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Ma il governo che fa se un governatore ammaina il Tricolore?

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ARNO KOMPATSCHER PRESIDENTE PROVINCIA AUTONOMA BOLZANO

Questo commento è stato pubblicato sul quotidiano Il Messaggero

Può un “governatore” della Repubblica italiana rifiutarsi di esporre il Tricolore? E può rifiutarsi di farlo, se glielo chiede espressamente il governo nazionale come atto di omaggio alla memoria dei milioni di giovani italiani che cent’anni fa entravano in guerra, la Grande Guerra, molti di loro (seicentomila) senza più tornare a casa? E molti altri, almeno un milione, rimasti feriti o mutilati in quell’immane conflitto che segnerà la fine dell’impero austro-ungarico e la nascita di un’Italia indipendente e unita?

L’interrogativo sembra grottesco: figurarsi se nel 2015, nell’Europa che da settant’anni è finalmente in pace con se stessa dopo una seconda e altrettanto tragica guerra mondiale, un presidente di Regione può arrivare a considerare la bandiera nazionale come un simbolo da evitare. Da tenere ben chiuso nel cassetto, addirittura, anziché far ondeggiare con la dolcezza del vento e dell’amore -nient’altro che amore- che quello sventolio intende comunicare.

Eppure, il giovane e pur promettente di un “nuovo corso” presidente della giunta provinciale di Bolzano, Arno Kompatscher, ha risposto picche a Palazzo Chigi: lui lassù, nell’Alto Adige che regala ogni genere di campione sportivo contento d’avvolgersi nel Tricolore quando vince (dalla pattinatrice Carolina Kostner ad Armin Zoeggeler, il re dello slittino, dalla tennista Karin Knapp allo sciatore Christof Innerhofer), la bandiera dei tre colori il 24 maggio non l’ha esibita. E il suo omologo a Trento, Ugo Rossi, l’ha esposta solo a mezz’asta, “in segno di rispetto per i popoli dell’Euregio”. Trento, la terra di Cesare Battisti, la terra per la cui libertà s’è battuta un’intera generazione: forse il “rispetto per l’Italia” è secondario?

“L’indicazione di Roma di ricordare in questo modo l’inizio del conflitto è incomprensibile e sbagliata”, ha spiegato Arno Kompatscher. “Avremmo invece volentieri seguito un eventuale invito a mettere le bandiere a mezz’asta, che sarebbe stato il modo giusto per ricordare le vittime di questa tragedia”. Ma il tono bonario usato o l’argomentazione quasi offensiva che pretenderebbe di trasformare in lutto collettivo il giorno di pur dolorosa liberazione per l’Italia -perché sancì l’inizio della definitiva riscossa della nazione dai suoi padroni asburgici, e al costo della vita per moltissimi e giovanissimi italiani-, sono solo un alibi. Che sorprende in chi, come Kompatscher, ha fatto anche l’alpino nel servizio di leva, ma che purtroppo s’inserisce nella tradizione istituzionale di ostentata indifferenza ai simboli dell’Italia inaugurata dal predecessore Luis Durnwalder. Il quale fu l’unico governatore d’Italia che si rifiutò di partecipare alle cerimonie dell’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per i centocinquant’anni dell’unità nazionale. Con motivazioni pretestuose che almeno Kompatscher ha avuto il buon gusto di non ripetere.

Ma cent’anni dopo, e settanta dall’accordo De Gasperi-Gruber che ha costruito pace e ricchezza nell’intero Trentino-Alto Adige, coltivando anche il sentimento di nuove generazioni di ragazzi tirolesi che, come i loro campioni nello sport, si riconoscono sia nella lingua tedesca che nel Tricolore, il no di Kompatscher e il “ni” di Rossi, simbolicamente quasi peggiore, suonano molto male. Onorare il Tricolore, almeno una volta ogni cent’anni come oggi, è il minimo che una Repubblica libera e democratica debba attendersi dai suoi “governatori”. E il rifiuto della bandiera è un pessimo esempio per il futuro della memoria.

f.guiglia@tiscali.it



Blatter, il vero impresentabile rieletto

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FIFA President Blatter addresses a news conference in Zurich

Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Solo l’avvilente rielezione di Joseph Blatter a presidente della Fifa, il vertice del calcio mondiale sconvolto da scandali e arresti, può oscurare l’ultima e violenta polemica politica esplosa in Italia a poche ore dal voto di domenica. Tutto nasce dall’elenco di sedici “impresentabili” alle imminenti elezioni che la commissione Antimafia ha deciso di segnalare per bocca e forse per iniziativa personale (anche questo è oggetto dello scontro furibondo) del suo presidente Rosy Bindi. E’ una specie di lista nera delle liste, con i nomi dei candidati che hanno guai in corso con la magistratura. Ma il bersaglio numero uno, perché è il più noto e perché aspira a diventare governatore della Campania, si chiama Vincenzo De Luca. Che è del Pd esattamente come la Bindi. Ma renziano è il primo quanto anti-renziana la seconda. E tanto basta perché soprattutto in quel partito, ma non solo, si scateni uno scontro con ogni genere d’accusa: dalla “vendetta di corrente”, ai “processi di piazza”, alla “barbarie”, alla richiesta di “dimissioni” per la Bindi.

“Abbiamo solo fatto il nostro dovere”, lei si difende, citando il codice deontologico approvato dalla commissione. “La vera impresentabile è la Bindi, la querelo, il vero obiettivo è mettere in difficoltà il governo-Renzi”, reagisce De Luca. Il quale è stato inserito nella lista non per la condanna con pena sospesa per abuso d’ufficio in primo grado (circostanza per la quale, se eletto, rischierebbe la decadenza in base alla legge Severino; e anche questo è da tempo oggetto di controversia), ma perché per lui penderebbe un giudizio per concussione continuata.

“Ineleggibile, non impresentabile”, dicono gli avversari di centro-destra. Ma il pasticcio giuridico, che in un modo o nell’altro sarà comunque risolto subito dopo il voto – se De Luca avrà vinto -, non c’entra con l’indicazione di impresentabilità. Dichiarazione che non ha alcun effetto pratico né giuridico, ma solo il risultato del polverone. La legge anti-corruzione da poco approvata, le sentenze e soprattutto l’attenzione degli elettori, i quali sanno distinguere benissimo il candidato perbene dal farabutto, sono lo strumento più forte per indurre i partiti alle liste pulite. E, se questo o quel partito non capisce, peggio per loro: la gente voterà altrove. “Bindi si dimetta per alterazione della democrazia”, attacca l’ex ministro Mastella, la cui moglie è finita nell’elenco, mentre Lega e Cinque Stelle rilevano di non avere impresentabili, nel giorno dell’unico impresentabile da tutti riconosciuto: Joseph Blatter.


Come può essere davvero buona la scuola

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STEFANIA GIANNINI_3_resize

Questo commento è stato pubblicato ieri dal quotidiano Bresciaoggi

A volte non sembra che i politici siano stati alunni e non solo bambini, studenti oltre che ragazzi, laureati – diversi di loro -, e non solamente dottori in promesse. Altrimenti, se gli eletti del popolo fossero consapevoli del passato che non passa, perché mai si finisce d’imparare, ogni governo avrebbe compreso da tempo, e il Parlamento subito assecondato, quale sia la priorità delle priorità: investire idee e risorse nella scuola, cioè nell’unica istituzione che unisca al di là di qualsiasi barriera, formando italiani e stranieri, inventando il futuro e riscoprendo la memoria, coltivando le più grandi amicizie e i primi amori. Sperimentando delusioni e amarezze incancellabili.

La scuola non prepara alla vita, come suole dirsi, ma ci introduce direttamente in essa. A prescindere dalla famiglia che c’è sempre, dal lavoro che prima o poi arriverà (si spera), dal “che fare da grande” tante volte immaginato e qualche volta realizzato. Non esiste ex scolaro d’Italia che, terminato il ciclo di studi -ma talvolta persino prima-, non abbia sognato l’esame di maturità come un incubo che ti perseguita, come una tappa ancora da affrontare per diventare adulti. “Non ti sei ancora liberato di me!”, sembra sussurrarti di notte il problema di matematica, la versione di latino, l’interrogazione di storia, prima di svegliarti di colpo e capire che per fortuna certi sogni muoiono all’alba. E allora, se è la scuola il centro della nostra vita persino quando a scuola non andiamo più, tutto diventa importante: dalle materie scelte dal ministero per strappare il benedetto diploma alla riforma scolastica all’esame del Senato dopo aver superato quello, non facile, della Camera.

All’idea stessa dell’Italia che vogliamo costruire e consegnare ai nostri figli, magari ancora più bella di quella ricevuta dai nostri padri. Solo così hanno un senso ed esigono una risposta le discussioni sul ruolo dei presidi e sul riconoscimento dei precari. Il rapporto pubblico-privato attorno alla lavagna. La valorizzazione del merito, che è l’arma segreta dell’eguaglianza, perché consente allo studente bravo e alla studentessa di talento di arrivare dove neanche i figli di papà arriverebbero, se anch’essi non fossero in gamba. E poi: come accompagnare il sapere alla formazione. E applicare sul campo la conoscenza. E aiutare i docenti a diventare o ridiventare maestri, ossia persone preparate che a loro volta continuano a studiare in un’epoca dove tutto cambia. E dell’oggi stesso, non soltanto del “doman”, come credeva il letterato, “non c’è certezza”.

Non solo una riforma, perciò, ma una visione della nostra scuola. Non solo una “buona scuola” a parole, ma una “scuola buona” nei fatti. Non solo l’introduzione vera della modernità dell’informatica e dell’inglese, ma anche il rilancio dell’antico e straordinario patrimonio italiano, che è la lingua italiana, la musica e l’arte italiane, lo sport, la poesia e la fisica italiani e universali. Però mai l’inglese a scapito dell’italiano, come vogliono i provinciali che non parlano l’inglese e che non s’esprimono bene neanche in italiano: l’inglese in aggiunta all’italiano. Con la massima apertura alle altre lingue, perché il mondo è un arcobaleno poliglotta, non l’egemonia di una lingua sola.

Dunque, è dalla grande riflessione dei cittadini e del Parlamento, anche con una seduta congiunta delle Camere – mai finora indetta nella storia della Repubblica – per dibattere e decidere della scuola, che può arrivare la svolta. Altrimenti ogni riforma si limiterà a riformare la precedente riforma. Pannicelli caldi e polemiche roventi, mentre noi continueremo a sognare la maturità, tanti e dolcissimi anni dopo.

f.guiglia@tiscali.it  


Tutte le prossime sfide di Matteo Salvini

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Matteo Salvini

Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Da domenica scorsa anche il centrodestra ha il suo Tsipras italiano: si chiama Matteo Salvini. Come il popolare leader della nuova sinistra e oggi primo ministro in Grecia, Salvini si prospetta a capo di una destra nuova che dice pane al pane e mobilita le piazze e le platee televisive.

E’ ormai diventato l’”altro Matteo”, quello di lotta, che sotto il profilo anagrafico e comunicativo molto somiglia al Matteo di governo, il Renzi alla guida del Pd. L’un contro l’altro armati di programma: niente quanto la loro così diversa politica e le loro idee mai sovrapponibili divide e contrappone il primo al secondo. I due carissimi nemici, ormai.

Ma la novità di Salvini non è solamente legata alle sue parole semplici – a volte anche trucide – né alle sue polemiche che colpiscono il segno e lo lasciano, perché sempre provocano quello che lui cerca per mettersi in mostra: il vespaio. Al pari del linguaggio anche del corpo, con quelle felpe e magliette che cambia di continuo, per stupire e far vedere che lui non ha alcuna paura di pensarla diversamente dai padroni del vapore.

Oltre alla forma e alla moda adesso il Matteo, che ama presentarsi da cattivo per avvicinarsi al buon elettorato esasperato dalle tasse, dall’insicurezza, dalla mancanza di lavoro, ha anche i voti. La sua Lega ha doppiato Forza Italia e s’è rivelata determinante per i due unici ma importanti successi regionali (sui sette in palio) nel centrodestra, il Veneto e la Liguria. Il primo confermato, la seconda ribaltata. Senza dimenticare la novità dei risultati nel centro Italia, dove la Lega è diventato il principale partito di opposizione in Toscana, la regione rossa per eccellenza.

Pur nella generale sconfitta, lo schieramento anti-progressista è tornato ad essere vincente. E tutto questo al centrodestra succedeva poco o non succedeva più dopo il declino politico del leader storico Silvio Berlusconi e la ascesa, confermata alle regionali, dei Cinque Stelle. Ma può e vuole il centrodestra fidarsi dello Tsipras padano? Può la coalizione affidarsi a chi invoca le ruspe contro i campi rom o l’addio all’Euro? Può il centrodestra riconquistare il consenso maggioritario degli italiani col radicalismo delle parole, dei gesti, delle ricette spicce?

Persino Tsipras, quello vero, s’è dato una calmata, capendo che anche i problemi più complicati non si risolvono solleticando paura, ma rasserenando. O Salvini cambia o cambiano Salvini, se i partiti di centrodestra intendono provare davvero a riprendersi Palazzo Chigi.

f.guiglia@tiscali.it


Come cambierà il reato di omicidio stradale

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Era l’uovo di Colombo. Eppure, la politica tentennava di fronte alla richiesta elementare e pressante delle Associazioni delle vittime della strada, che anche nel Veneto e a Verona si erano da tempo mobilitate: introdurre il reato di omicidio stradale per punire sul serio chi provoca la morte di circa nove persone al giorno, in media, e il ferimento di altre settecento. Un’autentica e orribile strage quotidiana che va avanti da anni, e che purtroppo fa notizie solo due volte. La prima con la cronaca dell’incidente mortale. La seconda con la successiva scoperta che l’autore dell’incidente, non di rado anche ubriaco o drogato al volante, e magari fuggito senza aver prestato soccorso, viene condannato a pene irrisorie. Quasi sempre, poi, senza trascorrere una sola ora in prigione, nonostante la gravità del “delitto”, appunto, commesso a danno di cittadini che, per di più, sono del tutto innocenti.

Come si fa, del resto, a indovinare che sta arrivando a tutta velocità il pirata di turno, e che scapperà, e che non pagherà in modo giusto e proporzionato al dolore causato per sempre a chi resta, parenti e amici sconvolti e lasciati soli anche dalla legge?

Meglio tardi che mai, allora, si può forse cominciare a dire. Perché il Senato ha approvato il testo che introduce di diritto il reato che è nei fatti, alzando le pene oltre il livello offensivo previsto dall’attuale legislazione. E perseguendo con maggiore credibilità l’omicida che fugge o sotto effetto di alcolici o stupefacenti. E ritirandogli la patente per un numero di anni superiore al nulla o quasi ancora oggi vergognosamente in vigore. Uccidere l’innocente per strada, ecco, anche agli occhi dello Stato e non soltanto dei cittadini che questo esigevano da tempo, diventa un atto da colpire con serena severità, riequilibrando almeno un po’ l’assurda disparità di trattamento finora vista e vissuta fra il colpevole, tutelato anche quando si comporta al peggio, e la parte lesa dimenticata.

Lesa per tutta la vita, se ferita grave, o negli affetti più cari, se la vittima dell’incidente muore e lascia sull’asfalto anche le lacrime di chi le ha voluto bene.

Primo passo, dunque: il testo dovrà essere ora approvato dalla Camera (e forse di nuovo al Senato, se saranno cancellati emendamenti non voluti dal governo, e che rischiano di affievolire una parte del provvedimento). Ma la direzione di marcia di un tema così sottovalutato nonostante la sua gravità sociale, è giusta. Dalla novità dell’omicidio stradale e delle lesioni stradali non si torna più indietro.

Ecco come lo Stato snobba la vera famiglia

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La bandiera del Comitato 'Difendiamo i nostri figli' alla manifestazione

Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

La famiglia è la patria del cuore, diceva Mazzini quando la patria, quella vera, ancora non c’era. Forse si può ripartire da questa riflessione tanto semplice e profonda per cercare di capire quanto la famiglia, questa straordinaria risorsa d’amore tipica da sempre della cultura e dell’identità italiane (“mamma mia” è una delle espressioni universali più conosciute e riconosciute), sia oggi valorizzata in Italia.

E per denunciare l’indifferenza con cui da tempo le istituzioni hanno abbandonato le famiglie al loro destino, non occorre dividersi tra chi crede nel nucleo tradizionale, com’è accaduto nella manifestazione di ieri a Roma, e chi invece vorrebbe introdurre le unioni di fatto già esistenti in vari Paesi d’Europa: opinioni contrastanti, ma tutte opinioni legittime e degne della massima considerazione. In realtà, se per un momento soltanto si provasse ad andare oltre la polemica ideologica fra laici e cattolici o fra i diversi punti di vista dei cittadini su che cosa sia la famiglia italiana oggi, si scoprirà la grande e grave questione condivisibile da tutti: quanto poco le istituzioni a ogni livello facciano per i figli, che sono il frutto più bello di chi si vuole bene, qualunque sia la forma e la formula del rapporto instaurato.

Dell’imbarazzante mancanza d’asili-nido, che consentirebbero soprattutto alle madri di poter fare le madri senza compromettere il diritto al lavoro, si discute da almeno trent’anni. Ma quest’anno c’è l’aggravante: la denatalità ha raggiunto percentuali di cent’anni fa. In tempo di pace siamo come al tempo della Grande Guerra ’15-’18: le morti superano le nascite.

Anche sotto il profilo fiscale i governi mai incoraggiano nella loro politica economica i giovani a “mettere su famiglia”, né premiano quei genitori che investono non solo amore nei loro figli, magari indebitandosi per pagare gli studi e i corsi migliori per i loro ragazzi. E’ come se il sistema si disinteressasse del bene più prezioso che la famiglia può donare all’intera società: il futuro dei propri figli. Non c’è un progetto, dall’asilo-nido alle borse di studio, dai crediti bancari col contagocce all’apporto economico che è ridicolo per la maternità, all’importanza mai “sostenuta” della paternità.

E così le famiglie tradizionali, allargate o nuove che siano, devono vedersela da sole, perché lo Stato non dà assistenza né appoggi, a differenza di quanto avviene nelle nazioni europee a noi vicine. Dare un po’ di felicità alla famiglia, che è la spina dorsale del nostro vivere e delle nostre vite.


Ecco la lezione in arrivo della Chiesa di Papa Francesco su gay e divorziati risposati

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PAPA FRANCESCO JORGE MARIA BERGOGLIO

Commento pubblicato su l’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Eppur si muove. La più antica istituzione universale al mondo fa i conti con la modernità e apre spiragli. Come se i duemila anni della sua storia, che si vedono e si sentono, fossero un patrimonio non solo da tramandare ai credenti di generazione in generazione, ma anche da interpretare per tutti senza paure o ipocrisie nel giorno per giorno dell’attualità.

Per la prima volta in modo forse tanto chiaro la Chiesa di Francesco si pone il problema di un “itinerario di riconciliazione” per i divorziati risposati. S’interroga sulle famiglie “in cui vivono persone con tendenza omosessuale”. Si chiede come includere la presenza femminile “nella formazione sacerdotale”. E’ tutto scritto nel testo preparatorio (“Instrumentum laboris”) del sinodo d’autunno che i vescovi dedicheranno al grande tema della famiglia.

Della quale si riafferma l’importanza e l’unicità del matrimonio, così come si denunciano le pressioni internazionali subite dai “pastori della Chiesa” su leggi “che istituiscano il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso”. Nessuna rivoluzione, dunque, rispetto al tradizionale “no” della Chiesa sul tema.

Nemmeno un cambiamento della dottrina, restando, per esempio, ferma e dichiarata la contrarietà all’aborto e all’eutanasia, perché la vita “è sacra e inviolabile”. Ma la novità non è -non poteva essere- sui principi della fede cattolica o sui valori per dare un futuro alla memoria.

Nuovo, invece, è il modo di porre e di porsi rispetto alle questioni troppo a lungo rimosse, non comprese, sottovalutate. Ma tutte facenti parte della realtà quotidiana della gente. Problemi di vita vissuta che anche un’istituzione millenaria e dal solido pensiero ha il dovere d’affrontare senza l’ideologia del pregiudizio. E’ un po’ la piccola, grande lezione di Francesco, che non sta dicendo cose radicalmente differenti in confronto ai suoi predecessori. Ma le dice in modo diverso e con una diversa sensibilità.

Da sempre la Chiesa di Cristo guarda agli ultimi, “che saranno i primi”. Ma questo Papa non si limita a guardarli: li abbraccia. E’ nel gesto, allora, il vero e percepito cambiamento. E’ nella coerenza del comportamento tra il dire e il fare. E’ nel tentativo di parlare ai mondi lontani, e non soltanto al cuore di chi il dono della fede ha già, che si coglie il rinnovamento di Francesco.

Del quale il sinodo ne rispecchia le riflessioni – con opinioni naturalmente diverse fra gli stessi vescovi – e l’approccio realistico di una Chiesa che vuole avvicinarsi alle persone con una voglia di ascoltare e di capire che è il segno dei tempi.


Grecia, cosa non mi convince del referendum di Tsipras

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Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

E così Alexis Tsipras, il primo ministro greco di lotta e di governo, il prossimo 5 luglio chiamerà il suo popolo sovrano alle urne per avere la risposta che lui stesso già conosce: “Ci hanno chiesto di accettare pesi insopportabili”. Dunque, non saranno più le istituzioni elette di Atene, ma il referendum della gente a decidere il prendere o lasciare proposto dall’Eurogruppo.

È una svolta drammatica prima di tutto per i greci, che sono corsi ai bancomat per ritirare i loro risparmi di lacrime e sangue. Ma è un pessimo esempio per la politica in quanto tale, persino per quella nuova e per molti europei speranzosa di Tsipras, che invece preferisce rifugiarsi nella piazza forse per mascherare la propria incapacità di negoziato duro, ragionevole ma leale.

Posto che in Europa non c’è soltanto la cattivissima Frau Merkel – peraltro meno cattiva di quanto appaia -, ma anche governi “amici” come quelli italiano e francese. E personalità aperte alla Mario Draghi. Tanti che si sono spesi fino all’ultimo per non abbandonare la Grecia, cioè la culla della civiltà europea, al suo solitario e fallimentare destino.

Invece, salvo sorprese e sempre che la mossa non rientri in un tentativo estremo di alzare la posta (ma nell’attesa del referendum Bruxelles ha già bloccato la proroga di aiuti richiesti da Tsipras), il “che fare” coi creditori sarà chiesto agli indebitati. Sarebbe come domandare agli italiani se concordano nel pagare la media più alta di tasse in Europa. Domanda che la nostra Costituzione rende impossibile, perché il referendum “non è ammesso”, appunto, per le leggi tributarie e di bilancio, oltre che per la ratifica dei trattati internazionali.

Per tutto ciò eleggiamo un Parlamento e un governo, che hanno il dovere della politica economica ed estera col sottinteso che li mandiamo a casa se governano male. Ma il precedente greco non è il referendum che la Gran Bretagna farà nel 2017 per chiedere ai suoi se restare o meno in Europa. Né il referendum con cui Francia e Olanda nel 2005 bocciarono la Costituzione europea: la voce del popolo per “indirizzare” una grande scelta politica.

Questa e ben diversa consultazione, della quale a pochi giorni dalla sua indizione non si conosce neppure il quesito, è solo la continuazione del populismo con altri mezzi: il pompiere che butta benzina sul fuoco. L’opposto di una politica magari anche radicale di un’istituzione che però si prende la responsabilità di una scelta, qualunque sia, e la spiega ai suoi cittadini.



Perché è una vergogna quello che succede in Grecia

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Manca solo l’oscuramento, anche se perfino l’illuminazione pubblica è stata tagliata in modo drastico. Ma, per tutto il resto, quello che sta accadendo in Grecia in queste ore riporta a quanto nel cuore dell’Europa non si vedeva né viveva da settant’anni: l’economia di guerra. Banche chiuse all’improvviso, code di cittadini per ritirare col bancomat il minimo consentito per comprare pane e latte, con la promessa governativa che presto si potranno prelevare centoventi euro. Ma in una settimana! E legioni di disoccupati, soprattutto giovani.

E pensionati alla fame. E stipendi bloccati per tutti, oltre che ridotti all’osso. E negozianti che avvertono la “gentile clientela”: qui si accettano solo contanti. L’esatto opposto delle nazioni che vanno a gonfie vele dove, per esempio in America, anche piccoli spiccioli si pagano con le carte di credito. Come se non bastasse, il Paese che vive di turismo è costretto alla corsia preferenziale per i suoi visitatori stranieri. Almeno loro potranno ritirare col bancomat quel po’ di denaro necessario per la vacanza. Ma è un’orribile disparità di trattamento, se si pensa che ai greci la stessa possibilità è attualmente negata dal loro Stato per sopravvivere.

A prescindere da come finirà, e senza andare alla ricerca delle colpe -ma quelle all’origine sono delle classi dirigenti che si sono succedute ad Atene-, nessun europeo con la testa sulle spalle può tollerare una situazione del genere a due passi da casa. Nessun europeo che si sia cimentato a scuola fra Sparta e Atene o in ferie tra Mykonos e Santorini può accettare che una parte di sé, cioè di una storia e di un presente tanto condivisi, sia così radicalmente diversa da sé. Se questo discende dalla globalizzazione, che tende sempre più ad uniformare non solo le ragioni, ma anche i torti delle istituzioni e delle popolazioni, è evidente che essa vada ripensata. Non può accadere a pochi chilometri di distanza, e per quanto gravi siano le responsabilità rispettivamente greche e dell’Unione europea, che un popolo intero sia tornato o quasi ad un’economia del baratto e al baratro della crisi.

Non è pensabile che una nazione con la stessa nostra moneta debba mendicare i propri risparmi. Non è accettabile che nell’Europa senza confini uno dei suoi membri, il più antico, oltretutto, debba chiudere la sua frontiera dell’economia ancora non si sa se per sette giorni o per sempre. Non si può più ignorare che c’è un modo “fare economia”, soprattutto finanziaria, che prima o poi finisce per umiliare la gente.


Cosa succederà dopo il tosto referendum in Grecia

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Negli ultimi sette giorni s’è detto tutto e il contrario di tutto sui greci che oggi vanno alle urne: dalla possibile nascita di un euro parallelo al ritorno della dracma, la precedente moneta nazionale. Dall’ipotesi “Grexit” – Atene che esce dall’eurozona – al misterioso ma già abbozzato “piano B”. Dalla prospettiva di un governo di unità nazionale al posto della guida di Alexis Tsipras il rivoluzionario (o insieme con lui) fino a nuove trattative di Bruxelles sui “crediti”. Ma ognuno di questi e altri scenari ha un grande limite: quello di prevedere la sorte dei soli greci, peraltro mai così incerta di fronte al referendum da loro stessi promosso sulla proposta economico-politica dell’Unione europea. Invece oggi si vota in Grecia, certo, ma da domani è in ballo l’Europa. E’ arrivato il giorno della verità per tutti e, in barba ai pronostici e alle polemiche, nulla sarà più come prima. Che vinca il “sì” o che vinca il “no”. Che festeggi il temerario Tsipras o che tiri un sospiro di sollievo la resistente Frau Merkel. Che la Banca centrale europea intervenga subito per evitare il peggio o che la tragedia greca si risolva nel tempo sull’onda delle riforme. Questo referendum a sorpresa in un piccolo Paese dalla storia antica scuoterà le fondamenta della nostra Unione. Che continente siamo, se non siamo capaci di tenere insieme le economie che utilizzano, oltretutto, la stessa moneta? Qual è il sogno europeo per i nostri figli al di là del programma studentesco Erasmus, se un popolo europeo è ridotto e s’è ridotto al lastrico? A che serve un’Unione che non sa affrontare una crisi in fondo circoscritta come quella greca e alla portata degli altri e più ricchi ventisette Paesi?

Già si discute su quanto e come l’esito del voto potrà condizionare l’economia degli altri. Naturalmente tutti rassicurano e considerano il caso greco come una rondine che non farà primavera. Ma il punto non è capire in che modo il sistema bancario e le istituzioni sapranno reagire al “rischio contagio”. Il punto è capire che il destino di Atene è capitale per l’Europa, ed è già domani.


Cosa c’è davvero di buono nella Buona Scuola

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Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

La riforma della scuola s’è conclusa così com’era cominciata: tra le polemiche. A parte i cortei che in queste settimane avevano visto manifestare professori e studenti, l’ultimo atto della legge approvata ha portato il caos nell’aula della Camera con le opposizioni e alcuni deputati Pd contrari alla novità. “Centomila assunzioni, più merito, più autonomia”, ha invece riassunto un compiaciuto Matteo Renzi, il presidente del Consiglio che considera la svolta come lo sforzo strutturale “più grande” dell’intera storia repubblicana, addirittura.

Come sempre quando persino le sfide più importanti e condivise si colorano di ideologismo  c’è forse qualcosa di più importante della Scuola di noi tutti? -, la verità sta un po’ nel mezzo. Nel senso che non siamo né di fronte a una rivoluzione epocale come lo fu, per esempio, la riforma-Gentile. Né a un cambiamento da buttare nel cestino prima ancora d’averlo sperimentato.

Fermo restando che il cambiamento era necessario, oltre che da tutti invocato. E che l’aver almeno abbozzato un principio di responsabilità, qui individuato soprattutto nella figura del preside, non è un male per un’istituzione e un Paese nei quali mai nessuno risponde di niente.

Ma quanto l’annunciata “buona scuola” potrà essere davvero buona, non lo dirà la solita politica divisa e faziosa. Lo diranno due circostanze oggettive: in che modo il governo riempirà le ben nove deleghe legislative che dovrà compilare entro diciotto mesi. E come la riforma sarà applicata nelle aule di giorno in giorno. Perché alla fine le norme camminano sulle gambe dei docenti e degli alunni, che sono, in particolare i docenti, i maggiori e autentici “responsabili” del funzionamento della scuola.

Diradatosi, dunque, il fumo a dismisura sia delle polemiche sia dell’incenso, già in autunno con l’inizio del nuovo anno potremo cominciare ad annusare se c’è dell’arrosto. E magari, strada facendo, cucinarlo meglio proprio grazie alla nuova esperienza a cui saranno chiamati i professori, che sono e restano la spina dorsale dell’istituzione.

Se son rose, pragmaticamente, fioriranno. Altrimenti si tornerà a riformare la riforma, prassi peraltro seguita da ogni esecutivo e quasi sempre peggiorativa di cambiamento in cambiamento: forse anche per questo il legittimo pessimismo di chi dissente, avendone viste e vissute troppe, di deludenti riforme.

Ma intanto si potrà presto accertare se ai propositi (“assunzioni, merito, autonomia”), seguiranno i fatti. Far parlare i fatti per avere un giudizio vero e non un pregiudizio urlato sulla “buona scuola”.

f.guiglia@tiscali.it        


Le due sfide per l’Italia dopo l’attentato al Cairo

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Se per caso il mondo libero si fosse dimenticato del pericolo incombente rappresentato dall’esistenza dell’autoproclamatosi Stato islamico, detto Isis, niente paura: ci pensano loro stessi a ricordarcelo. Ma con l’autobomba che alle 6.30 di ieri mattina ha colpito il Consolato italiano a Il Cairo e che essi, i terroristi, hanno prontamente rivendicato, l’allarme è ancor più particolare, perché suona forte soprattutto per il nostro Paese.

Allarme e non allarmismo, come distinguono le istituzioni che segnalano il nuovo rischio, ma precisano che l’Italia “non si farà intimidire”. E’ il modo giusto, ossia sereno, ma serio, per affrontare da italiani consapevoli questa minaccia universale di barbarie che già altre nazioni e popoli hanno purtroppo conosciuto con tributo di sangue innocente.

Ora la minaccia bussa alle porte di casa, il nostro Consolato in Egitto, ed è perciò importante prepararsi al meglio per evitare il peggio. Prevenire per impedire. Non siamo più ai proclami farneticanti del tipo “marceremo su Roma” che questi oscurantisti della violenza avevano pur lanciato di recente. Adesso l’esplosione in Egitto va oltre il delirio. Dal proclama al tritolo, e guai a sottovalutarlo.

Almeno due sembrano le strade obbligate per rispondere a chi odia e ci odia, e per rassicurare gli italiani che la guardia è alta. La prima passa dalla collaborazione con tutti gli Stati e gli organismi, peraltro moltissimi, interessati a fermare attentatori e tagliagole. Collaborazione totale: soldi, personale, strategie comuni, qualunque cosa risulti necessaria per sradicare insieme il rancore e la violenza dilaganti. Sconfiggere il terrorismo è il presupposto della moderna libertà civile, democratica e religiosa: il senso stesso delle nostre vite.

La seconda strada è conoscere bene il nemico prima che colpisca nel buio, dunque un’attività diligente di rapporti fra polizie, e non solo fra governi, che è tipica delle “intelligence”. La nostra sicurezza ha bisogno di un robusto lavoro di investigazione in Italia e all’estero da parte delle autorità preposte.

Mai come in questo tempo di pace che oggi subisce la più grave sfida dal dopoguerra, c’è bisogno di concordia tra forze dell’ordine e magistratura, fra il ruolo dei militari italiani nelle aree calde del mondo e le nostre istituzioni nei luoghi che contano, si chiamino Unione europea, Onu, Nato o vertici bilaterali con Stati, specie dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Asia.

Da soli e con gli altri, senza paura.

f.guiglia@tiscali.it


Alcides Ghiggia, storia di un anti-divo

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Questo pezzo è stato pubblicato oggi su Il Messaggero

“Per me Maracanà è stato il titolo del mondo e il passaporto per l’Italia”. Alcides Ghiggia, l’uomo delle due patrie e delle due Nazionali -la Celeste per la sua nascita in Uruguay e l’Azzurra per l’origine torinese dei nonni paterni-, s’è spento a ottantotto anni per un infarto e proprio nello stesso giorno in cui il 16 luglio 1950 aveva conquistato la sua vittoria più grande e il diritto a giocare a Roma nella Roma dopo aver battuto il Brasile in Brasile. “Ho visto un buco nella porta e ho tirato lì, più o meno la stessa rete che avrei fatto al portiere della Lazio, Lovati”, raccontava e ancora mimava col gesto del piede la scena di quel 2 a 1 a dieci minuti dalla fine che l’avrebbe reso immortale in Uruguay, ammutolendo all’istante duecentomila spettatori “cariocas”.

Nel mitico stadio di Rio de Janeiro essi già preparavano la festa da campioni del mondo. Invece fu un “Maracanazo” di lacrime e disperazione. Solo la messa del Papa (Wojtyla) e il concerto di Frank Sinatra furono seguiti con lo stesso silenzio, amava ripetere quest’ala destra d’altri tempi, piccoletto e indomabile come il suo gioco, dal volto ovale e dalla fronte alta, coi denti un po’ in fuori e i cappelli scuri, troppo scuri: forse l’unico vezzo di un mito del calcio all’antica, con quel nome che solo De Gasperi poteva portare e i baffetti ordinati a forma di trapezio da Clark Gable del campo. Due i matrimoni come il numero dei figli e storie giovanili di donne (fu anche sorpreso in macchina con una minorenne a Roma e punito per lo scandalo) e di pallone, le passioni di una vita dolce che mai diventerà dolce vita.

Ghiggia viveva di risparmi e dei lavori a cui fu costretto dopo il ritiro, come l’impiego presso i casinò municipali. L’anti-divo abitava in un modesto monolocale a Las Piedras, paesino a mezz’ora dalla capitale Montevideo, “ma mi va bene così”, diceva l’ultimo sopravvissuto di Maracanà. “Hanno scritto che per soldi mi sarei venduto le medaglie. Balle. Certo, in Italia guadagnavo bene. Ma oggi è dura per tutti”.

Il suo destino italiano era segnato fin dalla squadra uruguaiana del cuore, il leggendario Peñarol, proclamato “la miglior squadra del secolo” da un organismo internazionale di statistica riconosciuto dalla Fifa, e la cui storia discende da Pinerolo. Anche Juan Alberto Schiaffino detto Pepe, l’altro uruguaiano-italiano che segnò il primo gol del pareggio al Maracanà, veniva dal Peñarol, il ponte sportivo dei sogni fra l’Atlantico e il Mediterraneo. “Ho indossato la maglia celeste e l’azzurra con lo stesso orgoglio”, ricordava l’Alcide del calcio, tuffandosi nella memoria del suoi nove anni alla Roma dal 1953 (e poi una stagione al Milan e tra gli Azzurri in quegli anni). “La mia esperienza italiana fu bellissima”, diceva. “Non avevo ancora firmato, ma già giocavo nelle amichevoli della Roma. Quando andavamo a bere dopo la partita, i miei compagni scherzavano per la mia giovane età, guarda lì, è arrivato il neonato”. Da allora ho imparato che, per campare bene, non bisogna farsi cattivo sangue e bisogna mangiare spaghetti…”.

Alcides Ghiggia, l’eroe tornato per sempre sul campo di Maracanà, sessantacinque anni dopo.

 


Vogliamo legiferare sulle coppie dello stesso sesso?

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

La Corte europea dei diritti dell’uomo, come preannuncia il nome stesso del tribunale, ha appena ricordato che c’è un diritto non ancora riconosciuto in Italia: quello delle coppie dello stesso sesso a vivere secondo norme di tutela legale. Per la mancanza di una legislazione al riguardo l’Italia è stata condannata in virtù di tre casi specifici, i cui diritti delle persone ricorrenti a vivere anche “formalmente” insieme sarebbero stati, così, violati.

Si dirà che tale sentenza non è definitiva, e che il pronunciamento dei giudici potrà essere impugnato alla Grande Camera europea. Si potrà anche dire che non spetta a chi guarda le cose dalle finestre di Strasburgo decidere l’ordinamento del nostro Paese nella realtà di tutti i giorni. E si potrà, inoltre, osservare che, a fronte del rilancio dell’economia, del lavoro, della sicurezza e di altri e importanti temi di vita quotidiana per gli italiani, il come e il quando legiferare sui diritti delle coppie omosessuali non rappresenti la priorità delle priorità per la maggioranza dei cittadini. Anche se un governo non agisce solo sull’onda delle priorità, posto che tutti i problemi di una moderna società meritano attenzione, riflessione e decisioni.

La sentenza della Corte diventi, allora, uno stimolo non già per trascurare le priorità economiche, né per tacitare le voci diverse che sul tema delle unioni civili esistono e resistono, ma per intervenire, finalmente, sulla materia. Perché il punto è che, a fronte del mondo che cambia e dei Parlamenti che legiferano ciascuno con le sue differenze anche semantiche (matrimoni, unioni, patti?), l’Italia è rimasta all’anno zero. Ferma e immobile, come se la questione delle coppie dello stesso sesso riguardasse il resto dell’universo e dei popoli, ma non noi. Come se il giudizio della bimillenaria Chiesa cattolica, un giudizio a sua volta degno della massima considerazione non solo da parte di chi crede, dovesse essere la definitiva Cassazione sul tema. Quando è la stessa Cassazione a modificare la sua giurisprudenza, persino sulla non necessità di operarsi per cambiar sesso all’anagrafe, come ha appena sentenziato sulla base di sensibilità, costumi, opinioni che mutano col passare del tempo. E’ ora, dunque, di affrontare la questione delle coppie omosessuali con il ragionevole buonsenso che il diritto attinge dalla vita, e che la vita aiuta a trasformare in diritto. Muoversi per non essere più gli ultimi della classe, e perché i diritti valgano nella patria del diritto.

f.guiglia@tiscali.it

Strage di Brescia, il diritto alla verità

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Questo commento è uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Ergastolo, quarantun anni dopo. Così ha sentenziato la Corte d’assise d’appello a Milano su uno dei più gravi attentati che l’Italia abbia subìto nel corso della sua storia più buia e recente: otto morti e centodue feriti. Partecipavano tutti alla manifestazione antifascista che a Brescia i sindacati dell’epoca – il 28 maggio 1974 – avevano organizzato nella centralissima piazza della Loggia.

Ora la magistratura ha condannato col carcere a vita Carlo Maria Maggi, ex ispettore veneto di Ordine Nuovo e l’ex fonte dei servizi segreti Maurizio Tramonte, imputati in questo giudizio bis disposto un anno fa dalla Cassazione dopo un precedente verdetto di assoluzione. I familiari delle vittime hanno pianto in aula, mentre Manlio Milani, il presidente dell’Associazione che raccoglie la memoria delle vittime, e che da anni si batte per avere giustizia, ha detto che il verdetto “impone una profondissima riflessione su quegli anni che vanno dal 1969 al 1974”, ossia dalla prima strage di piazza Fontana in poi.

Le immagini d’archivio in bianco e nero che la tv ripropone negli anniversari fanno sentire l’eco terribile di quella bomba nascosta in un cassonetto ed esplosa in piazza, e le grida dei presenti. Piazza della Loggia fu una delle stragi che è rimasta scolpita con dolore e con rabbia -la rabbia di chi mai rinuncia a cercare la verità-, nella memoria collettiva. Il ricordo di anni di violenza, di terrorismo, di “strategia della tensione”, come essi furono battezzati per gli intrighi e per il sangue versato da tanti, troppi italiani. Sia pure in modo non ancora definitivo – è prevedibile un ulteriore ricorso e ritorno in Cassazione -, ora arriva questa sentenza della magistratura.

Al di là dell’aspetto giudiziario, il punto è proprio quello posto dai familiari delle vittime: capire quanto questa decisione possa essere “decisiva per la storia del Paese”. Quarantun anni dopo esiste un diritto alla verità che va persino oltre gli accertamenti dei processi, e che non riguarda solamente l’attentato di piazza della Loggia, a cui dopo tre mesi sarebbe seguita un’altra strage, quella del treno Italicus. E la strage di Bologna, sei anni dopo. Eccidi diversi fra loro, ma a nessuno può sfuggire la circostanza che l’Italia di quegli anni sia stato l’unico Paese d’Europa colpito da stragi e terrorismo in successione.

Il dovere di sapere sempre di più lo si deve sia alle vittime innocenti di quella barbarie, sia all’intero popolo italiano.



Perché i tagli alla spesa devono iniziare dalla sanità?

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Yoram Gutgeld

Questo articolo è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

E’ curioso che, con tanti buoni esempi a disposizione, i governi continuino a “sognare” come tagliare la spesa pubblica affidando l’auspicabile, ma irrealizzato compito a un commissario di turno. Lo sventurato di oggi si chiama Yoram Gutgeld, deputato Pd, che ha preso il posto del più celebre, ma sfortunato Carlo Cottarelli. Il quale abbandonò la partita senza essere riuscito a tagliare neanche le briciole della torta, pur avendo scritto una ricetta grande così.

Eppure, basterebbe rivolgersi a una qualunque dei venticinque milioni di famiglie che fanno quadrare i conti alle fine del mese in Italia e chiedere, sommessamente: ci dite, per favore, come si fa?

Forse il governo scoprirebbe che, prima di tagliare i medicinali, ogni nucleo di persone di buonsenso rinuncia al superfluo. E poi, se non basta, passa al non troppo necessario. E, se ancora non basta, taglia ciò che è meno urgente dell’urgente, e sempre anteponendo il sacrificio a se stessi rispetto ai propri figli. C’è una misura nelle cose.

Yoram Gutgeld, l’ennesimo predestinato a raccontarci la bella favola che però, chissà perché, finisce sempre male, invece annuncia che comincerà proprio dai medicinali, ossia dalla sanità. Per carità, niente macelleria sociale, assicura, né tagli alla cieca. Il suo “c’era una volta” ha l’obiettivo di far risparmiare dieci miliardi a tutti gli italiani. Ed è vero che molto si possa ottenere gestendo meglio gli ospedali, controllando le prescrizioni, rendendo più efficienti i servizi, eliminando le odiose disparità sanitarie fra regioni, specie fra le quindici ordinarie e le cinque a statuto speciale, ossia da Bengodi.

Ma ci sono gesti semplici e concreti che valgono più delle incursioni fantasticate. Il mondo della sanità divora un patrimonio pubblico che è, allo stesso tempo, di grande qualità e dedizione dei suoi operatori e di cattiva organizzazione dei suoi gestori, troppo spesso condizionati da scelte politiche scellerate. Ma si risparmia di più facendo a meno di un bisturi o di un’autoblu? Sono “privilegi” paragonabili fra loro quelli di un modesto presidio sanitario in un quartiere lontano o di infrastrutture pubbliche inutili, duplicate, costose di cui si fatica a capire perché esistano? E’ così difficile stabilire che dal 1° gennaio 2016 tutti gli stipendi di chi fa politica, dal Parlamento al più piccolo ente territoriale, subiranno un colpo di scure senza precedenti?

Non la vita delle persone, ma i vitalizi delle caste sono l’obbrobrio da estirpare per dare l’esempio che si fa sul serio.


Renzi e Berlusconi, analogie e differenze sul garantismo

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Renzi berlusconi

Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Molto si può dire dopo l’inatteso “no” del Senato (la stessa Giunta competente del caso aveva proposto il “sì”) alla richiesta di arresto per l’appena salvato Antonio Azzollini del Ncd. Arresti domiciliari, peraltro, non la nuda e cruda galera. Ma almeno due cose oggi appaiono incontrovertibili. La prima, di sicuro quella che più lascia esterrefatti i comuni mortali, è il trattamento privilegiato ancora una volta riservato a un parlamentare per il solo fatto d’essere parlamentare.

Un cittadino qualsiasi accusato per lo stesso e grave reato di associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta a quest’ora sarebbe da tempo dietro le sbarre (neppure “detenuto” nella comoda poltrona di casa). È fondamentale che un eletto del popolo goda di garanzie particolari per evitare il rischio del “fumus persecutionis” a danno della sovranità democratica, cioè che un onorevole sia ingiustamente perseguitato per le sue idee o attività politica.

Ma anche ricordando che sempre deve valere la presunzione di innocenza e che ogni vicenda penale va esaminata a sé, tale garanzia costituzionale non può trasformarsi in uno scudo della e per la casta. La seconda considerazione è l’”effetto che fa” l’analogia evidente, anche nel tono, fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sul tema della giustizia. “I senatori non sono passacarte delle Procure”, ha commentato l’attuale presidente del Consiglio, ricordano che la libertà delle persone non è roba da bar sport.

È vero, i legislatori non dovrebbero mai prendere a scatola chiusa ciò che altri poteri propongono. Così com’è vero che Renzi, al pari di Berlusconi, non è mai stato un “giustizialista”. Al contrario e anche di recente ha rivendicato un pensiero garantista per principio e non per convenienza. Ma per chi guarda le cose da fuori, questo Palazzo cambia presidenti e maggioranze però, nell’ora della verità, mai si smentisce: gli amici e gli alleati hanno sempre un trattamento diverso rispetto a quello dedicato ai nemici e oppositori.

Più garantisti dei garantisti per opportunità politica, più che per timore di “fumus persecutionis” (“fumo” che, se soffia contro l’avversario di turno, magari interessa un po’ meno). Matteo e Silvio, atteggiamento simile, pur con una rilevante differenza. Nel caso di Berlusconi spesso le contese riguardavano lui medesimo, mentre Renzi non è neppure membro del Senato. Garantisti diversi, garantisti paralleli.


Ecco i destinatari dell’ultima reprimenda di Papa Francesco

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IL VENTO FA VOLARE LA MANTELLINA DI PAPA FRANCESCO JORGE MARIA BERGOGLIO

Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Non aveva mai usato parole così forti, questo Papa che non ha paura delle parole. Respingere in mare i migranti “è un atto di guerra”, ha detto Francesco. Non l’ha detto come monito dal pulpito, ma incontrando i rappresentanti del Movimento eucaristico giovanile, quasi a voler trasmettere un insegnamento. L’ha detto senza leggere testi preconfezionati, conversando in libertà con i tanti ragazzi che da lui volevano sapere. E che ora sanno.

Non sorprende il pensiero di un Pontefice il cui primo viaggio ufficiale fu fatto a Lampedusa, l’isola che raccoglie per prima – così hanno decretato la geografia d’Europa e la generosità degli italiani – la disperazione di chi scappa da conflitti, dalla fame, dalle malattie. Profughi ed emigranti d’ogni dove che sbarcano in continuazione con la sola speranza di sopravvivere. Andando laggiù Papa Francesco volle dire al mondo: io sto con quelli, sto con le donne, i bambini, gli anziani che rischiano la vita e spesso la perdono in nome di un futuro purché sia, tanto tragico è il loro presente.

Ma adesso il Pontefice ha compiuto un passo ulteriore, denunciando le responsabilità di chi si limita, quando si limita, a offrire pane e acqua ai naufraghi per poi rispedirli “a casa loro”. Non è difficile individuare i destinatari del richiamo. Sono i governanti di quell’Europa che alza muri e si rifiuta d’ospitare perfino piccole quote di rifugiati. Di più, li caccia indietro con la forza, come fanno i francesi a Ventimiglia e gli austriaci al Brennero con i migranti provenienti dall’Italia. Per non dire degli inglesi, che prevedono cinque anni di carcere per chi ospitasse “clandestini” in casa propria.

Del resto, il governo di Londra ha dichiarato che non un solo straniero raccolto in mare sarebbe stato portato nel Regno Unito. Avvistato, salvato e depositato in Italia, of course, ovviamente. “Un atto di guerra”, avverte ora il Papa, che ha ben presente, al pari di tutti gli europei, chi sono i migranti: basta vedere le immagini in tv sempre diverse e sempre uguali. I criminali scafisti, le vittime assiepate e picchiate nei barconi, i morti buttati in acqua da vivi.

E’ un film quotidiano dell’orrore di cui conosciamo da tempo il drammatico finale. Eppure, basterebbe poco per affrontare non il fenomeno, che è di dimensioni bibliche, ma la sua patologica emergenza di persone respinte sotto gli occhi e le telecamere di tutti.

Non sono i soldi né i luoghi per ospitarli che mancano. Manca la volontà politica. L’Europa dei vili in trincea contro i figli di nessuno.

f.guiglia@tiscali.it


La febbre a 40 del sabato sera

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DISCOTECA

Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

La febbre del sabato sera, come il celebre film con John Travolta nel 1977 aveva battezzato la voglia sfrenata di divertirsi ballando, adesso è salita a quaranta. Dal ballo s’è passato allo sballo, dopo il secondo caso di un ragazzo che è morto all’alba, nel Salento, sentendosi male all’uscita di una famosa discoteca.

 Lorenzo Toma, così si chiamava, aveva solo diciannove anni e l’inchiesta dirà che cosa ha causato l’improvviso e ancora misterioso malore (gli amici avrebbero riferito che ha bevuto qualcosa e s’è sentito mancare). Ma appena venti giorni fa un altro giovane neppure maggiorenne, il sedicenne Lamberto Lucaccioni, aveva perso la vita a Riccione per eccesso di ecstasy, droga micidiale, in un altro e altrettanto noto locale che il prefetto ha poi deciso di chiudere per quattro mesi.

Due indizi, diceva Montanelli, sono solo due indizi. Ma non è proprio il caso di attendere il terzo indizio  -come lui ammoniva – per arrivare alla prova. La prova che non si può morire a neanche vent’anni dopo una serata in discoteca.

E allora: di chi sono le responsabilità di una generazione che in piccola, ma significativa parte sta bruciando la sua esistenza? Della famiglia prima distratta e poi distrutta? Della società troppo indifferente al pericolo degli stupefacenti? Della mancanza di veri controlli sia nelle discoteche, sia da parte delle forze dell’ordine? Della personalità del singolo ragazzo, che magari fa quel che non dovrebbe fare solo per non sfigurare col “branco” degli amici, come capita quando si è giovani tra giovani?

Purtroppo non c’è una sola e facile colpa da individuare per lavare le coscienze e sbrigare subito la tragica pratica. C’è un insieme di cattive ragioni che però, se affrontate con serietà, potrebbero tutte contribuire ad abbassare la febbre del sabato sera. E far tornare la discoteca il ritrovo per sentirsi liberi e felici. Perché non è certo la musica a far sballare i ragazzi.

Tuttavia, chi gestisce i locali non può chiudere gli occhi: denunci alla polizia se, quando e dove si spacciano dosi di morte, cioè di droga. E collaborino anche i genitori, che non è affatto giusto indicare come unici o principali colpevoli, ma che dovrebbero sempre informarsi su chi frequentano i propri figli e che cosa fanno.

Dialogare in famiglia non è solo bello: è un dovere dei padri e delle madri per cercare di capire in tempo le difficoltà e i sogni dei propri ragazzi. Così come molto di più possono fare le istituzioni, garantendo maggiore sicurezza con controlli a sorpresa e spiegando che la droga è una porcheria. E che può uccidere.

f.guiglia@tiscali.it


Tutti gli errori sull’Isis

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Questo articolo è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

La guerra continua a due passi da casa. Adesso l’autoproclamatosi Stato islamico dell’Isis ha lanciato la sua offensiva di ferragosto: decine di vittime in Libia nelle aree residenziali della simbolica Sirte, città costiera e nevralgica del Paese, già luogo di nascita del dittatore Muammar Gheddafi. Le milizie fondamentaliste hanno colpito con l’artiglieria nelle stesse ore in cui gli italiani sono o si preparano alle vacanze. Loro, i terroristi, perseverano nell’orrore.

Nel silenzio generale avevano da poco annunciato la decapitazione di un ostaggio croato, Tomislav Salopek, rapito il 22 luglio scorso in Egitto. E altri morti ammazzati “in contemporanea” si contano in Iraq, dopo l’esplosione di un’autobomba al mercato di Bagdad: una carneficina di povera gente. Si va di strage in strage, visto che anche in Siria non fa quasi notizia la barbarie senza fine, continuamente ma inutilmente denunciata al mondo da Papa Francesco. Né hanno finora prodotto risultati l’impegno e i piani di Barack Obama “a lunga durata” per fermare l’Isis, intanto aiutando con raid aerei chi combatte i terroristi sul campo. Manca una coerente e costante strategia dell’America, ormai col pensiero e i candidati rivolti alle presidenziali del 2016.

Ma divisi e incerti appaiono gli stessi alleati europei, il mondo arabo, la Russia, ciascun Paese anteponendo i propri interessi geo-politici ed economici alla visione d’insieme. E’ come se il resto dell’universo non avesse ancora compreso che cos’è l’Isis, nonostante i crimini compiuti e rivendicati via web, perché tutti debbono vedere e sentirsi minacciati.

Eppure, i governi dei preoccupati cittadini, gente del mondo che mai avrebbe immaginato di poter assistere nel corso della vita a una simile violenza alle persone e alle cose, persino ai capolavori d’arte, non sembrano capire il momento drammatico. Forse credono che l’Isis sarà sconfitto col tempo. Forse calcolano che prima o poi avranno la meglio gli isolati combattenti che si battano sul territorio, perché non vogliono sperimentare sulla loro pelle il rischio di soccombere ai tagliagole.

L’Occidente e le nazioni libere stanno, dunque, a guardare. Ma dalle finestre si vede la Libia che brucia, mentre ovunque non cessano i proclami jihadisti, le persecuzioni ai più deboli, il martirio dei cristiani e tutto quanto fa ormai parte della nostra consapevole informazione quotidiana.

L’Italia e l’Europa devono concordare al più presto una strategia per prevenire in casa e contribuire a difendere nel mondo il diritto dei popoli a vivere in pace.


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