collaborazione di tutti”, anche l’Italia è ora chiamata a prendersi le sue responsabilità, contribuendo a un’iniziativa di liberazione internazionale nelle forme e nei modi che il Parlamento riterrà più opportuni. Ma ricordando che oggi non è in ballo la guerra: è in ballo la pace.

(articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Il calcio è davvero il gioco più bello del mondo?

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Diritti tv calcio

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com

Ma chi l’ha detto che il calcio è il gioco più bello del mondo? A smontare la leggenda dello sport più popolare del pianeta arriva ora uno studio, il maggiore finora compiuto, che rivela l’inimmaginabile: dei nostri beniamini della domenica (e d’ogni giorno, ormai, fra campionati nazionali e coppe internazionali), almeno uno su tre è un idolo depresso.

Incredibile, ma vero, stando alla ricerca del sindacato mondiale dei calciatori fatta su 826 giocatori ed ex di undici Paesi presi in esame, esattamente come gli undici calciatori di una squadra. La ricerca non ha però coinvolto l’Italia, il Brasile e la Germania, che pure vantano le Nazionali con più Mondiali vinti: chissà, allora, se ci siamo salvati in calcio d’angolo dall’ansia repressa e scoperta.

Noi li vediamo, i giovani campioni, esultare sul campo a suon di gol e con magliette subito sfilate ed esibite come un trofeo. Li vediamo rincorrere il pallone e i sogni della loro e della nostra infanzia. Li vediamo litigare con gli avversari, con l’arbitro, con chiunque osi ostacolare l’aspirazione della squadra, che è una sola, sempre: vincere e non partecipare, in barba a quel che credeva il barone De Coubertin, troppo aristocratico per cogliere la rivincita dei giocatori del popolo allo stadio, e delle moltitudini acclamanti sugli spalti.

Eppure, non è qui la festa. Nonostante la gioia di aver fatto del divertimento il lavoro della propria vita, malgrado la barca di soldi e di fama guadagnati, alla faccia dei mille-baci-mille mandati tramite telecamere durante le partire a mamme, mogli, amanti e la dolce vita che molti dei calciatori ostentano oltre le porte di casa e non solo dello stadio, un terzo di loro soffre di stress. Troppa pressione, troppi su e giù fra trionfi e sconfitte, troppi ribaltoni tra l’essere l’eroe della settimana e il colpevole della batosta subìta: non perdonano, i tifosi che ti portano sull’altare.

Purtroppo non esiste un sindacato mondiale a cui affidare uno studio analogo su che cosa possano mai provare milioni di semplici ragazzi, italiani e del mondo, senza lavoro neanche come raccattapalle. E che cosa sentano le donne e gli uomini che il lavoro lo perdono a cinquant’anni. E cosa pensino gli imprenditori e i lavoratori per i quali non si mobilitano né la tv né i tifosi. Saranno anch’essi un po’ stressati, oltre che in bolletta? Chi si preoccuperà dei loro sogni infranti, del loro talento calpestato, dei bellissimi gol coi quali potrebbero riempire di palloni non un campo d’erba, ma la Terra intera, se solo avessero l’opportunità di poter tirare in porta?


Brugnaro, Franceschini e Klimt

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LUIGI BRUGNARO

Se era solo uno scherzo, come in cuor suo spera il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, il sindaco di Venezia ha colpito nel segno: mezza Italia è lì che discute o se la ride. Ma il problema è che la battuta del primo cittadino Luigi Brugnaro arriva in un momento e in un contesto tutt’altro che divertenti.

E allora la sua idea di vendere un celebre e bellissimo quadro, la Giuditta II di Klimt, per risanare i conti della città più suggestiva al mondo, rischia di diventare un paradosso molto serio, anziché una bizzarria da bar sport: offrire per sempre i capolavori d’arte al miglior acquirente per far funzionare ogni giorno i servizi rivolti ai cittadini. Buttare in Laguna Klimt per salvare il bilancio che fa acqua di Venezia. Ma è giusto ipotizzare il principio che si possa fare a meno di un dipinto magari per tenere aperto, col denaro ricavato, il museo che l’espone? Può un’amministrazione pubblica, ma pur sempre e soltanto comunale, disfarsi di un patrimonio che “appartiene” a tutti gli italiani, e in buona parte anche all’universo, trattandosi di opere dal valore senza confini? Non sarà per caso una risposta un po’ troppo spicciola all’altrettanto celebre e miope “con la cultura non si mangia”, pronunciato in altri tempi di vacche sempre magre da un ex ministro dell’Economia? Risposta che forse oggi vuole dimostrare l’opposto: che con gli “schei” della cultura messa all’asta, un tanto al quadro, si può far vivere la propria città.

Siamo seri: della provocazione del sindaco di Venezia si prenda il lato incoraggiante, ossia spingere lo Stato e i privati a organizzarsi insieme e con lungimiranza per fare del “museo Italia”, come il mondo percepisce la nostra Penisola, un’industria di bellezza e di turismo in grado di dare quattrini alle amministrazioni e benefici ai cittadini. Perciò la soluzione non può essere il Klimt a chi tira fuori i soldi. Al contrario, semmai è quella di togliere dagli scantinati i capolavori ovunque colpevolmente chiusi a chiave, di spolverarli ed esporli al pubblico, di trarre da queste e altre iniziative il denaro a vantaggio dei Comuni che si sono dimostrati all’altezza della svolta.

La ricchezza di un tesoro non è mai data dalla sua vendita. Un tesoro vale quando gli occhi del mondo pagano per guardarlo, fotografarlo, raccontarlo agli altri, creando un amore a catena che tiene ancora oggi in vita – vita vera – i Canaletto, i Tiziano, i Tintoretto, i Tiepolo oltre al più contemporaneo Klimt chiamato in causa a sua insaputa. Se ben gestite, l’arte e la cultura non sono mai un costo: sono un investimento.

Questo commento è stato pubblicato su Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi ed è tratto da www.federicoguiglia.com


Italiani si nasce e si diventa

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Ma italiani si nasce o si diventa? Come si fa, nel mondo delle tante identità, a riconoscere un italiano? L’eleganza nel vestire? La simpatia nel rapporto umano? L’allegra malinconia nel canto? Un certo saper vivere tra buon cibo, Colossei in vista e tutte quelle strade dell’universo e dell’animo che continuano a portare a Roma?

Per la prima volta il legislatore ha dato una risposta moderna all’antica domanda: italiani si nasce e si diventa. La Camera ha approvato un testo che valorizza le due cose insieme, “inventandosi” una felice mescolanza fra tre diritti, uno più bello dell’altro. I diritti dei padri, della storia e della geografia. Quattro figli di Garibaldi erano italiani pur nati a diecimila chilometri dall’Italia, in Brasile e in Uruguay: il dolce tesoro della memoria. La generazione-Balotelli è italiana pur nata in Italia da genitori stranieri: la tenera potenza delle radici. Ma con questo provvedimento sarà italiano anche chi arriverà nella Penisola da bambino, imparando a scuola chi furono Leopardi e Leonardo, e chi sono oggi e domani i suoi compagni di classe e di giochi (oltre all’immancabile squadra del cuore): la forza invincibile della cultura. Memoria, radici e cultura sono i tre ingredienti che impastano un sentimento che si chiama patria. Ora ciascuno potrà scegliere i suoi ingredienti tricolori, frutto delle circostanze della vita, della famiglia, del caso. E potrà riflettere: perché un Mario Balotelli deve sentirsi meno italiano dell’Umberto Bossi che italiano non si sente?

Forse inconsapevoli, comunque meritevoli, i deputati che hanno votato il testo ora all’esame del Senato tra virgole, cavilli e polemiche hanno tuttavia decretato che c’è un modo riconoscibile per “essere italiani”: amare l’Italia. Anche quando non si parla italiano, ancora, come capita ai figli di italiani nati all’estero e ai figli di stranieri nati o cresciuti in Italia da genitori che non conoscono la nostra lingua. Ma l’Italia per amore è una scelta che prescinde dall’anagrafe, dall’origine familiare, dai viaggi che in un dato momento dell’esistenza ti portano per sempre nel “bel paese là dove ’l sì suona”. Per sempre risiedendovi o coltivandolo nel cuore, come succede quando si compie un ciclo scolastico e mai si dimenticherà la patria adottiva o di nascita, ovunque ci si trovi a vivere e a ricordarla. Accordare la cittadinanza italiana ai bambini nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri, e dopo un percorso di regolare soggiorno o di studi, non è soltanto un atto di civiltà. E’ il più forte e lungimirante investimento nell’identità italiana che solo una nazione dalla vocazione universale come l’Italia poteva e doveva finalmente compiere. Oggi la cittadinanza non è un formale né casuale pezzo di carta. E’ il riconoscimento di quello che sei e desideri. E’ il passaporto dei tuoi sogni e delle tue sofferenze. E’ il tuo “selfie”.

E’ la libertà di poter dire, come molti potranno presto dire, “sì, sono orgogliosamente italiano”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Senato e cittadinanza, l’Italia prova a voltare pagina

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MATTEO RENZI PIETRO GRASSO

Il caso ha voluto che il Senato e la Camera abbiano approvato quasi in contemporanea due testi molto diversi tra loro, ma accomunati da un’evidenza che va al di là di qualunque polemica: sono testi che cambiano l’Italia. E la cambiano in modo profondo e duraturo. Nel primo caso si tratta di un altro passo legislativo verso una nuova Costituzione, che non solo modificherà l’ordinamento dello Stato, ma che manderà in soffitta l’anacronistico e mastodontico bicameralismo di deputati e senatori costretti a fare le stesse cose con leggi che andavano su e giù, come in un’altalena senza fine, fra i due rami del Parlamento.

A Montecitorio la novità approvata è simbolicamente perfino maggiore della riforma costituzionale che le opposizioni hanno duramente contrastato, ma sulla quale, non appena sarà approvata in modo definitivo, toccherà al popolo italiano esprimersi con un referendum.

La simbolica e concreta novità riguarda il provvedimento che riconosce l’esistenza dei “nuovi italiani”: bambini nati o cresciuti in Italia, ma figli di stranieri. Bambini che ora potranno diventare ciò che, nei fatti, già sono, ossia italiani. Non con la bacchetta della demagogia né con la retorica del buonismo, ma dopo un ragionevole numero di anni di soggiorno dei loro genitori o dopo aver frequentato un ciclo continuato di scuole italiane.

S’introduce, così, un principio di svolta: un domani potrà essere cittadino italiano, chi avrà dimostrato d’amare l’Italia. D’amarla, perché è nato qui. Perché è qui regolarissimo da cinque anni con la famiglia. Perché studia, gioca, tifa e canta in italiano e con coetanei italiani. Perché è lontano discendente di italiani: posto che il vigente ius sanguinis non sarà abolito, ma arricchito dallo ius soli e dallo ius culturae, cioè dal diritto che sgorga dal territorio in cui si vive e dalla cultura che s’impara.

Anche questa nuova cittadinanza, come la riforma del Senato, si presta alle critiche, tutte legittime, anche se non tutte fondate. E’ evidente, per esempio, che abolire il Senato-fotocopia sarebbe stato più semplice e lineare che non ridurlo in termini di componenti (da 315 a 100) e con funzioni diverse ma pasticciate, e all’insegna di un regionalismo fallito.

Così come il testo sulla nuova cittadinanza appare prudente, frutto anch’esso di un compromesso tra chi voleva la luna e chi vorrebbe considerare un milione di ragazzi figli di stranieri alla stregua di marziani. Ma pur con molti limiti e non poche contraddizioni, l’Italia prova a voltare pagina.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com



Chi giochicchia con la Legge di Stabilità

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MATTEO RENZIPIER CARLO PADOAN

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com

Delle molte sorprese che sempre nasconde ogni legge di Stabilità, come viene oggi chiamata la tradizionale manovra economica del governo, quella delle 22 mila sale giochi – ora scese a 15 mila – previste da un bando inserito fra i commi del testo è la più “azzardata”, letteralmente. Puntare, infatti, sul gioco d’azzardo come leva per contribuire all’auspicata crescita che ci faccia uscire a riveder le stelle dopo una crisi lunga per tutti, e per molti pure drammatica, significa a un tempo andare sul sicuro e rischiare.

Andare sul sicuro, perché non occorre ricordare il giro d’affari che proviene da questo settore, paradossalmente tanto più frequentato dagli italiani quanto maggiori per loro sono le difficoltà del presente: quasi 85 miliardi di euro sono stati spesi solo nel 2014, e scusate se è poco. Ma il rischio discende proprio dall’idea di affidarsi alla dea Fortuna per risollevarsi. Dal contesto di illegalità che troppo spesso ruota attorno a questo pianeta del divertimento, ma anche della disperazione.

Dalla sensazione che basti un colpo di bacchetta magica, per risolvere i problemi accumulati nella vita. Come se l’occasionale buona sorte, che purtroppo per tanta gente si trasforma nell’ossessivo e debitorio tentativo di conquistarla, potesse sostituire il sacrificio del lavoro e perfino l’impegno a cercarlo quando non c’è o non c’è più. Non è un caso che istituzioni, associazioni e personalità in prima fila come don Luigi Ciotti si battano da tempo contro il miraggio del gioco facile, che non è mai sinonimo di guadagno facile. Ed è quantomeno curioso che lo Stato, lungi dal tenersi perlomeno fuori dalla contesa se sia giusto o sbagliato solleticare la fortuna con tanti punti-giochi sparsi lungo la Penisola, ne diventi in qualche modo il metaforico biscazziere.

Perché qui in ballo non ci sono soltanto numeri e conti, che ogni governo ha il dovere di risanare a beneficio dei cittadini di oggi e dei loro figli di domani. Qui c’è anche l’indicazione che la strada della scommessa è percorribile come quella del lavoro, che l’avventura è paragonabile all’intraprendenza, che in fondo si sta solo giocando: mentre per molti così non è, perché spesso si crea uno stato di dipendenza. Nessuno auspica lo Stato etico: non spetta ai governanti insegnarci come vivere. Però gli esempi che vengano dall’alto, le “buone leggi”, la scelta fra un modo per rilanciare l’economia o un altro sono l’unico “azzardo” che si esige dalla classe dirigente.


La vera novità del Sinodo

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Papa Francesco Sinodo 2014 Pizzi (74)

Per un soffio, e quel soffio sembra quasi il vento lieve di papa Francesco, che cerca, solitariamente, di spingere la Chiesa a camminare con passo più svelto nel mondo che cambia. Per un soffio soltanto, dunque, cioè appena un voto sopra il quorum richiesto, il Sinodo dei vescovi ha approvato la possibilità di dare la comunione ai divorziati, delegandone la decisione ai pastori che potranno e dovranno discernere caso per caso. “Discernere”, cioè distinguere, è il verbo che già si associa all’esito dei lavori durati tre settimane e preceduti non solo dai continui stimoli del Papa, ma pure da un sinodo preparatorio, un concistoro e persino sondaggi popolari per capire gli umori del popolo cattolico sulla famiglia, il grande tema del confronto. La relazione finale è stata votata da una maggioranza di due terzi. Un percorso condiviso che è fatto di differenze fra vescovi conservatori e riformisti, ma che non lascia sul campo né vincitori né vinti. Apertura sui sacramenti (non era scontato) e chiusura sulle unioni omosessuali, ribadendo che il matrimonio è fra uomo e donna. Nessuna concessione su questo, se non l’aiuto offerto dalla Chiesa. Inoltre il documento indica la tolleranza zero su abusi e pedofilia.

Chi si aspettava la rivoluzione, specialmente per come il sinodo s’è svolto fra segreti, veleni e perfino la notizia-bomba, ma infondata del Papa visitato da un oncologo giapponese per un supposto tumore benigno al cervello, resterà deluso: la Chiesa bimillenaria non ha rimesso in discussione la sua visione sulla modernità. Meno che mai i suoi valori che nessuno, tantomeno il Papa, chiedeva di rivedere.

Ma lo spiraglio concreto che si è aperto sull’antica questione del dare o no la comunione a chi viene meno all’impegno, davanti a Dio, di una vita in comune “nella buona e nella cattiva sorte”, questione che per i credenti rappresenta uno degli atti simbolicamente più importanti della propria religione e della propria vita, è una novità prudente (“caso per caso”), eppur di rilievo. Non per niente Francesco, sempre pronto a dire pane al pane, ha commentato con soddisfazione l’esito del sinodo, dicendo che i veri difensori della dottrina “non sono quelli che difendono la lettera, ma lo spirito, non le idee, ma l’uomo, non le formule, ma la gratuità dell’amore di Dio e del suo perdono”. Par di capire che il vento nuovo si sia fatto sentire, senza sconvolgimenti, com’è nella storia della Chiesa. E quel sofferto voto di maggioranza sulla comunione ai divorziati ne è la più attuale testimonianza.

(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

 


Come si insegna al Politecnico di Milano?

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politecnico

Non era mai successo che un folto gruppo di docenti, ben centoventisei, inviasse una lettera al presidente della Repubblica per denunciare l’abolizione della lingua italiana nell’insegnamento specialistico di un’Università pubblica in Italia. Ma la prima volta coincide con l’inaugurazione dell’anno accademico al Politecnico di Milano, che ieri ha visto la partecipazione di Sergio Mattarella. Con l’occasione a lui i professori firmatari hanno rivolto un appello forte e amaro: “Un esempio evidente del deficit democratico di cui soffre oggi l’Università è costituito, per quanto specificamente riguarda il Politecnico di Milano, dalla questione dell’esclusione dell’italiano come lingua d’insegnamento nelle lauree magistrali”.

Riesplode, così, una polemica culturale e civile che era stata sepolta sotto un cumulo di cavilli, essendo il caso del Politecnico di Milano arrivato all’esame della Corte Costituzionale, dove ancora, letteralmente, giace: è lecito che nell’insegnamento pubblico, pagato dai contribuenti italiani, si decida di buttare nel cestino delle lingue rifiutate la lingua ufficiale della Repubblica, la lingua degli italiani da più di mille anni e dello Stato italiano dal 1861?

La battaglia ingaggiata dai docenti contro le delibere con cui nel 2011 il Senato accademico introduceva l’insegnamento dell’inglese non più come alternativa, ma come esclusiva rispetto all’italiano nelle lauree magistrali e nei dottorati di ricerca si gioca intorno a una congiunzione: “anche”. Una legge del 2010 prevede che i corsi di studio possano essere svolti “anche” in lingua straniera. Con un’ordinanza nel gennaio di quest’anno il Consiglio di Stato ha chiesto alla Consulta come va interpretato il pur chiaro riferimento. Forse la parola “anche” può significare qualcos’altro che non sia aggiungere, sommare, arricchire, e non certo cassare o eliminare? Un’opportunità, non un’esclusione. Tanto chiaro è il riferimento che la precedente sentenza del Tar della Lombardia aveva demolito la scelta del Politecnico di sostituire l’italiano con l’inglese. D’altronde, è lo stesso Consiglio di Stato, sezione VI, dove il ricorso era approdato per l’ultima parola, ad aver ricordato nell’ordinanza che la giurisprudenza della Corte Costituzionale “da tempo ha affermato che la Costituzione conferma per implicito che il nostro sistema riconosce l’italiano come unica lingua ufficiale”. E ancora: “La Corte ha ribadito che la consacrazione della lingua italiana quale lingua ufficiale della Repubblica non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale delle diverse disposizioni che prevedono l’uso delle lingue minoritarie, evitando che esse possano essere intese come alternativa alla lingua italiana o comunque tali da porre in posizione marginale la lingua ufficiale della Repubblica; e ciò anche al di là delle pur numerose disposizioni specifiche che affermano espressamente nei singoli settori il primato della lingua italiana”. “Se quindi -concludeva il Consiglio di Stato- questa è la scala dei valori, che pur in presenza di una specifica norma di rango costituzionale a tutela di una diversa lingua pone quella italiana in posizione di supremazia, tanto più tale criterio deve valere nei confronti di una lingua straniera”.

Ma l’appello dei docenti al Quirinale solleva una vicenda ben oltre la giurisprudenza consolidata. Il Politecnico sostiene che la sua scelta, autonoma e formativa, vada nella direzione dell’”internazionalizzazione degli atenei”. Ed è proprio questo ciò che i professori contestano, che il Politecnico confonda l’universo col provincialismo. Contestano che, per aprirsi al mondo, gli italiani siano costretti a rinunciare all’italiano in Italia, mentre all’estero la lingua di Dante è la quinta e spesso quarta lingua straniera più studiata. Nessuna Università francese, spagnola o tedesca abolirebbe la propria lingua come se non servisse più. Meno che mai tra ingegneri e architetti nella patria di Leonardo e Galileo, di Marconi e Fermi, di Segrè, Rubbia e Giacconi, italiani di mondo e non di provincia.

Commento pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Cosa può insegnare l’Expo al Giubileo

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CENTRALE DI CONTROLLO E SORVEGLIANZA EXPO 2015

Quando l’ultimo bullone fu avvitato proprio alla vigilia dell’inaugurazione, addirittura nella mezzanotte che la precedeva, nessuno ci credeva. Nessuno credeva che l’Esposizione Universale a Milano, per tutti più familiarmente “Expo”, si sarebbe conclusa con un successo mondiale per il nostro Paese. “L’Italia unita ha vinto la sfida”, può ben dire, adesso, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a fronte dei quasi ventidue milioni di visitatori in sei mesi, delle decine di Paesi e capi di Stato o di governo coinvolti nell’evento, del tema così antico da apparire moderno: come nutrire il pianeta, che è il segreto per dare energia alla vita.

Ma la regola dell’approccio “italiano” alle cose non perdona mai: sempre al novantesimo e a mezzanotte, sempre inseguiti dalla previsione che no, che stavolta sarà impossibile farcela. Eppure, quando meno te l’aspetti, quando tutto (scandali, cortei, bastian contrari per partito preso) lascia presagire il fallimento, ecco che gli italiani si rimboccano le maniche e vanno oltre ogni polemica per dare, semplicemente, il meglio di sé.

Nel caso dell’Expo l’eccellenza è stata condotta con l’intraprendenza in stile milanese e condita con la laboriosità in salsa lombarda: poche parole e tanta fatica, niente vittimismo e molte idee per colpire nel segno alla grande, e per lasciarlo. C’è, dunque, un “modello Milano”? Certo che sì. E’ il modello di quell’Italia che non si scoraggia, che non bussa alle porte del Palazzo, che non ha altro obiettivo comune se non quello di riuscire: perché è bello vincere insieme, è bello che un presidente della Repubblica possa oggi dire “orgoglio italiano”.

Esemplare, il modello Milano, anche per il Giubileo a Roma, che è in pieno conto alla rovescia, con la maggior parte dei cantieri per aria, senza sindaco né governo in Campidoglio, ma con un commissario, Paolo Tronca, fresco di nomina e di successo dell’Expo, essendo stato prefetto di Milano fino a ieri. La capitale morale può insegnare diverse cose alla capitale politica sfiduciata e deturpata come forse mai in passato: che le istituzioni devono pedalare forte e nella stessa direzione. Che la politica “scandalosa” deve restare fuori. Che la sicurezza dev’essere massima, ma discreta. E il controllo sulle opere e sull’organizzazione dell’evento ferreo e trasparente: meglio prevenire che curare. La staffetta fra Milano e Roma è già partita, ora è solo il momento di lavorare, lavorare e lavorare. Ma anche l’ultimo bullone del Giubileo -si può scommetterlo-, sarà fissato solo a mezzanotte.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Pablo Atchugarry, l’artista italo-uruguaiano del marmo di Carrara

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Quando ai banchi di scuola dell’Uruguay, in America del Sud, si studiava l’Europa, la maestra divideva i Paesi del continente per gruppo di allievi. “A me toccò l’Italia. Mio padre cercò un po’ di documentazione per aiutarmi. E così mi trovai a parlare, dodicenne, del marmo di Carrara e del Lago di Como. Quel marmo sarebbe diventato la fonte primaria del mio lavoro, e Lecco la mia casa in Italia da più di trent’anni…”.

C’è un destino anche nella scultura, sicuramente nella vita da viaggio e nella mano lieve di Pablo Atchugarry, nato a Montevideo sessantun anni fa, nonna ligure e bisnonna lombarda e ora “artista privilegiato”, come dice di sé con felice umiltà.

“Sono cresciuto professionalmente in Italia, dove risiede il più vasto patrimonio storico-artistico dell’umanità e la bellezza fa parte integrante dell’esistenza e del paesaggio”, racconta. “E poi quaranta delle mie opere sono oggi esposte a Roma, capitale della cultura universale, proprio nella cornice evocativa dei Mercati di Traiano al Museo dei Fori imperiali. Quando mi affaccio a guardarle, giuro, mi emoziono. E’ come se il mio lavoro non sia stato trasportato qui con una gru di duecento tonnellate, che da via Alessandrina sollevava e collocava opere anche di 7.500 chili. Mi sembra, invece, che le mie sculture appartengano a questo luogo. Come se l’”Illuminazione”, il primo lavoro del 1979 o “Le tre grazie” del 1999 fossero nate e rimaste qui da sempre”.

L’artista italo-uruguaiano ha un catalogo in due volumi con 1800 opere (la maggior parte delle quali create in Italia) e decine di mostre realizzate in tante parti del mondo americano ed europeo. “Salvando le distanze, il mio percorso ricorda un po’ quello di Lucio Fontana, nato a Rosario, in Argentina, dove nella seconda metà degli anni Quaranta scrisse il celebre “Manifesto bianco”, ma considerato italiano perché qui maturò la sua arte”.

Ma ricorrere al marmo nell’epoca virtuale e fuggitiva di internet è una scelta controcorrente oppure nostalgia del tempo antico che fu? Lui la vede così: “Molti sostengono che il marmo non sia un linguaggio attuale. Ma il marmo è un linguaggio che dura. Tutta la storia dell’umanità si basa su ciò che raccogliamo dal nostro passato. Forse nel mio caso è una scelta inconsapevole per l’antico, anche se non mi ero mai interrogato su questo. Ho ben presente il periodo greco, arcaico e classico, l’arte degli etruschi e dei romani e la folgorazione che mi provocò Michelangelo quando ammirai i suoi capolavori dal vivo per la prima volta. Io ho scelto un linguaggio eterno rispetto a un’arte contemporanea che spesso fa prevalere l’effimero”.

Resta l’irrisolta distinzione di che cosa si possa, ancor oggi, esprimere col marmo che non si possa con la pittura o la scrittura. Atchugarry riparte da lontano: “Da bambino disegnavo e pitturavo già a otto anni. Ma chi osservava le mie cose, mi diceva: adesso sei pronto per la terza dimensione, quella della profondità e dello spazio. Passai, allora, al cemento e al legno per costruire le prime cose. Finché scoprii il bronzo e soprattutto il marmo di Carrara, la svolta. Più è bianco, più è puro, meno altri minerali vi sono intervenuti. E’ un marmo molto compatto, si possono creare cose fini. E poi raccoglie la luce in un modo molto particolare, il che è decisivo per uno scultore. Un marmo così chiaro e luminoso, consente quei chiaroscuri che, con altri materiali, sarebbero impossibili”.

Percorrendo l’esposizione colpiscono soprattutto due cose, fra le altre: la verticalità delle creazioni e una certa serenità nelle raffigurazioni, spesso femminili. Perché uno scultore sceglie di scolpire “verso l’alto”?

“Nelle mie opere la figura femminile è molto importante”, sottolinea lui. “La considero l’autentico sostegno dell’umanità, specie in questo mondo di orrori e di rancori. Io ripropongo il valore dell’armonia, dell’equilibrio, della bellezza che davvero -aveva ragione Dostoevskij-, può salvare il mondo. Evoco l’alto, perché c’è qualcosa al di là. Una trascendenza, la vita e la morte che si appartengono e uniscono. Come gli esseri umani, i quali consegnano la propria unicità a qualcosa di più grande”.

Città eterna, eterni marmi è il titolo della mostra in corso fino al 3 febbraio. Eppure, neanche i marmi o le pietre sono “eterni”, come hanno purtroppo dimostrato i terroristi dell’Isis, distruggendo le rovine della romana Palmira, in Siria…“L’uomo è capace di costruire grandi cose e anche di abbatterle”, osserva Atchugarry. “Ma il marmo “parla” per un tempo prolungato. Le mie sculture sono come quei messaggi in bottiglia buttati in mare. Il messaggio di vivere in armonia con l’universo. Forse una bottiglia arriverà. E se arriva, ne sono certo, resterà per sempre”.

Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito  www.federicoguiglia.com

 


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