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I corvi di Vatileaks puntano a Papa Francesco

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PAPA FRANCESCO JORGE MARIA BERGOGLIO

Sembra la solita storia di veleni, corvi e documenti che volano via: la seconda e clamorosa puntata del celebre Vatileaks, che tre anni fa, nell’era di Benedetto XVI, aveva portato all’arresto di un aiutante di camera della famiglia pontificia. Anche allora c’erano in ballo carte segretissime uscite dagli archivi e misteriosamente divulgate.

Invece no, stavolta gli arresti a sorpresa in Vaticano di un monsignore spagnolo, Lucio Ángel Vallejo Balda e di Francesca Immacolata Chaouqui, entrambi esponenti della Commissione per la riforma delle finanze voluta da papa Francesco, hanno un sapore diverso. Anche se di fuga di documenti, di nuovo, si tratta. Anche se le carte “riservate”, esattamente come l’altra volta, saranno rese pubbliche in due libri in uscita, uno dei quali di Gianluigi Nuzzi, già autore di un precedente libro-rivelatore.

La novità in una vicenda che si ripete, e con così tante similitudini, è che dall’altra parte oggi c’è Francesco. Il quale non ha tentennato un secondo nell’approvare gli arresti. E nel nome del quale ora la Santa Sede parla di “grave tradimento della fiducia accordata dal Papa”, preannunciando iniziative giuridiche contro “un atto gravemente illecito”. La reazione dura e immediata non è frutto soltanto della volontà di punire i due sospettati dello scandalo (rischiano fino a otto anni di carcere), o di prevenirne gli inevitabili contraccolpi sul Vaticano. Denunciando il “tradimento”, in realtà si sta dicendo che c’è un nuovo corso, e non solo un nuovo corvo.

E che tale percorso s’intende proseguirlo e difenderlo. Non è difficile riconoscere lo spirito poco arrendevole del Papa in questa controffensiva lanciata, che arriva in un momento molto singolare. Proprio mentre Francesco compiva il suo massimo sforzo di cambiamento con il Sinodo sulla famiglia, scoppiarono, una dopo l’altra, prima la polemica di Krzysztof Charamsa, il prete teologo polacco che ha dichiarato la sua omosessualità attaccando la Chiesa. Poi la vicenda della supposta malattia del Papa, al quale avrebbero addirittura diagnosticato un tumore benigno al cervello.

A prescindere dalla radicale smentita della notizia, è però evidente l’interesse o il desiderio di molti, anche dentro il Vaticano, di mettere in giro le voci più disparate pur di fermare l’azione di Francesco. Non complotti né congiure: ridicolo pensarlo. E’ invece chiaro come il sole che l’obiettivo degli oppositori è indebolire il Pontefice e vanificare le sue riforme, dimostrare che cambiano i Papi, ma in Vaticano tutto rimane come prima.

(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Da Expo a Roma, la riscossa dell’orgoglio italiano

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MERKEL RENZI EXPO (24)

Si sa, tutte le strade del mondo continuano a portare a Roma. Ma è meglio se passano da Milano, prima di imboccare la direzione verso la Città Eterna. Dopo il successo dell’Esposizione universale, detta familiarmente Expo, la sofferente capitale politica può trarre utili lezioni dalla capitale morale per organizzare il Giubileo straordinario dell’8 dicembre come si deve.

E’ vero: Roma non è mai stata così degradata e così mal governata, e forse c’è un nesso fra le due cose, che da troppo tempo s’accompagnano. Ed è innegabile: a meno di quaranta giorni da un evento che sarà unico per il suo carattere religioso e per l’attrattiva che produrrà nel mondo sull’Italia, i cantieri sono ancora per aria. Il sistema dei trasporti inaffidabile. E, come se non bastasse, il Campidoglio ha appena alzato bandiera bianca, toccando a un commissario fresco di nomina, Paolo Tronca, il compito di salvare il salvabile e coordinare il coordinabile. Dalla sua Tronca ha però un vantaggio: è stato il prefetto di Milano fino a ieri, dunque nel semestre vincente dell’Expo.

Ma se Roma oggi piange, Milano ieri non rideva. L’ultimo bullone all’ultimo padiglione fu fissato nella mezzanotte precedente il giorno stesso dell’inaugurazione dell’Esposizione. E alla vigilia dell’evento erano scoppiati scandali e arresti. E cortei di cosiddetti “No Expo” avevano imbrattato e devastato strade, vetrine e negozi di Milano. E poi i bastian contrari “a prescindere” della politica proclamavano che questo matrimonio fra l’Italia e l’universo “non s’ha da fare”, e comunque sarebbe fallito ancor prima di cominciare: divorzio all’italiana.

Ma proprio nel momento in cui il pregiudizio e l’ideologia scommettevano contro l’Italia, Milano insegnava come si reagisce al vandalismo, alla disorganizzazione, all’autodenigrazione quale sport nazionale e provinciale di politici e intellettuali che poco della propria patria conoscono, e nulla del mondo. Armati di spazzole, scope e detersivi migliaia di milanesi hanno subito risanato la loro città, senza chiedere né il permesso né un euro alle istituzioni per farlo. L’hanno fatto perché era la cosa giusta, semplicemente. Sporcarsi ciascuno le mani per ripulire la città di tutti, ecco da dove parte la straordinaria rimonta dell’Expo. Civismo consapevole sommato a quel che il mondo ha potuto vedere per sei mesi di fila, in tutti i sensi.

Tanta creatività e tanto lavoro. Massima sicurezza, ma garantita con discrezione. Ferreo controllo preventivo sulle opere, perché prevenire è meglio che curare. Armonia fra istituzioni di diverso colore. Ma, su tutto, quello spirito franco e lombardo, quello stile milanese di poche parole e molta fatica che fa la differenza. Che rende possibile vincere qualunque sfida, sia pure al novantesimo o a mezzanotte. Il modello Milano non è solo un esperimento ben riuscito. E’ la rappresentazione di ciò che siamo e possiamo essere, soltanto a volerlo. Nell’ora della verità, quando i muri sono imbrattati e i bulloni appena avvitati, quando non si può più tornare indietro e sembra neppure andare avanti, gli italiani danno sempre il meglio di sé. “Orgoglio italiano”, era il motto dell’Expo. Lo sia anche del Giubileo e perfino Roma, oggi in ginocchio, saprà rialzarsi viva e felice, come fa da almeno duemila anni.

Questo commento è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma ed è tratto dal sito  www.federicoguiglia.com


La Chiesa, Papa Francesco e la sobrietà

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PAPA FRANCESCO JORGE MARIA BERGOGLIO CON LA SUA BORSA

Fa un certo effetto vedere come parla e vive Francesco, proprio da francescano della modernità che rinuncia al lusso papale e s’accontenta dell’essenziale -persino abitando nella discreta Santa Marta -, e i privilegi che invece perdurano in Vaticano. Privilegi piccoli o grandi, ma egualmente odiosi: dall’ormai celebre attico del cardinale Tarcisio Bertone agli sconti un po’ sconci di varia umanità. Sconti su benzina, sigarette, alimentari e chi più ne ha, più ne metta, di cui beneficia non già il popolo dei diseredati e figli di nessuno, a cui il Papa s’è premurato di dare un tetto, la doccia e persino il barbiere, ma la cerchia curiale che non ha certo bisogno di risparmiare per mantenere il suo più che decoroso stile di vita.

Viene facile a dirsi, perché è vero: c’è anche un casta del clero. Esiste un esercito spesso invisibile di autorità religiose di medio e alto livello che da troppo tempo campa non solo di spiritualità. Ma, soprattutto, che non ha minimamente capito che la musica è cambiata per tutti. E’ cambiata per i credenti, i quali sono ancora alle prese con enormi difficoltà economiche, e che dovrebbero suggerire a chi dà l’esempio, di darlo. E perciò a vivere non come il Francesco Santo, ché sarebbe aspirazione anacronistica e insieme demagogica, ma almeno come il Francesco che oggi siede sul trono di Pietro. Non è difficile: è doveroso.

La Chiesa che guarda ai poveri non può navigare nell’oro. Non può scoprire che una parte di sé -come viene fuori da quest’ultimo scandalo di arresti, veleni e libri che documentano-, è più esperta in operazioni finanziare che in imprese dell’anima. Non può anteporre l’aspetto affaristico agli investimenti nella fede, che sono innanzitutto preghiera, carità e misericordia. Nessuno pretende che i sacerdoti girino scalzi per le strade e mendichino il pane dai loro fedeli. Né che l’Istituzione bimillenaria sperperi il tesoro della sua storia, che è tramandata anche grazie a un patrimonio di ricchezze e bellezze universali.

Ma c’è un modo nelle cose. C’è il dovere non solo di aprire le Cattedrali a tutti e a tutti far ammirare le Cappelle Sistine, come già avviene, ma pure di interpretare con dignità e onore il proprio tempo. Esattamente come Francesco, che sa gioire per un piatto di buona minestra preparato da un cuoco qualunque, senza per questo cadere nel pauperismo o nel rancore anti-borghese. La Chiesa non ha ancora il passo svelto e sobrio del suo Papa. Per questo è così difficile cambiarla e nell’oscurità c’è chi preferisce sussurrare “cambiamo lui”.

 Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Renzi, decisioni e annunci

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MATTEO RENZI

Questo articolo è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratti dal sito www.federicoguiglia.com

Grande è la confusione sotto il cielo, diceva Mao, ma non è detto, come lui invece pensava, che da ciò derivi una situazione favorevole per chi governa. Dalle tasse che si abbassano e si rialzano all’uso del contante che prima sale fino a tremila e poi forse discende, dal canone Rai intero o a rate alle pensioni da correggere, anzi, proprio no: è tutto un brulicare di anticipazioni e retromarce nella maggioranza. Anche a colpi di slogan. Su ogni provvedimento del Consiglio dei ministri si sa come parte ma non come arriva in Parlamento. E nel breve tragitto che separa palazzo Chigi dalle Camere sottosegretari, ministri, talvolta lo stesso presidente del Consiglio disfano ciò che avevano appena annunciato di voler fare. Siamo spesso all’indovina-indovinello su che cosa realmente conterrà il provvedimento di turno del governo, una sorta di abracadabra sulle intenzioni, ma soprattutto sulle norme alla fine scritte nero su bianco.

Questa è un’incertezza che alla fine disorienta i cittadini e non aiuta Matteo Renzi a costruirsi quella fama di politico decisionista a cui pur tiene. Il continuo saliscendi in ogni materia, il tira e molla di anticipazioni a rate o rimangiate, di annunci presto smentiti, di novità che s’accendono e si spengono in un batter di polemica non sono certo sinonimo di scelte a ragion veduta. Al contrario, rivelano insicurezza e incidono sulla volontà del cambiamento dichiarato e rivendicato da Renzi, ma reso fragile dalla politica che promette innovazione per poi finire sulla solita strada del “vorrei ma forse non posso”. L’avanti-indietro del governo dà inoltre la sensazione della mancanza di convinzione in quello che fa. Per dimostrare che si è diversi rispetto ai governi del passato non basta cambiare il merito delle cose. Anche il metodo ha la sua importanza, specie per un’opinione pubblica che da troppo tempo è ubriacata dall’indecisione permanente della politica, da tasse e scadenze mascherate di sigla in sigla, da misure legislative che non danno mai certezza per poter costruire un futuro con tranquillità.

Nessuno pretende che il governo dica e faccia senza riflettere e senza prevedere le conseguenze dei suoi atti. Ma quando il percorso è individuato e la decisione è presa bisogna andare fino in fondo. Anche perché le scelte dell’esecutivo dovranno poi passare l’esame puntiglioso del Parlamento, saranno comunque modificate da emendamenti e contrastate dalle opposizioni. Figurarsi se tutto ciò potrà avvenire su provvedimenti che già risultano contraddittori o incoerenti rispetto ai propositi annunciati.


Doping di Stato in Russia, una storia che ritorna

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VLADIMIR PUTIN

Per trovare un precedente bisogna risalire alle Olimpiadi che si sono svolte a Mosca nel 1980, quando la Russia ancora si chiamava Unione Sovietica. Ma il boicottaggio allora sollecitato dagli americani e promosso da una settantina di Paesi, che non parteciparono a quei Giochi, era un modo per condannare l’invasione russa e rossa dell’Afghanistan.

Trentacinque anni dopo la storia sportiva si ripete, ma a parti rovesciate: adesso si chiede che sia la Russia dell’atletica ad essere bandita dalle Olimpiadi di Rio del 2016. Almeno finché non avrà dato prove chiare e certe contro l’accusa di aver manipolato i risultati sportivi dei propri atleti in una quantità sconvolgente di casi e nell’arco temporale degli ultimi dieci anni, come denuncia l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) dopo il lavoro d’inchiesta di una sua commissione indipendente.

Esplode, dunque, uno scandalo che rischia di rappresentare il più ampio fenomeno di doping e corruzione nello sport moderno. Imparagonabile perfino all’inchiesta internazionale che sta scuotendo il mondo del calcio di Joseph Blatter, il contestato e incontrastato presidente della Fifa. Ma lo scandalo russo ha un’aggravante ulteriore: qui vengono tirati in ballo i vertici sportivi della Russia, indicati come complici delle pratiche illegali, dei laboratori alterati, dei test aggiustati. Una sorta di doping di Stato che trasforma la denuncia da storia di malcostume e di malaffare in uno scontro di politica estera ed economica dalle conseguenze imprevedibili.

E’ sufficiente ricordare che il prossimo Mondiale di calcio si svolgerà proprio a Mosca nel 2018. Tanto basta perché le autorità russe replichino con durezza, sostenendo che il rapporto della commissione e la sanzione richiesta abbiano “motivazioni politiche”, e dicendo che le accuse siano prive di fondamento. Un braccio di ferro già al massimo livello istituzionale, ben oltre l’ambito di singoli dirigenti o atleti incolpati di trattamenti inescusabili, che costituirebbero tutto il contrario della lealtà e della trasparenza che sempre s’invocano nello sport.

E’ già dietro l’angolo il rischio di un’”Olimpiade della politica”, come testimoniano le autorità moscovite, che si difendono attaccando e gridando al complotto. Ma anche lo stesso rapporto d’accusa punta il dito contro chi “governa” l’atletica in Russia, dunque in alto. Separare la giustizia dalla politica e l’accertamento della verità dall’interesse di non isolare Mosca nello scacchiere mondiale delle tante crisi, sarà molto difficile per tutti.

(Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa si cela dietro i lapsus di Berlusconi

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SILVIO BERLUSCONI

Il lapsus, si sa, è un errore involontario frutto -diceva Freud- dell’inconscio. Un errore che però rivela quanto sia cambiato il mondo dal 27 marzo 1994, il giorno della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, a oggi. Il lapsus del leader di Forza Italia è quello d’aver scambiato Matteo Renzi per Matteo Salvini, che in comune hanno solo il nome di battesimo e l’anagrafe. Invece Berlusconi ha accreditato il premier come uomo capace di “portare grinta” nel centro-destra di nuovo unito.

E così il ritorno politico e freudiano dell’ex presidente del Consiglio a “Porta a porta” suggella, in tv, che è finito un ciclo, e non solamente un tempo. Ventun anni dopo il capo di Forza Italia può ancora contribuire, certo, al rilancio del Polo delle libertà che fu. Ma non immaginare di guidarlo o di determinarne gli obiettivi e le alleanze da monarca assoluto, qual è sempre stato. E’ lo stesso Berlusconi ad ammettere in modo indiretto che non sarà più lui, domani, ad aprire le danze per palazzo Chigi, affermando che si troverà un’intesa per scegliere insieme il candidato della coalizione. Ma un sovrano designa lui, anche quando non regna più da quattro anni: il 16 novembre 2011 finì il suo quarto e ultimo governo. Anche quand’è costretto ad assistere alle altrui incoronazioni, da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, la generazione con quarant’anni di meno, in una piazza piena ma fredda di Bologna.

La fine del ventennio berlusconiano si riflette pure sulle scelte dei candidati sindaci a Roma e Milano, dove nessun nome di Forza Italia va per la maggiore. Anzi, nella capitale Berlusconi vorrebbe puntare sul terzo incomodo fra destra e sinistra, Alfio Marchini, già mandando la romana (e aspirante) Meloni su tutte le furie. Ma che cosa ha reso inattuale il ritorno di Silvio? A parte la vicenda personale della condanna per frode fiscale che gli ha fatto perdere anche il seggio di senatore, è la novità bipolare il punto di rottura. Nella speranza di cambiare l’Italia o per contestare governo e Palazzo in modo radicale, una parte dell’elettorato di centro-destra orfano del suo capo e poco attratto da politici e partitini sorti all’ombra del vuoto ha scelto l’opzione del momento. Alcuni il Renzi che governa, altri il Grillo all’opposizione.

Sono voti “in libera uscita”, che però faticheranno a tornare a casa, se il futuro sarà colorato dal populismo di Salvini, a cui Berlusconi s’aggrappa come il naufrago alla zattera che tiene a galla una fetta dell’elettorato deluso, ma rimasto.

 Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Mario Cervi, il giornalista col fioretto

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Mario CERVI

Gli storici non amano molto i giornalisti, perché li considerano superficiali. E i giornalisti non amano troppo gli storici, rimproverati di non scrivere per il grande pubblico, ma soprattutto per farsi capire tra loro. Mario Cervi era una delle poche figure a cavallo fra la cronaca e la storia che nessuno avrebbe potuto accusare di essere un facilone o di comunicare in modo astruso. La sua penna scivolava con chiarezza e intensità, sia quando polemizzava dalle pagine del Giornale, sia quando, dal 1979, cominciò a raccontare la “Storia d’Italia” nei libri con Indro Montanelli, maestro con cui affinò l’arte più importante del mestiere: saper scrivere bene. “Io scrivevo e lui metteva la firma, ma le introduzioni erano sue e davano il tocco di grazia”, ricorderà l’allievo diventato grande.

Suonano, allora, disperatamente schiette le parole che Gian Galeazzo Biazzi Vergani, già condirettore del quotidiano, ha usato per la scomparsa di Mario Cervi a novantaquattro anni: “Una grande disgrazia”. Non solo per il Giornale, che Cervi aveva contribuito a fondare nel 1974, quando pensare e scrivere in maniera “controcorrente” (come si sarebbe chiamato l’irriverente corsivo di prima pagina), era virtù di pochi in quegli anni violenti. Il lutto colpisce l’intero giornalismo, perché Cervi incarnava uno degli ultimi esempi di una generazione abituata a dire pane al pane. Ma a dirlo col fioretto, non con la clava. Impossibile trovare un suo articolo o una sua apparizione in tv in cui sia stato protagonista di risse. Era, invece, il testimone di un modo e di un mondo lontani dalle “mode progressiste”. Un conservatore, certo, ma non di altri tempi. Perciò aperto alle novità e alle libertà.

Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di formarsi alla “scuola” di quella generazione, sa che il giornalismo non è chiamato a cambiare il mondo, quasi fosse un surrogato della politica. E’ chiamato a raccontarlo, il mondo, “alla Cervi”, con descrizioni e riflessioni a volte candide come la criniera dei capelli bianchi e ondulati che portava con vezzo giovanile. Raccontare con onestà e con la forza invincibile delle proprie opinioni: questo ha fatto Cervi per settant’anni. Sapendo che solo ai lettori sarebbe spettato il giudizio che conta in una professione da esercitare “senza padrini e senza padroni”, secondo la celebre massima montanelliana.

Mario Cervi, nato a Crema il 25 marzo 1921, era entrato giovane cronista al Corriere della Sera (1945), dopo la prigionia in Germania. La gavetta l’aveva portato a fare l’inviato di politica estera, coltivando l’interesse per la storia. Dopo trent’anni di Corriere, Cervi passò a “inventare” il Giornale con Montanelli, che seguì nella fugace esperienza de La Voce. Per poi tornare da dove era ripartito: al Giornale da direttore. Come quell’Indro che al culto dei lettori aveva dedicato il cielo in una “Stanza”, anche Cervi ha risposto fino all’ultimo alle lettere dei sempre amati lettori.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Come si può reagire al terrore di Isis

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Mosque

Marciare per la pace in tempo di guerra: che amaro paradosso. Eppure, le mobilitazioni che i musulmani di Francia, ma anche d’Italia hanno annunciato in varie città contro il terrorismo di matrice islamica, sono un segnale che la sveglia è suonata per tutti, quel 13 novembre parigino ed europeo che porteremo dentro di noi come l’11 settembre americano e universale di quattordici anni fa. Arriva un momento nella vita della gente e non solo nella storia dei popoli in cui le coscienze più addormentate si risvegliano. E le persone più lontane fra loro si uniscono. E i governi separati da interessi, da gelosie, perfino da un Oceano immenso e blu si mettono insieme per non soccombere alla barbarie. Ciascuno facendo la cosa giusta.

Quella di noi europei è chiara come il sole che si vuole oscurare col sangue degli innocenti: non lasciare mai più sola la Francia. Perché la sua libertà mitragliata nell’ora più bella della sera, che è quella dello stare insieme per un caffè, per un concerto, per una passeggiata, appartiene a uno stile di vita che non è negoziabile. La “cosa giusta” che perciò si chiede, oggi, ai musulmani d’Europa è di condividere e non solamente di rispettare i valori morali e costituzionali alla base del nostro vivere civile. È un bene, dunque, che si muovano anch’essi al nostro fianco, rompendo ogni loro tabù e nostro pregiudizio.

Ma intanto Parigi è in guerra. Ha appena ucciso il mandante dell’eccidio e lanciato l’allarme sul rischio di attacchi chimici e batteriologici. Intanto l’Isis, l’autoproclamatosi Stato islamico, istiga e organizza la sua criminale battaglia contro le nazioni, le persone, perfino le antiche rovine (come la romana Palmira devastata in Siria) che hanno fatto della dignità della persona un credo senza confini. Intanto ci si domanda: ma quanto siamo sicuri in Italia?

In Europa non ci sono oasi di pace, perché il nemico vestito di nero ama farsi saltare in aria dove gli capita pur di ammazzarci tutti. Non dà valore neanche alla sua morte: figurarsi che gl’importa della nostra vita. Ma proprio questo ci rende invincibili. Nulla come la difesa della vita, nostra e dei nostri figli e nipoti, ci dà la carica per reagire ai nuovi barbari. Vivere: ecco la felicità che siamo pronti a condividere con chiunque, ma a cui nessuno può chiederci di rinunciare. Chi attenta al nostro bene supremo, e in modo così vile, deve sapere che ha fatto male i suoi conti. Sulle rovine di Palmira e del Bataclan gli europei stanno riscoprendo lo spirito dell’umanesimo che era in loro, e che d’ora in avanti nessun kamikaze riuscirà più a cancellare.

(Articolo pubblicato sulla Gazzetta di Parma e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Bruxelles e Parigi, come si vive con il terrore

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vignetta isis

I sette giorni che hanno cambiato il mondo. Dal sangue innocente versato a Parigi all’allarme rosso a Bruxelles. Da quel 13 novembre francese ed europeo che porteremo per sempre nell’animo come l’11 settembre americano e universale di quattordici anni fa, alla capitale del Belgio e soprattutto dell’Unione europea che in queste ore sta vivendo l’oscuramento, come non accadeva fin dai tempi dell’ultima guerra mondiale.

E’ passata solo una settimana, eppure il nostro modo di percepire le cose e gli altri è stato stravolto. Ora diffidiamo dello straniero della porta accanto, che fino a ieri neanche ci preoccupavamo di conoscere. Adesso vogliamo sapere dai nostri ragazzi dove andranno la sera, e magari buttiamo lì, fingendo che “tutto deve continuare come prima” (com’è bello, ma grottesco ripetere) di lasciar perdere quel noto e affollato locale.

Oggi andiamo in metropolitana, saliamo su un treno, prenotiamo un aereo e subito fotografiamo col pensiero, come degli ossessionati cronisti di noi stessi, quanto ci circonda. Quasi fossimo prossimi testimoni di chissà quali e orribili eventi. Non più liberi, dunque, ma insicuri. Insicuri nei discorsi con gli amici, nei viaggi in programma, nelle scelte elementari d’ogni giorno, che erano automatiche fino al 13 novembre, che sono diventate piene di attenzioni dopo l’orrore di Parigi.

E’ inutile negarlo: la psicosi della gente ha già subìto il suo “attentato”. Nessun europeo ragiona più o si comporta con quella esuberanza senza confini che era ed è il nostro valore condiviso. L’umanesimo di cui siamo imbevuti impone regole e principi di convivenza. Ma non tollera muri, negozi sbarrati, strade deserte e vigilate coi blindati da soldati armati per il rischio di attentati: il terrorismo è guerra anche nei rituali che impone alle società libere per difendersi.

Come in altri e non meno drammatici tempi, quando l’interrogativo era quello se fosse giusto “morire per Danzica”, cioè per difendere la Polonia invasa dalle truppe di Hitler – l’episodio che scatenò il secondo e terribile conflitto mondiale -, oggi la domanda è come “vivere per Parigi”. Come reagire senza paura anche nella nostra vita quotidiana. In queste ore il cielo non è più grigio, come accade sovente per la pioggia, ma addirittura nero sopra Bruxelles. Quel nero col quale i terroristi di matrice islamica amano presentarsi per essere più minacciosi. Ma sette giorni dopo la risposta è una sola: viva la Francia!

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com      


Argentina, cosa cambia con Mauricio Macri

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“Cambia, todo cambia”, cantava l’argentina Mercedes Sosa: tutto cambia. E i suoi connazionali l’hanno presa alla lettera, eleggendo al vertice dello Stato un borghese di cinquantasei anni d’origine italiana, Mauricio Macri. È cambiato il tango. Tifoso e già presidente del Boca Juniors, la squadra di Maradona anch’essa di forti radici italiane, è un liberale in economia in un Paese sedotto dall’assistenzialismo. Ma il nuovo presidente della Repubblica è soprattutto quanto di più lontano si potesse immaginare dall’ultima caricatura di peronismo incarnata da Cristina Kirchner, la donna che non riuscì a diventare Evita, pur avendolo desiderato.

Dopo dieci anni di kirchnerismo, prima interpretato con autoritarismo dal defunto marito Néstor (2003-2007) poi col populismo della subentrata Cristina fino a oggi, l’Argentina volta pagina. “Cambiemos”, cambiamo, si chiama, guarda caso, la coalizione di centro-destra che ha portato il nuovo presidente a battere, col 51% dei consensi al ballottaggio, un altro e ancor più oriundo italiano di lui, il cinquantottenne Daniel Scioli, fermatosi al 48%. Nella generale voglia di rinnovamento Scioli ha pagato proprio il fatto d’essere “il candidato di Cristina”, pur essendolo molto meno, in realtà, della parte che ha dovuto recitare. Anche per ragioni anagrafiche, e non solo per l’origine tricolore dei rispettivi padri, Macri e Scioli sono stati avversari, ma non nemici. È una novità nella bolgia di Buenos Aires, dove solo le partite dividono più dei partiti. La stessa campagna elettorale con inediti confronti all’americana e il tenero ringraziamento finale del vincitore ai suoi elettori (“Gracias, ahora más juntos que nunca”, grazie, adesso più uniti che mai), e uno scatenato e inusuale suo ballo, svela che forse sta cambiando il mondo, laggiù, alla fine del mondo.

Finisce l’era pigliatutto del peronismo, all’ombra del quale i candidati si rifugiavano per non perdere. Mauricio Macri ha invece rischiato in proprio, forte dell’esperienza più che di ex deputato, di sindaco di Buenos Aires, che ha svolto per due mandati con pragmatismo. E con una famiglia di imprenditori nel mondo delle costruzioni alle spalle, che non gli perdonerà di aver scelto la politica, ma dove ha intanto coltivato l’intraprendenza in un Paese seduto, ciclicamente incerto e insicuro. Il nuovo presidente fu rapito poco più che trentenne nel 1991, e i suoi dovettero pagare un riscatto milionario in dollari per riaverlo. Già allora il cognome Macri, che rivela l’origine calabrese del padre Francesco nato a Roma (e il nonno Giorgio fu uno dei fondatori dell’Uomo Qualunque nel secondo dopoguerra), aveva perso l’accento finale sulla “i”, per essere pronunciato “Màcri”, da argentino fra gli argentini. Com’è l’intero percorso di Mauricio, dalla nascita l’8 febbraio 1959 a Tandil – quattro ore d’auto dalla capitale – alla laurea in ingegneria civile alla Pontificia università cattolica di Buenos Aires. Quattro i figli da due matrimoni.

Coi suoi quarantadue milioni d’abitanti (di cui la metà discende da italiani) in una superficie grande nove volte l’Italia, e perciò ricca di tutto ciò che la natura, il clima e le emigrazioni europee le hanno donato, l’Argentina è da tempo una potenza incompiuta e malata. La crisi economica che alla fine del 2001 portò all’insolvenza, rovinando una parte notevole della popolazione (e colpendo anche 450 mila risparmiatori italiani che avevano comprato obbligazioni argentine), e poi la corruzione dilagante della sua classe dirigente e la credibilità minata sul piano internazionale hanno a lungo impedito a Buenos Aires di riprendersi il ruolo guida dell’America latina. Kirchner marito e moglie pigiavano sul pedale del nazionalismo economico e della prepotenza politica anche contro la stampa, occhieggiando più alla sinistra ideologica del Venezuela, della Bolivia e in parte del Brasile, che non a quella riformista del Cile e del vicino Uruguay.

L’arrivo di Mauricio Macri dovrebbe rovesciare questa prospettiva strabica per un Paese tanto orgoglioso e importante, che non può snobbare gli investimenti stranieri, né considerare gli Stati Uniti con acredine. “Debellare la povertà”, annuncia il presidente come primo obiettivo. Ma la novità argentina dovrebbe stimolare soprattutto l’Italia, che ha sempre avuto un rapporto preferenziale con la sua grande sorella sudamericana: e nessuno meglio di Papa Francesco, crocevia dei due mondi, lo testimonia. Eppure, nonostante la rivolta della folta comunità italiano-argentina, Cristina Kirchner ha lasciato sradicare e spostare la statua di Cristoforo Colombo da dietro il palazzo presidenziale della Casa Rosada, dove sorgeva da decenni. Oggi il navigatore genovese e del mondo s’è preso una bella rivincita.

(articolo pubblicato sul quotidiano Il Messaggero e su www.federicoguiglia.com)


Sorelle invisibili

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I LIBRI DI UNA VITA

Lui è un importante direttore d’orchestra, lei è un’affermata arpista. Riccardo e Cecilia Chailly, fratello e sorella che hanno in comune il talento e la Scala di Milano, di cui il primo è l’attuale direttore musicale e in cui la seconda esordì diciannovenne come prima arpa. E che dire del vulcanico e popolare Vittorio Sgarbi, pur sempre fratello dalla creativa Elisabetta, direttrice editoriale? O dei fratelli doppiatori Laura e Fabio Boccanera (alias Jodie Foster e Johnny Depp) oppure di Luca e Monica Ward, nei panni immortali del gladiatore Massimo Decimo Meridio il primo e del cartone Lisa Simpson la seconda?

Oggi appare scontato che, dietro un grande fratello, possa esserci anche una grande sorella. Anzi, vale sempre più il contrario: l’attore Peter Fonda è il fratello dell’assai più celebre Jane. Si è spesso “fratelli di” e non più soltanto “sorelle di”.

Ma la parità fraterna conquistata sul campo, l’arte respirata in famiglia o coltivata nella vita e condivisa da fratello e sorella non era di regola fino a poco tempo fa. Per svariati e lunghi secoli tra un figlio e una figlia bravissimi entrambi il padre decretava il destino della carriera in prima linea per il maschio e quello della famiglia per la femmina in retrovia. Destinata, la figlia, a diventare moglie e madre a scapito dell’ingegno e talvolta perfino del genio. Lo ricorda la vicenda di Maria Anna Mozart, e basta il cognome per capire di quale grandezza musicale si stia parlando, nientemeno che la sorella di Wolfgang Amadeus.

La vicenda della sorella artisticamente “incompiuta”, nata nel 1751 a Salisburgo dov’è morta nel 1829, è stata da tempo riportata alla luce dall’opera teatrale The Other Mozart, l’altra Mozart, scritta da Sylvia Milo. Pur avendo fin da bambina una predisposizione e una capacità per niente inferiori a quelle del fratello Wolfgang, e pur essendo vissuta più del doppio degli anni dell’eccezionale compositore e musicista morto appena trentacinquenne, “Nannerl”, com’era soprannominata, dovette smettere ben presto la vita di concerti che aveva seguito col fratello in giro per l’Europa. Lei suonava il clavicembalo e il piano, insegnava quest’arte, fu preziosa e spesso prima ascoltatrice delle opere create da Wolfgang. Ma per ragioni economiche il papà Leopold dovette scegliere di continuare a sostenere l’attività e i viaggi dell’uno o dell’altra. E scelse il figlio maschio. Visto l’esito, non si può certo dire che il padre abbia sbagliato. Ma nessuno può sapere che cosa sarebbe successo se la bravissima Nannerl avesse avuto la stessa opportunità, peraltro meritata, perché Wolfgang fu il primo a riconoscere ed ammirare il talento unico della sorella, esortandola a comporre. “Il tuo Lied è bello, ti prego, cerca di fare più spesso queste cose”, le scriveva.

Sorelle oscurate per troppo tempo. Ma come sarebbe oggi il mondo, se anziché in cucina o ad accudire figli le tante Nannerl dell’umanità fossero allora salite sul podio dei loro fratelli? Già anni fa aveva provato a dare una risposta un libro, “Della stessa madre, dello stesso padre”, firmato da Rita Calabrese ed Eleonora Chiavetta, entrambe docenti universitarie. Si raccontano le storie di tredici sorelle di personaggi importanti. Donne scrittrici, pittrici, musiciste “o che avrebbero potuto esserlo”, comunque passate alla storia con molta meno attenzione e fama dei loro fratelli. Per esempio Cornelia Goethe, sorella coltissima, ma sfortunata del grande autore del Faust (opera nata nell’estate del 1773). Padroneggiava cinque lingue, a partire dal latino e greco antichi, suonava il piano e cantava. Ma la partenza del più famoso fratello la indusse a vivere all’ombra di ciò che sarebbe potuta diventare, se solo l’epoca e la famiglia avessero scommesso sulla sua riconosciuta bravura. Morirà, da poco sposata e mamma di una bambina – com’era la sorte di quelle “sorelle dimenticate” -, ad appena ventisei anni, preda infelice della solitudine, nonostante la nuova famiglia creata.

Oppure la storia di Dorothy Wordsworth, poetessa della prima metà dell’Ottocento e sorella del più noto William, uno dei padri del Romanticismo inglese. Infanzia difficile per la scomparsa prima della madre e poi del padre, Dorothy fu affidata a due zie, altra usanza del tempo. Ma era donna di talento. Eppure, il suo racconto del viaggio in Scozia col fratello fu pubblicato solamente vent’anni dopo la morte. Oppure la vicenda di Fanny Mendelssohn, pianista e sorella del più celebre Felix, musicista tedesco sempre della prima metà dell’Ottocento. Compositrice dalle grandi potenzialità, fu fermata anche dal padre, “la musica per Felix forse diventerà professione, per te dev’essere solo ornamento”, distingueva tra i figli. Ma il ricordo di queste e molte altre “sorelle di” vive, più che di vita propria, per come è stato raccontato e tramandato dai loro fratelli.

E allora l’interrogativo rimane: come sarebbero state l’arte e la cultura europea degli ultimi tre secoli, per non andare troppo indietro, se anche queste sorelle invisibili o quasi avessero avuto la possibilità e la libertà di esprimersi? Quanto avrebbero potuto influire sul pensiero, sul costume e soprattutto sul potere di epoche incarnate e interpretate solo dai loro fratelli?

(Pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Chi stona sui canti di Natale

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NATALE

Ci sono tanti modi per non urtare la sensibilità degli altri, e la scuola pubblica ha il diritto-dovere di insegnarli tutti. Valori come il rispetto, il civismo, l’accoglienza non sono retorica buonista, ma scelte degne e forti che diventano quasi automatiche se i tuoi maestri te le hanno trasmesse fin dai banchi. Spesso d’intesa e talvolta persino a dispetto dai discorsi in famiglia o tra amici, quando il pregiudizio, l’umana paura o un’opinione diversa possono rendere più complicato un compito tanto naturale.

Ma tendere una mano alla diversità e aprire gli occhi e il cuore dei ragazzi all’universo che cambia, non prevedono mai la rinuncia a quello che sei. Peggio, al considerare la tua cultura come una possibile fonte di “provocazione” per la differente cultura altrui. E perciò a nascondere la tua identità, a mortificarla, a sopprimerla, addirittura. Quasi fossimo i figli del nulla: il trionfo del nichilismo, non certo del laicismo. Ma in una scuola di Rozzano, nel Milanese, in nome di una supposta laicità sono stati aboliti i canti di Natale. E tolti dalle pareti gli ultimi crocifissi rimasti.

Come se intonare insieme “Tu scendi dalle stelle”, tradotto e cantato in ogni lingua del mondo, a Rozzano potesse offendere il sentimento di bambini e ragazzi stranieri o di famiglie musulmane. E che tale scelta, difesa dal preside e contrastata da diverse famiglie, avvenga proprio all’indomani del 13 novembre dell’anno che ha sconvolto per sempre Parigi e il mondo libero, rende la cosa tremendamente seria e non solamente grave. Grave è il pensiero che un canto, e quelli di Natale sono tra i più dolci e docili che siano stati composti, possa determinare un conflitto, anziché un abbraccio. Poche arti come la musica uniscono al di là di ogni frontiera. E comunque il canto di Natale è una delle testimonianze della bi-millenaria cultura italiana, ben al di là della nascita della speranza -il Cristo- per chi crede. Anche i laici e gli atei lo cantano senza esservi turbati né convertiti. Non si manca proprio di rispetto a nessuno condividendo uno dei propri canti universali.

Meno che mai a quel venti per cento di alunni non italiani, che Marco Parma, il reggente dell’istituto al centro della polemica, cita a giustificazione della sua decisione. “Io non sono d’accordo con quel che dici, ma darò la mia vita perché tu possa sempre dirlo”, fu attribuito a Voltaire, un padre dell’illuminismo. Ma lui non ha mai detto che le sue idee potessero essere di ostacolo alla libertà. Erano, al contrario, il presupposto della libertà.

(Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e sul sito www.federicoguiglia.com)


Cosa c’è di nuovo tra gli Imam

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Quando stringiamo la mano a uno sconosciuto, la prima cosa che diciamo di noi, e chiediamo a lui, è il nome: come ci chiamiamo. È l’anticamera per raccontare subito chi siamo, da dove veniamo, di che vogliamo conversare. Dopo le stragi di Parigi ad opera del terrorismo di matrice islamica -per continuare a chiamare gli atti e gli attentatori per come essi stessi si sono presentati-, per molti italiani l’idea o la voglia di conoscere lo straniero che gira nel quartiere sta diventando un tabù.

Guai, però, a condannare l’umana paura dei tanti, senza prima sforzarsi di capirla. Guai a non comprendere quanti esprimono semplicemente un timore, e spesso lo superano conoscendo l’interlocutore del quale diffidavano. Ecco perché la prospettiva che l’Associazione islamica italiana che forma i suoi imam e le sue guide religiose trasferisca la propria sede nazionale da Roma nel Veronese, nell’evidente intento di migliorare la situazione per tutti, è un evento importante che si può leggere in due modi opposti: con la perplessità di chi non si fida più di niente, figurarsi se può fidarsi di chi professa una religione così lontana dal culto cattolico della nostra prevalente tradizione, e dal valore laico della libertà sancito dalla storia europeo-italiana. Oppure, quest’improvviso trasloco della fede può essere vissuto come un’apertura in tutti i sensi: l’apertura di una sede nuova quale atto di trasparenza e di “educazione” degli imam alla Costituzione, alla lingua italiana, ai principi non negoziabili della democrazia occidentale.

Un’apertura che potrebbe far bene a tutti. A molti di loro, per cominciare, oggi costretti alle catacombe degli scantinati, al buio delle periferie, agli ambienti frequentati anche da infrequentabili. Invece i futuri imam istruiti alla luce del sole potranno presentarsi “urbi et orbi”, cioè alla città e al mondo, come usa dirsi nelle ricorrenze cristiane di San Pietro. E i loro credenti credere senza nascondersi. E farci vedere volti che mai cogliamo col sorriso, anche quando sorridono sotto il velo o la barba lunga. La scuola di formazione potrebbe aiutare a farci conoscere gli imam di domani per nome e cognome, per le loro prediche in italiano (l’arabo è bello, ma non può essere la lingua ufficiale nelle moschee della Repubblica), per il comportamento concreto contro ogni violenza. O per l’omesso comportamento. A volte un piccolo ponte attraversa un grande muro. Non bisogna avere paura di accompagnare chi si mette in cammino.

Commento pubblicato su Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Il Giubileo senza paura dei due Papi

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Poteva rinunciare al tradizionale omaggio all’Immacolata in piazza di Spagna, o all’abbraccio dei sofferenti che l’attendevano. Poteva spegnere la novità delle luci e dei suoni spettacolari proiettati sulla basilica di San Pietro. Poteva ridurre l’inizio del Giubileo straordinario a un evento più per le televisioni che per la gente: la misericordia senza rischi in mondovisione, anziché la misericordia messa in discussione dall’orrore della violenza, eppur riaffermata e condivisa di persona con gli oltre cinquantamila pellegrini accorsi d’ogni dove per attraversare la Porta Santa aperta dopo cinquant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. Ma Francesco non ha fatto un passo indietro. Neanche per meglio andare avanti nell’anno giubilare da lui promosso e anticipato con un viaggio fuori programma, e pericoloso, in Africa.

Alle preoccupazioni universali dopo le stragi di Parigi, al panico dilagante per la guerra di terrorismo dichiarata dall’autoproclamatosi Stato islamico, il Papa venuto dalla fine del mondo ha risposto in modo semplice e sobrio: la vita continua come prima e come sempre. “Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato”, ha detto il Pontefice in una Roma certo sorvegliata come mai. Ma anche i controlli intensi attorno al Vaticano e lungo la rete di trasporto nella capitale sono stati fatti e vissuti con paziente serenità. Come se il messaggio alla normalità lanciato dal Pontefice fosse già penetrato nel cuore dei cittadini italiani e dell’universo, che non hanno voluto cambiare le loro decisioni né preghiere. Tutte le strade del mondo portano ancora a Roma e neanche il 13 novembre di Parigi ha condizionato l’8 dicembre del Giubileo.

“Abbandonare la paura” non significa, naturalmente, far finta di niente. Alla sicurezza spirituale che Francesco ha trasmesso agli altri, anche con la tenera presenza di Benedetto XVI al suo fianco, deve corrispondere la sicurezza materiale che solo le istituzioni possono garantire ai loro cittadini. Associata alla risposta politica, che spetta ai governi, sul “che fare” contro il terrorismo. Ma al di là del ruolo delle forze di polizia e delle strategie che i Paesi stanno adottando per difendere la libertà colpita dall’Isis, è la società nel suo insieme che è chiamata a reagire. Per questo è importante l’esempio laico del vescovo di Roma, che non ha modificato la sua agenda religiosa, né la volontà di perseguire la misericordia in epoca di tanto odio.

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Banca Etruria, perché si parla di Maria Elena Boschi

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Nell’improvvisa ma già bollente vicenda delle quattro banche regionali salvate, è impossibile non stare dalla parte dei risparmiatori traditi o forse addirittura truffati: lo stabiliranno le indagini giudiziarie subito aperte e la commissione parlamentare d’inchiesta sollecitata dall’opposizione e condivisa dalla maggioranza. Per una volta la politica concorda sul voler vederci chiaro, oltre che sul diritto di cittadini che hanno perso tutto o moltissimo di riavere quanto avevano malamente, ma non per colpa loro, investito in obbligazioni.

Ma quell’intesa di massima che i partiti sembrano aver trovato in nome di un elementare dovere di giustizia e di equità (purtroppo non è falsa retorica constatare che alla fine paga sempre la povera gente), vacilla sul nome di Maria Elena Boschi. È l’importante ministro delle Riforme, probabilmente la più popolare dell’esecutivo. Gran parte dell’opposizione ne chiede le dimissioni sull’onda dello scrittore Roberto Saviano, che ha chiamato in causa il governo per conflitto d’interessi. Saviano si riferisce al fatto che il vicepresidente della Banca Etruria, uno degli istituti coinvolti e salvati, per otto mesi sia stato Pier Luigi Boschi, proprio il papà del ministro. “Mio padre è una persona per bene, dal governo non c’è stato alcun favoritismo”, ha detto la figlia messa sott’accusa, ma difesa da tutto il suo partito. Compresa la minoranza interna da sempre ribelle al “renzismo”, incolpato di voler trasformare il Pd in altra cosa. “Chiedere le dimissioni è un’esagerazione”, ha commentato Pier Luigi Bersani, che pure considera giusto “il ragionamento generale di Saviano”.

Ma il problema dell’opportunità o meno delle dimissioni si risolverà da sé. La vicenda ha troppi riflettori perché non venga esaminata con scrupolo, individuando i responsabili dello scandalo. L’indignazione suscitata anche dalla tragedia di Luigino D’Angelo, il pensionato che si è ucciso dopo aver perso centomila euro di risparmi, impedisce qualsiasi commedia degli equivoci. Se dagli atti e dai fatti risulterà che il ruolo del ministro Boschi sia o possa diventare incompatibile con quello di governo, le dimissioni non saranno né giuste né sbagliate, ma inevitabili. Se invece si ritiene che Maria Elena debba mettersi da parte solo in quanto “figlia di”, a prescindere da comportamenti tutti da accertare, la questione non si pone, in una vicenda drammatica dove serve solo la verità e nient’altro che la verità.

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sitowww.federicoguiglia.com



Ecco su cosa decideranno Barbera, Modugno e Prosperetti

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Fumata bianca, dopo trenta votazioni a vuoto: Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti sono, dunque, i tre nuovi giudici della Corte Costituzionale eletti dal Parlamento. Con un incredibile ritardo di mesi nell’elezione e tra violente polemiche politiche che già divampano, perché l’esito è frutto dell’accordo inedito fra Pd e Cinque Stelle, dopo quello fallito fra Pd e Forza Italia. Ma tant’è.

Dai suoi primi sessant’anni, che ricorreranno proprio nel 2016 ormai alle porte, la Corte non è mai stata così importante come oggi. Dalla tardiva nascita nel 1956 e dopo i primi tempi di timida convivenza col Parlamento, questo tribunale che giudica le leggi -col potere, più volte esercitato, di eliminarle dall’ordinamento-, adesso s’è conquistato un ruolo forte. Talvolta sostitutivo della spesso inconcludente politica.

La Corte decide chi ha ragione nel conflitto permanente fra Stato e Regioni. Ammette o respinge i referendum promossi dai cittadini. Cancella in tutto o in parte leggi fondamentali della Repubblica, com’è accaduto anche di recente su temi sentitissimi dagli italiani quali le pensioni e l’immigrazione. E di alto valore simbolico come la fecondazione assistita. Incide persino in materie come il sistema di voto con cui il popolo sovrano dovrà andare alle urne. Se non c’è più la celebre legge-porcata, come il suo padre putativo arrivò a chiamare la propria creatura, è perché la Corte Costituzionale sentenziò che quella legge elettorale contrastasse con i principi della Costituzione.

Non si comprende, allora, come il potere legislativo di Camera e Senato chiamato a eleggere tre dei quindici membri che compongono il collegio costituzionale, si sia tanto a lungo impantanato. Al punto da essere stato costretto alla seduta a oltranza, come lo scolaretto messo in castigo perché non fa i compiti. Ma come possono i legislatori, proprio loro, aver sottovalutato il rilievo di quello che la Consulta ha fatto e soprattutto potrà fare? E’ prevedibile che la nuova e per alcuni controversa legge elettorale, l’Italicum, potrà finire all’esame della Corte. Così come la riforma del Senato in cammino, pur essendo di natura costituzionale e destinata a essere sottoposta agli italiani con referendum. Ma sulla quale pure la Consulta, se investita (non manca gente che voglia farlo), potrà e forse vorrà dire cose importanti. Se la Corte ha assunto una funzione tanto centrale, è perché per anni la politica s’è defilata, rinunciando ai suoi compiti elementari.

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Ecco contro chi Renzi deve battere i pugni

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MATTEO RENZI

Quando il governo italiano alza la voce a Bruxelles, viene sempre da dire meglio tardi che mai. Se anziché prendere per oro colato i diktat e i capricci dell’Unione europea l’Italia imparasse a battere qualche buon pugno sul tavolo al momento giusto, come fanno gli altri Paesi che hanno in ballo i loro interessi nazionali, oggi avremmo un’idea molto diversa dell’Europa e della sua dirigenza. E la polemica che Matteo Renzi ha aperto con Angela Merkel per le scelte euro-tedesche su energia, banche o immigrati è solo la conferma dell’eccezione alla regola: di solito digeriamo qualunque cosa il mondo ci propini, senza neanche il piacere e la dignità di dissentire.

Lo testimonia l’incredibile vicenda dei marò, in ostaggio dell’India dal 15 febbraio 2012. D’accordo, allora, prendersela con Frau Angela: ma con l’India come pensiamo di farci sentire, quattro Natali dopo? A colpi di telefono per gli auguri sotto l’albero, come lo stesso ministro della Difesa, Roberta Pinotti, certamente farà con Salvatore Girone, il fuciliere di Marina che vive all’ambasciata di Nuova Delhi? Destino a cui Massimiliano Latorre, l’altro fuciliere, è per ora scampato solo perché colpito da un’ischemia che gli ha consentito di tornare in Italia per la cura e convalescenza “a tempo”. Entrambi i marinai, si sa, sono accusati dall’India d’aver sparato e ucciso Valentine Jelestine e Ajesh Binki, due pescatori su un peschereccio indiano, mentre i fucilieri erano in missione di anti-pirateria su una petroliera italiana. Ma a parte il fatto che i due militari agivano su una nave battente bandiera italiana (immunità funzionale), che navigavano in acque internazionali (giurisdizione), che si proclamano innocenti in grado di dimostrarlo e documentarlo (presunzione di non colpevolezza), che le famiglie delle povere vittime sono state risarcite dall’Italia (gesto di pace e amicizia), che le operazioni anti-pirateria sono un atto di tutela universalmente sollecitato (diritto alla sicurezza), a parte tutto ciò, dov’è il processo? E’ una situazione grave e imbarazzante, che ha indotto il governo italiano ad attivare l’arbitrato internazionale ad Amburgo tre anni e mezzo dopo l’inizio della contesa. Altro lungo tempo passerà. Nonostante le belle parole e il conforto istituzionale e telefonico in un caso che è sorto all’epoca del governo-Monti, e che è stato gestito con un errore dopo l’altro, la questione politica oggi è chiara: se Roma alza la voce con Bruxelles, si faccia sentire anche con Nuova Delhi.

Commento pubblicato su Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Come il 2015 ci ha fatto svegliare

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isis

Si chiude un anno che non dimenticheremo mai, si spengono le luci del Bataclan, quel luogo-simbolo del ritrovo spensierato e spettacolare che il 13 novembre s’è trasformato in un racconto reale del terrore e dell’orrore a Parigi. Scorrono le ultime ore di un 2015 vissuto senza più innocenza: il sentimento forte delle persone libere in un mondo senza frontiere. L’innocenza è stata perduta a colpi di violenza e di proclami, soprattutto da quando l’Isis, l’autoproclamatosi Stato islamico, ha intensificato la sua campagna di morte e di rancore nei Paesi che più amano la vita e sono attenti verso gli altri. Lo testimonia l’altro grande evento a cavallo della fine dell’anno, il Giubileo della misericordia voluto da Papa Francesco per aprire i cuori e le menti non solo dei credenti, e che ha pagato l’amaro spirito del tempo: meno visitatori del previsto per le strade di Roma, che poi sono quelle dell’universo, e tanti allarmi preventivi. La sicurezza che vigila per evitare il peggio. Come se la stessa idea della misericordia, forse l’atto più pacifico che un essere umano possa provare, debba essere protetta giorno e notte contro la barbarie vestita di nero che ha già colpito ovunque, e non solo in Francia.

Perdere l’innocenza dei viaggi di festa senza altra mèta che non quella del conoscere, del condividere, del divertirsi, perdere l’innocenza che oggi ti porta a sospettare di tutto, perdere l’innocenza dei grandi sogni che non muoiono all’alba significa che il terrorismo ha già cambiato le abitudini del nostro mondo. Ma può anche significare la nascita di una responsabilità più consapevole nella difesa di principi che sembravano acquisiti per sempre. E che invece bisogna coltivare di nuovo e ogni volta, perché nessuno può uccidere nessuno, se la società reagisce con la coscienza dei suoi valori. Anche il Bataclan tornerà a essere il Bataclan. Anche il Giubileo tornerà a mobilitare pellegrini e visitatori.

L’anno che ci lasciamo alle spalle non è perciò soltanto l’anno che ci ha reso tutti un po’ più tristi e molto preoccupati. È anche l’anno che ci ha dato la sveglia. Che ci ha affratellato alle vittime, perché ormai siamo tutti francesi al di là della Marsigliese, che è ridiventata canto universale. Dalla tragedia di Parigi e dei popoli che stanno rischiando la propria innocenza di fronte al terrorismo è venuta una scossa che vale più dei mille allarmi: crediamo in valori che sono invincibili, anche quando sono macchiati di sangue innocente.

Commento pubblicato su Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


A chi ha parlato Mattarella?

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SERGIO MATTARELLA

Era seduto come se dal salotto di casa parlasse agli amici e ai familiari. Giacca e cravatta, certo, ma non un’eleganza da cerimonia. E i fogliettini del discorso poggiavano e ballavano sulle ginocchia. Così Sergio Mattarella, in modo semplice e con le gambe accavallate, e un’aria un po’ spaesata e un po’ divertita, e la esse sibilante che lo rende molto umano, cioè uguale alle difficoltà dei comuni mortali pur essendo lui il presidente della Repubblica, s’è rivolto ai cittadini nel primo messaggio di fine anno. S’è diretto alla gente, dunque, anziché, com’era d’uso al Quirinale, ai partiti e alle loro polemiche. Venti minuti di buoni sentimenti, un racconto piano e mai emozionante, ma con indicazioni abbastanza chiare. Sia quando il capo dello Stato ha denunciato l’insopportabile evasione fiscale e la diffusa illegalità, sia quando ha ricordato che un grande Paese come l’Italia ha un patrimonio straordinario da valorizzare, “la bellezza, il buon gusto, il genio, la creatività”.

Niente di rivoluzionario, perciò, nessun colpo a sorpresa né annuncio destinato a lasciare il segno nella storia. Il presidente ha scelto la cronaca, tenendosi ben alla larga dalla politologia di pronto intervento, ed è una novità. Abbiamo sentito idee e parole che ogni italiano può condividere in tutto, in parte o in niente, ma che di sicuro non vanno a popolare quella terra di nessuno abitata dal politichese istituzionale. Anche in politica a volte la forma è sostanza, e sempre la cosa più difficile è essere facili. Mattarella ci ha provato puntando soprattutto sul lavoro, che è la speranza decisiva per i giovani. Ha citato l’esempio di tre donne – Fabiola Gianotti, Samantha Cristoforetti e Nicole Orlando – che hanno fatto del loro impegno un’eccellenza dell’Italia nel mondo. Come dire: visto che si può credere nei grandi sogni?

Il fatto poi che la priorità da lui individuata non siano state l’Italicum, l’abolizione del Senato o le altre misure che passa e manda in visibilio il convento della politica, bensì la disoccupazione, dimostra quali fossero lo spirito e il pubblico col quale Mattarella voleva interloquire: la gente, non i politici. Che si sono subito divisi tra chi ha applaudito l’intervento (Matteo Renzi e la maggioranza) e chi l’ha criticato (Beppe Grillo, Matteo Salvini e le opposizioni). Il solito gioco delle parti.

Ma stavolta non vale, perché i giocatori al tavolo del salotto presidenziale e televisivo non erano Lorsignori, ma più semplicemente gli italiani.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Perché l’Europa fa harakiri su Schengen

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CONSIGLIO EUROPEO

C’era una volta Schengen, o forse c’è ancora. Certo è che dopo il ripristino dei controlli alle frontiere in Svezia e in Danimarca, e la tentazione della Germania di fare altrettanto, e la costrizione della Francia a chiudere tutto e subito nelle ore del drammatico 13 novembre, l’interrogativo è inevitabile: che Europa potrà mai restare in piedi se, un pezzettino dopo l’altro, si sbriciola la colonna portante della libera circolazione di persone tra i ventisei Paesi che avevano aderito al trattato o alla sua area geografica?

L’Europa senza confini è il cardine stesso dell’integrazione. Non è un semplice caso se, quando si viaggia, non c’è più bisogno di esibire il passaporto alle autorità: è la novità principale della grande svolta fra gli Stati e i popoli da quasi trent’anni. Nessun europeo si senta straniero nella patria comune. Lo “spazio Schengen” è il trattato che ha realizzato il sogno della riconciliazione e della speranza. Erasmus è il progetto più bello e romantico che ha permesso a generazioni di ragazzi di incontrarsi, di conoscersi, di arricchire i loro studi. Ma Erasmus è proprio il frutto ormai maturo di Schengen, cioè di un’Europa che non ha paura né di mettersi in cammino né di spalancare le sue porte, accogliendo il viandante come se fosse, ovunque si trovi, sempre a casa sua.

Se invece basta un’ondata di immigrazione, pur anomala ma prevedibile e controllabile, per infrangere il sogno realizzato con tanta fatica e lungimiranza, ad andare in frantumi sarà l’idea stessa di Europa. Se torniamo agli Stati pre-unitari dell’Unione europea, se crediamo che rimettendo il poliziotto alla frontiera risolviamo d’incanto il fenomeno biblico di chi scappa dalla sua terra, rischiamo di non comprendere il problema-migrazione e di disorientare i cittadini: ma come, di nuovo il passaporto, trent’anni dopo? Possibile che l’Europa non sia capace di identificare e distribuire gli immigrati non europei sul proprio suolo continentale e, in compenso, torni a identificare i suoi cittadini, quasi fossero loro la causa di quel che non va?

Così l’Europa fa harakiri, altro che spinte populiste, cieco rigore economico o miopi burocrati a Bruxelles. Il ministro Alfano ha già dichiarato che l’Italia non intende imboccare il vicolo cieco degli altri. Intanto Schengen sarà oggetto di un vertice europeo straordinario. Non fare, ma disfare l’Europa: chi l’avrebbe detto che sarebbe stata questa l’insidia più temibile dell’appena cominciato 2016.

(articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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