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Un benefattore musulmano per una chiesa di Parma

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Pubblichiamo un articolo del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia pubblicato sulla Gazzetta di Parma, quotidiano diretto da Giuliano Molossi.

Perché l’ha fatto?

“Davanti a quello che era accaduto, mi sono sentito in dovere di intervenire per riparare al danno subìto. Rubare in una chiesa, in una moschea o in una sinagoga, cioè nella casa di Dio, è un sacrilegio. Non potevo restare indifferente”.

Parla Radwan Khawatmi, imprenditore d’origine siriana e da oggi non più anonimo benefattore della chiesa di Maria Immacolata. «Un musulmano s’accolla le spese del furto della copertura in rame del fonte battesimale», aveva raccontato la Gazzetta di Parma due settimane fa. Il musulmano è lui, e in quest’intervista spiega le ragioni del gesto.

Perché esce allo scoperto?
“In realtà non volevo farlo. Ma a Parma, la mia città, la voce cominciava a girare. Certe cose non si possono nascondere. «Quando la tua mano destra dona, la sinistra non deve sapere», dice un proverbio siriano. E io sempre mi sono attenuto a questo criterio di vita: profilo basso nei gesti di carità o di generosità. Non è la prima volta che m’impegno in queste cose. Ma stavolta è diverso. Ho sentito il terremoto nei miei sentimenti. Se rompo il silenzio, è solo per cercare di dare un esempio, un piccolo esempio in un momento estremamente difficile di dialogo inter-religioso”.

Come aveva saputo del furto?
“Sono stato informato a Milano da mio figlio Alessandro per telefono. “Hanno rubato nella chiesa che ti sta tanto a cuore”, mi disse. Mia moglie e madre di Alessandro, moglie che ho perso, era cristiana. Ed era molto legata alla chiesa di Maria Immacolata”.

Quanto costerà ripagarla, la copertura in rame del fonte battesimale?
“Non esiste una cifra. Se la dessi, oltretutto, sminuirei il significato del gesto. Riparerò tutto, costi quel che costi. Voglio che il fonte battesimale torni ancora più bello di prima”.

Ma i suoi figli sono battezzati?
“Alessandro sì. Ha avuto un insegnamento sia cristiano che musulmano. Desideravo dargli la piena e consapevole possibilità di scegliere a diciott’anni”.

E che ha scelto?
“Ormai ha trentacinque anni ed è diventato non solo credente, ma anche un buon conoscitore di entrambe le religioni. Quest’unicità nel doppio insegnamento può valere per la nuova generazione dei tanti giovani musulmani in Europa”.

Ma il parroco come l’ha presa la notizia che un musulmano avrebbe ripagato il furto a danno dei cattolici?
“Quando l’ho incontrato, ho letto grande stupore negli occhi di don Francesco Riccardi. Ma ho sentito anche il suo dolce pensiero nel dirmi “grazie”. Ci siamo abbracciati”.

E dai musulmani d’Italia che giudizio s’aspetta?
“Io penso molto positivo. Ad eccezione dei fanatici, che avranno da ridire. Ma è l’ultima cosa che mi turba”.

Può essere un gesto dalla valenza universale o resterà inevitabilmente confinato a Parma?
“Io penso che le grandi cose spesso nascano nelle piccole città. La provincia italiana è ricca di insegnamenti in ogni campo. Da Parma può partire una nuova riflessione sulla bellezza del dialogo inter-religioso iniziato da molto tempo. Un importante giornale arabo, per dire, si sta occupando della vicenda”.

Catto-islamismo: sorprendente novità o pia illusione?
“Io credo che sarà il nostro destino, il destino di tanti musulmani in Europa, pare venticinque milioni. L’Islam è un tema di enorme attualità, i matrimoni misti si moltiplicano. Non possono essere i fanatici a disegnare il nostro futuro”.

Ma lei uno come Papa Francesco lo sente vicino o lontano?
“Molto vicino. Ci siamo commossi il giorno della sua elezione. In una delle sue prime omelie ha voluto sottolineare il ruolo dell’Islam e della nostra fede”.

Che cosa la lega a Parma, e da quanto tempo?
“Parma è la città dove sono nati i miei figli, anche il secondo e piccolo François, appena tre anni. Qui sono cresciuto dopo essere arrivato dalla Siria a diciassette anni, e oggi ne ho sessanta! A Parma devo l’inizio della mia attività e i miei successi in campo anche sociale e politico. Otto anni fa qui si svolgeva il primo congresso del movimento dei Nuovi italiani, che presiedo, per favorire l’integrazione e difendere i diritti di tutti gli stranieri. Il cosiddetto ius soli non da sostituire ma da affiancare allo ius sanguinis, e il diritto al voto amministrativo. Proposte che oggi sono in primo piano”.

Quanto le manca la Siria martoriata?
“È una ferita aperta e profonda. Il mondo sarebbe dovuto intervenire per salvare dal massacro la popolazione civile: centomila morti a oggi! Stiamo ancora aspettando”.

La cosa più bella di Parma per un siriano-italiano?
“La sua gente. E poi Verdi e il teatro Regio, di cui sono molto appassionato”.

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Ius soli, diventare italiani è di destra o di sinistra?

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Pubblichiamo l’analisi dell’editorialista Federico Guiglia uscito oggi sul quotidiano Il Tempo diretto da Sarina Biraghi

Ma diventare italiani è una cosa di destra o di sinistra? Vien da chiederselo, incredibilmente, dopo che la politica è riuscita a trasformare in guerra ideologica anche un’importante e moderna questione civile, come indica la parola stessa: la questione della “cittadinanza”. Quasi che il criterio dello “ius sanguinis”, alla base della legge in vigore, dovesse contrapporsi al criterio dello “ius soli”, alla base di una nuova legge che si vorrebbe introdurre.

Grazie al primo caso, i figli di Garibaldi – sì, proprio l’eroe dei due mondi – hanno potuto tramandare la loro italianità di generazione in generazione. Essi, Teresita, la sfortunata Rosita -morta ad appena due anni e mezzo – e Ricciotti, erano nati a Montevideo, capitale dell’Uruguay. E Menotti, il fratello che li aveva preceduti, era nato in Brasile, patria di Anita, mamma, moglie ed eroina. Senza la lungimiranza dello “ius sanguinis”, che concede la cittadinanza italiana ai discendenti di italiani, il ramo italianissimo del più grande patriota d’Italia e del Risorgimento sarebbe diventato straniero. Straniero in patria!

Dunque, giù le mani dallo “ius sanguinis”, che testimonia una visione aperta della vita delle persone e dell’identità dei popoli: si può essere italiani a prescindere dal luogo del pianeta Terra in cui si nasce, purché nella famiglia d’origine esista una storia italiana, maschile o, dal 1948, l’anno della Costituzione, femminile a cui potersi riferire.

“Sì, ma perché considerare italiano un argentino di terza generazione che neppure parla la nostra lingua?”, obietta qualcuno. Senza però aggiungere che, se quell’argentino di terza generazione non parla l’italiano, è perché i suoi genitori, e soprattutto le istituzioni italiane poco o nulla hanno fatto per trasmetterglielo. Non si può imputargli una colpa che non ha. E comunque l’italiano lo imparerà, se ha scelto in libertà di acquisire la cittadinanza italiana, in omaggio alla tradizione della sua famiglia e come speranza di un futuro migliore. Quell’argentino di terza generazione, l’“argentino italiano” come andrebbe, in realtà, definito, è un investimento umano, morale, culturale e perfino economico che l’Italia, cioè la patria dei suoi avi, ha scelto di fare. Con intelligenza, con generosità, guardando al domani.

Ma accanto – e non “al posto” – dello “ius sanguinis”, oggi si pone il tema, altrettanto forte e attuale, dello “ius soli”. Che è semplice: considerare italiano chi nasce in Italia, senza fargli pagare il pedaggio anacronistico e irragionevole dell’avere oppure no genitori “stranieri”. Si parla di quel milione di ragazzi non italiani (mi correggo: non ancora italiani) privi della cittadinanza, pur essendo, spesso, più italiani degli italiani. Come capita, del resto, a chi sceglie la patria per amore, per necessità, perché è l’unica patria che conosce: anche se la patria non lo riconosce. Sono giovani che frequentano le nostre scuole e le nostre case, che parlano con l’accento dei nostri dialetti, che tifano per gli Azzurri in ogni ambito sportivo, che cantano in italiano, che si vestono con l’eleganza italiana, che mangiano l’eccellente cibo italiano. Non meno dei figli di Garibaldi nati a diecimila chilometri dall’Italia, anch’essi, i figli di stranieri nati in Italia, devono avere non solo il diritto, ma soprattutto il piacere di poter dire “sono italiano”.

E noi questo piacere proviamo ancora a negarlo con argomenti ridicoli e offensivi, tipo quello che “allora tutte le madri del mondo verrebbero a partorire in Italia”, come si sente dire. Subliminalmente intendendo per “mondo”, in realtà, il “terzo mondo”. Sarà un caso: nessun politico critica la presenza della tedesco-italiana Josefa Idem al governo, ma diversi quella della congolese-italiana Cécile Kyenge (nella foto). Eppure, sulla cittadinanza Josefa e Cécile la pensano allo stesso modo.

E allora a chi considera lo “ius sanguinis” di destra e lo “ius soli” di sinistra, bisogna rispondere che entrambe le filosofie rispecchiano perfettamente il percorso e i sogni dei “nuovi italiani”. Una nuova legge dovrà prevederle entrambe, la discendenza e la nascita, con misure graduali e di buonsenso. Una felice mescolanza legislativa all’insegna del vero principio che lega “ius sanguinis” e “ius soli”: è italiano, e ha diritto di diventarlo, chi ama l’Italia. Ovunque risieda nel mondo, qualunque sia l’identità dei suoi padri residenti nel Belpaese.

Federico Guiglia

f.guiglia@tiscali.it

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Così Matteo Renzi sfida Beppe Grillo

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Pubblichiamo un articolo del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia pubblicato sulla Gazzetta di Parma, quotidiano diretto da Giuliano Molossi.

Parla sempre e parla tanto. Ma ogni volta che Matteo Renzi apre bocca in tv – o si racconta per iscritto, come ha fatto col libro appena uscito -, le sue parole colpiscono. Non già per la profondità del pensiero o le novità delle riflessioni che pur non mancano in un “ragazzo” – tale appare -, di trentotto anni. Le parole colpiscono per il buonsenso che emanano. Per quell’elementare virtù nel dire pane al pane, così rara in politica e così distante dal linguaggio usato apposta per non essere compresi da chi frequenta il Palazzo.

Con il verbo che l’ha reso famoso (“rottamare”), il sindaco di Firenze ha ottenuto una prima e fino a ieri impensabile svolta generazionale. Sarà un caso, ma oggi abbiamo il governo più giovane della Repubblica, guidato da un presidente del Consiglio di quarantasei anni in una legislatura col maggior numero di donne e di matricole dal dopoguerra. Renzi ha posto una grande questione che era percepita da tutti, fuorché dai partiti, e l’ha, come si dice, “portata a casa”.
Eppure, con la generosità di chi se lo può permettere, adesso riconosce d’aver sbagliato a usare l’espressione del rottamare, “perché ho impaurito, in una comunità come quella italiana dove il 70 per cento della popolazione è sopra i quarant’anni”.

Riconosce il torto semantico della sua ragione e continua a ripetere, lui che è diventato il politico più popolare d’Italia, di voler arrivare a palazzo Chigi soltanto col voto dei cittadini. Chi ha perso le “blindate” primarie con Pierluigi Bersani, vero sconfitto del partito e della partita, rifiuta le scorciatoie della politica manovriera.
Rottamare per cambiare, e governare solo se eletti. Ma la terza cosa che pone Renzi lontano dai partiti e vicino al pubblico sentire, è l’approccio sui temi economici e riformatori all’ordine del giorno.

Per esempio la legge elettorale e il suo imponente e impotente dibattito tra modelli francese, inglese, tedesco con la Cassazione che chiede alla Corte Costituzionale di intervenire. E la Corte che chiede al Parlamento di intervenire. E il Parlamento che chiede all’esecutivo di intervenire, e intanto nulla cambia. Renzi, al contrario, dice: prendiamo il modello elettorale efficace da vent’anni – l’elezione diretta del sindaco – e trasformiamolo in legge nazionale, “così sapremo chi ha vinto e chi ha perso un minuto dopo il voto”. Pragmatismo al posto dell’ideologismo. E se, strada facendo, si arrivasse all’elezione diretta del capo dello Stato? La risposta del Matteo senza paraocchi è questa: che si arrivi.

Il giovanotto non ha il tabù presidenzialista che agita ancora una parte del Pd, cioè del suo partito. E comunque non ne fa una guerra di trincea, non impugna la bandiera da tifoso salottiero del primo, doppio o terzo turno: l’importante – avverte – è che il sistema funzioni.
Se Matteo Renzi non cambierà il suo comportamento in corso d’opera, se il sindaco di Firenze non si monterà la testa sull’onda dei sondaggi e saprà dar prova anche nell’amministrare la sua città di quel che propone per la nazione, si candiderà nei fatti a diventare il leader non di un partito, ma della nuova Italia. L’Italia post-ideologica che verrà dopo l’esecutivo-Letta, e quel che resterà del Pd, e quel che ne sarà del Pdl. L’Italia che dovrà fare i conti col Movimento 5 Stelle.

E anche qui Renzi mostra la differenza. Rispetto ai tanti che nel Pd soffrono del “complesso del Grillo”, e propongono, respinti, ogni genere di intesa, il sindaco di Firenze attacca a testa bassa: “E’ ridicolo, pensano solo a discutere di scontrini e di diarie. E si spaccheranno”. A differenza dei “tentenna” o di chi cerca di coccolarli, ricavandone solo schiaffoni, Matteo Renzi sfida i grillini sul loro terreno, come l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.

Sarà pure verboso e bambinone. Ma con lui la politica è già cambiata.

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Il Politecnico, il Papa e il valore millenario dell’italiano

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Questo commento è stato pubblicato ieri sul quotidiano Il Tempo.

Al Politecnico di Milano avevano avuto una trovata geniale: estromettere l’italiano dalle lauree specialistiche e dai dottorati. L’Università pubblica, cioè pagata con i soldi degli italiani, aveva decretato che dal 2014 i nostri figli avrebbero dovuto imparare e parlare soltanto, anzi, “esclusivamente” – com’era scritto nella deliberazione del Senato accademico -, in inglese. Oh, yes!

Agli Illustri forse era sfuggito che un signore al quale guarda un miliardo e duecento milioni di credenti, Papa Francesco, ami rivolgersi al mondo in italiano, pur essendo argentino. L’ha fatto persino nel tradizionale saluto “urbi et orbi” (che non è inglese, illustrissimi; è latino). Nella sua prima Pasqua, solo in italiano ha comunicato con l’universo, non più nelle oltre sessanta lingue dei suoi predecessori. E Papa Francesco è un poliglotta.

A quei Sapienti forse nessuno aveva detto che la lingua italiana sia una delle quattro/cinque lingue più studiate nelle scuole e Università del pianeta. Che sia una delle lingue più diffuse in Rete (ottavo posto su Facebook). Che sia una lingua dalla documentazione scritta millenaria: 1.053 anni di vita eterna.

Lorsignori forse erano all’oscuro del fatto che gli esperti valutino in 250 milioni di persone, italiani d’Italia inclusi, il potenziale bacino di divulgazione della nostra lingua nel mondo. Né sapevano che quando nel calcio o nella Formula 1 gli stranieri parlano tra loro qui o all’estero, spesso lo fanno in italiano. La globalizzazione ha reso anche la nostra lingua una lingua franca negli sport più popolari della Terra. E presente fra cibo e moda, arte e architettura, scienza dello spazio e medicina, musica pop e lirica. E ingegneria. Basta un nome: Leonardo.

Ecco, gli Eccellentissimi forse s’erano scordati dell’importanza e della bellezza dell’italiano. Ma per fortuna nostra e Loro – così evitano la figura dei provincialotti -, il Tar della Lombardia ha accolto il ricorso dell’avvocato Maria Agostina Cabiddu a nome di un centinaio di docenti indignati per la geniale trovata. “L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica”, ha sentenziato il Tar, citando la Costituzione, leggi costituzionali e ordinarie, oltre ai principi non meno supremi della libertà d’insegnamento e del diritto allo studio. L’inglese accanto, a fianco, aggiunto all’italiano. Mai però al posto dell’italiano.

L’uovo di Colombo. Che era anche lui, come Dante, un italiano, oh yes!

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Parmitano, l’orgoglio italiano nello spazio

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Questo commento è stato pubblicato oggi sul quotidiano Il Tempo.

Fino a ieri neanche i nostri politici sapevano – figurarsi! – che, per andare nello spazio, il mondo deve chiamare l’Italia.

La prima missione del nostro allora più povero ma sognante Paese fu nel lontano 1964, e il satellite lanciato si chiamava, in italiano, “San Marco”. Serviva per lo studio dell’atmosfera terrestre. L’Italia diventava così la terza nazione della Terra, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica, a mandare un proprio satellite in orbita. Invece la missione italiana più recente è in corso e vede protagonista Luca Parmitano, astronauta di 36 anni che resterà sei mesi nella Stazione spaziale internazionale. Sarà il primo italiano a “passeggiare” nello spazio.

Le sue parole, entrando nella nuova casa che l’ospiterà per 178 giorni? “Ciao mamma”. Quasi la tenera conferma della sua italianità, che lassù fa ancor più rima con universalità: l’“uomo più felice del pianeta” – com’è stato subito ribattezzato per il sorriso con cui accompagna l’impresa -, ha dedicato il primo pensiero alla madre. E poi alla moglie Kathryn e poi alla figlia Sara di sei anni. “Mamma mia” è il titolo di una delle più celebri canzoni degli Abba. E’, soprattutto, una simpatica espressione internazionale che si associa all’identità italiana. Del resto, non usiamo ripetere che “la mamma è sempre la mamma”?

Luca Parmitano, come molti degli uomini (e anche donne: Samantha Cristoforetti per tutte) che l’hanno preceduto o che lo seguiranno, fa parte dell’esercito dei cervelli italiani prestati al mondo per la ricerca più alta: la vita oltre la Terra. Sono quasi sempre ufficiali dell’Aeronautica militare italiana e allo stesso tempo ingegneri, scienziati, gente che ha superato ogni genere d’esame per essere selezionata e poter un giorno evocare, con Andrea Bocelli, la suggestione del viaggio oltre ogni confine: “Con te, partirò…”.
Questa Italia dello spazio, così poco raccontata in patria, rappresenta, in realtà, la metafora dell’Italia vera. Quell’Italia che si fa valere e amare nel mondo e che, insieme con astronauti d’ogni nazionalità, partecipa alla grande sfida della conoscenza con onore e con amore.

Si chiama infatti “Volare”, ancora una volta in italiano, il nome evocativo dato alla missione pur partita dal Kazakistan, al comando del russo Fyodor Yurchikhin e con l’americana Karen Nyberg. Italiani ed europei sono gli enti che hanno preparato i nostri astronauti, rispettivamente l’Asi e l’Esa. Italiana è la tecnologia di prim’ordine alla base della missione e persino della Stazione spaziale. Ma italiana è anche la virtù che si richiede ai prescelti, che devono, semplicemente, essere bravi, molto bravi. Altrimenti non supereranno le durissime prove fisiche e di conoscenza. L’esatto opposto del sistema dei raccomandati che tanto ci angustia.

Italiana, infine, è la tradizione che ormai da cinquant’anni accompagna le astronavi. Basta andare a Cape Canaveral, in Florida, per rendersene conto. L’epopea americana dello spazio rivendica le sue origini nella grande avventura italiana dei mari e delle esplorazioni. Nel ricostruire la lunga marcia che dalla Terra ha portato alla Luna, gli americani indicano quattro tappe nei cartelli esposti al visitatore: il viaggio di Marco Polo tra l’Europa e la Cina nel 1271/1292, Cristoforo Colombo che attraversa l’Oceano e scopre l’America nel 1492, e poi Leonardo Da Vinci che disegna una macchina volante, e poi Galileo Galilei che scopre il satellite di Giove. L’America sulla Luna omaggia i pionieri italiani, i padri del viaggio verso l’infinito, e oltre. Un filmato indugia sull’Italia e su Genova, “la patria di Cristoforo Colombo”.

Quando Luca Parmitano è partito per un’esperienza unica al mondo (a cominciare dalla durata del volo: appena sei ore, anziché i soliti due giorni), la nostra attenzione era rivolta altrove. Dalla nera crisi economica al grigio voto amministrativo dall’altissima astensione.

Ma ogni tanto bisognerebbe mettere il nasino all’insù. Per vedere che nel cielo c’è un sogno verde, bianco e rosso che può renderci felici. E’ il nostro arcobaleno sul mondo, e dice: tranquilli, la pioggia passerà.

 

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Beppe Grillo inizia a perdere stelle

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Questo articolo è stato pubblicato sulla Gazzetta di Parma di oggi.

Se gli altri partiti, e in particolare il Pd, gli avessero dato retta, oggi avremmo al Quirinale “un ottuagenario miracolato dalla Rete”. Così parlò, anzi, ha scritto Beppe Grillo del “suo” candidato alla presidenza della Repubblica, il giurista Stefano Rodotà. Che, a dispetto dell’età, ieri veniva celebrato come “un bambino che non fa inciuci e inciucetti”. E oggi è invece silurato come un uomo “sbrinato di fresco dal mausoleo dov’era stato confinato dai suoi, a cui auguriamo di rifondare la sinistra”.

Ma che sarà mai successo, nel volgere di un mese, per indurre il Comico più politico d’Italia a portare Rodotà dalle 5 Stelle alle Stalle? E’ successa la cosa più elementare di questo mondo: il professor Rodotà s’è permesso di criticare, in modo peraltro civile, alcune scelte del Grillo parlante sul suo blog. Intanto, ha criticato l’uso quasi esclusivo della Rete per fare politica. Poi la scarsa libertà che il Movimento lascia ai propri parlamentari. Infine il risultato delle ultime amministrative, che suona come una sconfitta “per i due grandi comunicatori: Grillo e Berlusconi”, testuale al “Corriere”.

Apriti cielo. La furia di Beppe non ha risparmiato, oltre a Renzi e altri dirigenti del Pd, anche l’ex beniamino in corsa per il Colle. “Non rispondo, non è nel mio stile”, la replica del giurista scaricato.
Intendiamoci, anche quando Grillo alza il volume, già alto, del suo predicare, bisogna sempre ricordare che dice tra il serio e il faceto. Che spesso attacca per difendersi. Che sempre usa argomenti seri con l’aria di chi si diverte e vuol far divertire. E’ un approccio comunque nuovo per il politichese del Palazzo. E’ l’onda di uno tsunami annunciato e cavalcato, e che ha colpito a fondo e bene: tant’è che il 25 per cento degli italiani ha condiviso col voto politico quel messaggio di cambiamento e i bersagli che voleva sradicare uno dopo l’altro, a cominciare dagli odiosi privilegi della casta.

Ma proprio perché un italiano su quattro gli ha dato fiducia, proprio perché Grillo ha saputo andare oltre la destra e la sinistra, evitando anche l’insidia di accodarsi all’irrealistico governo di minoranza sognato da Pierluigi Bersani, i suoi elettori cominciano a chiedergli il conto: che stanno facendo, gli Stellari, per cambiare davvero l’Italia?

E la risposta delle amministrative non lascia dubbi: molti cittadini non salgono più sull’onda dello tsunami. Hanno appeso il surf al chiodo non perché un’informazione insufficiente, faziosa o “di regime” li abbia spaventati (anche se Grillo ha ragione quando lamenta di non godere, in genere, di una “buona stampa”: ma è anche colpa del suo modo di comunicare o non comunicare col resto del mondo). Semplicemente in molti, e da ieri anche il vituperato Rodotà, si sono sentiti e sentono in parte delusi o disillusi rispetto alle aspettative che il Movimento aveva suscitato. In molti si sono accorti, per esempio, dell’abisso che c’è tra il Capo, oltretutto grande assente in Parlamento, e il suo esercito pieno di giovani e di persone “come uno di noi”, certo. Ma si vorrebbe che quest’esercito incidesse nella politica nazionale con idee e iniziative all’altezza del grande cambiamento per il quale è stato prescelto.

Da Grillo e dai suoi si pretende, in sostanza, che la sacrosanta e imponente protesta si trasformi in efficace e rinnovata proposta. Finora non è accaduto e il voto amministrativo, come il termometro che segnala la febbre, lo ha registrato: l’arrabbiatura si sta ritirando. L’intervista di Rodotà e le parole grosse contro Rodotà sono solo l’ultima conferma che, se Grillo e i suoi non cambieranno atteggiamento, mostrando che cosa “sanno fare”, i 5 Stelle rischiano di diventare una Meteora all’orizzonte delle grandi scelte per l’Italia.

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Alemanno e Fini. C’era una volta la Destra

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Commento pubblicato oggi sul quotidiano La Gazzetta di Parma

La parabola della destra italiana è cominciata e finita a Roma, e forse era giusto così. Fu la capitale d’Italia a fare da trampolino, nel 1993, all’allora segretario dell’ancora Msi, Gianfranco Fini. Un quasi sindaco, votato dal quarantasette per cento dei cittadini al ballottaggio con Francesco Rutelli. Fini perse per un soffio. Ma quel consenso senza precedenti per un leader politico estraneo alla casta, che all’epoca si chiamava partitocrazia, lo lanciò e lo legittimò sulla scena nazionale ben più della famosa dichiarazione apri-pista da parte dell’allora solo imprenditore Silvio Berlusconi (“a Roma sceglierei Fini, non avrei un secondo di esitazione”).

Alemanno snobbato dunque bocciato

Ora la capitale d’Italia e delle fortune politiche della destra ha liquidato le ultime speranze dell’ultimo erede in tradizione: il sindaco Gianni Alemanno, bocciato al ballottaggio con un imbarazzante trentasei per cento in un contesto ancor più imbarazzante di astensioni punitive, mai viste prima. Punitive per tutti, naturalmente, ma soprattutto per il sindaco uscente e non più rientrante: neanche un romano su due ha ritenuto di dover andare alle urne per esprimersi sul primo cittadino, come se non ne valesse neppure la pena.

Un ventennio senza l’attimo fuggente

Da Fini ad Alemanno sono passati vent’anni esatti. Vent’anni durante i quali, dall’opposizione vigorosa ma ininfluente del vecchio Msi, la destra è diventata ampia ma indifferente maggioranza di governo (e di Campidoglio). All’inizio con An, poi col Pdl, passando per li rami – rami secchi, tagliati dagli elettori – del minuscolo Fli. Vent’anni, eppure in tutto questo tempo la destra non ha colto l’attimo fuggente.

Gli errori della destra italiana

Invece che proporre una certa idea dell’Italia con quell’orgoglio nei valori tipico dei partiti conservatori, e quella voglia di cambiamento che distingue le forze liberali e riformatrici in tutta Europa, la destra italiana s’è accasata con l’anti-italianità della Lega: il partito per la patria amoreggiava coi secessionisti. Invece che rivendicare una politica di “legge e ordine”, come i gollisti in Francia, i popolari in Spagna o i “Tories” in Gran Bretagna, la destra italiana ha avallato, talvolta con zelo da prima della classe, ogni forma di garantismo e cavillo legislativo a discapito dell’innocente vittima del reato: la giustizia ingiusta. Invece che innovare il malcostume del Palazzo, rinunciando ai vitalizi, alle auto blu e al finanziamento pubblico ai partiti, i rappresentanti della destra italiana sono saliti sul carro: non più via, ma viva i privilegi! Invece che testimoniare con atti e fatti l’importanza anche morale del principio del merito, l’unico principio che mette sullo stesso piano il figlio di un Dio minore con quello di papà, la destra italiana è rimasta seduta nella comoda tribù del “tengo famiglia”, che ammorba la politica e la società da troppi anni. Destra senza bussola e senza memoria, destra senza futuro.

Il conto delle occasioni mancate

Anche tralasciando le beghe di cortile e il rapporto altalenante e freudiano con l’alleato e capo Berlusconi, anche sottolineando l’assenza di una linea in politica economica, liberista o sociale che fosse – purché fosse -, col verdetto di Roma la destra italiana ha pagato il conto finale. Il conto, salatissimo, delle occasioni mancate, a fronte di un consenso nazionale che era arrivato (anno 1996) al sedici per cento, confermando An il terzo partito d’Italia dopo Pds e Forza Italia.

La proprietà dei voti

Ma i voti, si sa, non “appartengono” a nessuno. Come un vento lieve, vanno di qua e di là. A volte diventando addirittura tsunami, come in Beppe Grillo, arrivato al venticinque per cento dei consensi e pure lui in calo dalle politiche. A volte basta un battito di farfalla.

La fine di un sogno

Alla destra italiana è così successo di perdere tutto quando ormai aveva vinto tutto. Perché la sola vittoria che conta è la capacità di saper indicare un grande sogno italiano, e cercare di realizzarlo. La sola vittoria che conta non è occupare poltrone, ma dare l’esempio. Gli italiani questo hanno sancito, mandando a casa l’ultimo mohicano Alemanno: la fine di un sogno, la mancanza di esempi. Vent’anni dopo.

f.guiglia@tiscali.it

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Kyenge, il razzismo e la soluzione Ius soli

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Questo commento è stato pubblicato oggi dai quotidiani L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

La vicenda è tristemente nota, perché è stata raccontata e commentata per tutta la giornata di ieri. Eppure, anche ripensando una, due, dieci volte alle parole offensive contro il ministro Cècile Kyenge pronunciate a Padova da una consigliera di quartiere della Lega – subito espulsa dalla Lega -, vien da chiedersi, ancora e sempre, come sia stato possibile. Come sia stato possibile che la signora Dolores Valandro, detta Dolly, abbia potuto domandarsi e domandare su Facebook con ben sette punti interrogativi “Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato???????”, seguito da un “vergogna!”, e accompagnato dalla fotografia del ministro per l’Integrazione in persona.

D’accordo, su internet si legge e si trova di tutto, l’orripilante compreso. E l’accusata ha provato a giustificarsi, dicendo che voleva fare solo una battuta in un momento di rabbia. Certo, dal primo all’ultimo leghista è partita una valanga di richieste di scuse al ministro e, osiamo darlo per scontato, agli italiani tutti. Perché quel pensiero incommentabile, reso ancor più imbarazzante perché espresso da una donna nei confronti di un’altra donna su un tema infame come lo stupro, è un insulto che tutti dovrebbero “sentire” come rivolto a se stessi. Solo questo può aiutarci a cogliere la gravità dell’offesa, ben al di là dell’ambito politico e polemico, o dello sfogo stile voce dal sen fuggita in un’epoca che è volgare anche nel linguaggio. E perciò si rischia di scherzare col fuoco in continuazione, alimentando i pregiudizi e quella bestia chiamata razzismo che dilaga da Facebook agli stadi di calcio.

Che può fare, allora, la politica, oltre che condannare l’episodio e chiedere che venga punito? Può ricordare che in Italia vivono cinque milioni di persone come viveva Cècile Kyenge prima di diventare cittadina italiana. Può spiegare che alla lungimirante legge dello ius sanguinis, che tramanda l’italianità al di là di ogni confine, e perciò tende un ponte fra l’Italia e l’universo, bisogna aggiungere la realistica e giusta novità dello ius soli: i bambini che nascono o crescono fra noi devono poter diventare quel che sono, cioè italiani, senza aspettare il tempo eterno della burocrazia.

Bene farà l’annuncio che il governo di Letta (e di Alfano) presenterà un disegno di legge forse già domani. Reagire subito e reagire con intelligenza, ossia con la forza serena della legge, per porre fine all’inaccettabile discriminazione dei “figli di nessuno”, pur italianissimi di fatto e di sentimenti. Servono, inoltre, misure più dure per la tutela e il rispetto della persona e delle persone. Via dalla politica chi usa quell’indegno vocabolario.

f.guiglia@tiscali.it

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Che cosa fare contro il femminicidio

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Pubblichiamo un’analisi del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Impossibile separare i fatti dalle opinioni, quando si parla di femminicidio. Basta la statistica dei delitti per cogliere la gravità del fenomeno: negli ultimi cinque anni, ogni tre giorni, in media, una donna è stata uccisa da un uomo in Italia. Il dato dell’intero 2012, per intenderci, è di 124 donne ammazzate e 47 ferite.

UNA MACABRA FIRMA
Agli omicidi, che nella maggioranza dei casi maturano tra persone che si conoscono e in prevalenza tra le mura di casa, bisogna aggiungere una novità di inaudita barbarie: lo sfregio della vittima, la donna ustionata con l’acido dall’aggressore di turno, e mascherato per non essere riconosciuto. “Firma”, così, per sempre la sua violenza sul volto o sul corpo della donna e poi scappa: tre casi registrati rispettivamente a Vicenza, in provincia di Milano e a Pesaro tra aprile e maggio scorso (e un quarto a Roma a parti rovesciate: vittima un uomo).

LA RISPOSTA AL FENOMENO
Ma che sta succedendo in questo nostro mondo, e che fare contro la violenza dei bruti? Intanto e finalmente s’è mosso il Parlamento. E’ di pochi giorni fa, ancora a maggio, il primo e anche simbolico segnale di reazione della Camera dei deputati, votato all’unanimità: la ratifica della cosiddetta convenzione di Istanbul. L’Italia è diventata la quinta nazione europea a muoversi in difesa delle donne, dopo Montenegro, Albania, Turchia e Portogallo. In attesa del voto definitivo del Senato, la convenzione poggia su un’ottantina di articoli che contrastano ogni forma di violenza “fondata sul genere”, equiparandola a una “violazione dei diritti umani” ed estendendo il concetto ad atti di natura “fisica, sessuale, psicologica od economica, comprese le minacce di compiere tali atti”. Dunque, anche danni, sofferenze, costrizioni: l’anticamera della violenza viene prevista nel dettaglio, con l’obiettivo di “prevenire, indagare e punire i responsabili”.

UNA PRONTA REAZIONE
Ma aspettando che la legislazione faccia il suo corso (per valere, la convenzione dovrà essere ratificata da almeno dieci Stati, di cui otto del Consiglio d’Europa), resta l’interrogativo concreto e decisivo: che deve fare, ora e subito, una donna per non correre rischi? Qual è lo strumento più efficace a cui ricorrere, prima che sia troppo tardi?

COSA FARE IN CASO DI AGGRESSIONE
In una intensa tavola rotonda che si è svolta a Brescia proprio in concomitanza con l’approvazione della convenzione di Istanbul, e che è stata promossa dalla neonata associazione “Bona Dea” (si batte per tutelare le vittime di maltrattamenti e violenze), alcune riflessioni hanno lasciato il segno. La prima è stata fatta da Carlo Caromani, comandante della Polizia provinciale di Brescia. Può essere riassunta con l’immagine del “cartellino giallo” all’aggressore vero o potenziale: l’ammonimento del questore previsto dal nostro ordinamento per atti persecutori, ma poco conosciuto e utilizzato perfino dagli avvocati. Eppure, secondo l’esperienza di Caromani, molto utile. Solo il dieci per cento delle persone ammonite – s’è accertato – è stato successivamente sottoposto a procedimento per il reato di atti persecutori. Questa specie di diffida, dunque, può interrompere l’attività persecutoria nella maggior parte dei casi.

IL RUOLO DELLE FORZE DELL’ORDINE
Funziona così: la donna espone i fatti all’autorità di pubblica sicurezza, sollecitando l’ammonimento dell’autore delle persecuzioni o minacce. Non c’è bisogno – ecco un piccolo, grande vantaggio – di trovarsi di fronte a una vera e propria ipotesi di reato, affinché il questore intervenga. E intervenga a ragion veduta, cioè constatando la fondatezza del racconto, ma senza l’obbligo del contraddittorio con l’accusato. Sono, quindi, sufficienti gli indizi consistenti di una condotta “aggressiva e disdicevole” – parole del comandante- da parte del persecutore. In più, il questore può adottare provvedimenti per l’eventuale presenza di armi e munizioni. In caso di reiterazione, si potrà procedere d’ufficio (invece che con querela di parte) per il reato di atti persecutori. E con la pena aumentata fino a un terzo.

L’AMMONIMENTO DEL PERSECUTORE
In sostanza, l’ammonimento fa sì che il persecutore, il quale viene convocato e appunto “ammonito” a voce dal questore, da quel momento saprà che le autorità di polizia hanno acceso i riflettori su di lui. E la donna vittima si sentirà spalleggiata dalle istituzioni, anziché abbandonata a se stessa o non creduta in famiglia o dagli amici in comune. Inoltre, non sarà necessario fornire prove inconfutabili da giudizio penale, spesso difficili da trovare, perché le molestie per loro natura avvengono quasi sempre senza testimoni, a tu per tu. Stando alla testimonianza sul campo di Caromani, l’avvertimento del questore disincentiva il comportamento del persecutore, perché a quel punto sa di rischiare d’essere indagato per il reato di atti persecutori a prescindere dalla volontà della donna offesa. Che spesso, come ha osservato il Consiglio superiore della magistratura, “è soggetta a tentativi, più o meno diretti, finalizzati alla ritrattazione della denuncia malgrado la protezione della procedibilità irreversibile”. E se l’aggressore continua nella condotta, potrà essere anche arrestato in caso di flagranza, proprio perché già ammonito in precedenza.

LE ISTITUZIONI FANNO SQUADRA
L’altra riflessione sul tema che conosce, anche lui, da esperto, l’ha fatta il procuratore aggiunto di Brescia, Sandro Raimondi. Il quale ha spiegato l’importanza della collaborazione fra le istituzioni a vario titolo preposte, sul modello del già esistente protocollo denominato “Progetto di sostegno ai soggetti deboli”. Ma ha indicato anche il dovere della preparazione per i diversi interlocutori chiamati a occuparsi del fenomeno. Cartellino giallo, competenza e gioco di squadra: la violenza si batte anche così.

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Le follie del Pd a 5 Stelle

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Commento pubblicato oggi sul quotidiano La Gazzetta di Parma

Lo chiamano “governo del cambiamento” (diritti d’autore a Pierluigi Bersani), perché la parola “ribaltone” suona male. Ma è sempre la stessa minestra: come rovesciare in Parlamento il responso delle urne. O meglio, il non responso delle urne, visto che gli italiani hanno decretato il noto verdetto senza vincitori né vinti. E si deve solo all’ostinata saggezza del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, se da una cinquantina di giorni abbiamo almeno un governo che governi, anziché il deserto dei tartari.

Ma qui comincia l’avventura del Pd, che non si sa se analizzare con il metro della politica o della psicologia. Perché succede che il partito oggi guidato da Guglielmo Epifani si trovi in una condizione mai così sventurata e beata al tempo stesso. La sventura è presto detta: prima formazione alle politiche, ma senza i numeri per costituire una maggioranza degna, cioè stabile e decisionista. Da questo “vorrei, ma non posso” sono derivati, si sa, l’impuntatura di Bersani per l’impossibile incarico da presidente del Consiglio, le impallinature di Franco Marini e Romano Prodi al Quirinale, il ricambio del segretario in fretta e furia più tutto il contorno di polemiche e di drammi sulla sinistra incapace di vincere, persino quando vince.

Eppure, c’è il rovescio della medaglia. C’è un presidente del Consiglio espresso dal Pd. E i presidenti delle due Camere sono espressione del Pd e di Sel. E un rieletto e amatissimo capo dello Stato proviene dalla tradizione di sinistra, dal Pci in avanti. Il bicchiere sarà pure mezzo vuoto, visto che il Pd è costretto dai fatti (e dai numeri) a governare col Pdl e Scelta civica, anziché per suo conto. Ma il bicchiere è strapieno, se si pensa al ruolo nazionale e istituzionale esercitato da un partito che ha avuto il consenso “soltanto” del trenta per cento dei cittadini. Un consenso confermato senza entusiasmo alle ultime amministrative, che hanno registrato la super-vittoria del centro-sinistra sul centro-destra. Con un’astensione così alta, da aver tolto ai vincitori qualunque voglia di festeggiare in tempo, oltretutto, di crisi.

Ora, in questo clima che resta di disincanto o disgusto per la “politica politicante”, nonostante la generale richiesta al governo delle larghe intese d’agire subito e con vigore, a sinistra c’è chi pensa all’indietro tutta. Approfittando un po’ delle divisioni nel Movimento 5 Stelle, e un po’ aspettando (la classica “trepida attesa”…) le sentenze in arrivo per il Cavaliere tra processo Ruby e decisione della Corte Costituzionale su un conflitto di attribuzione riferito al processo Mediaset, nel Pd c’è chi sogna l’incubo da poco archiviato: un altro esecutivo frutto non già delle scelte del popolo sovrano, ma di una pasticciata e posticcia alleanza in Parlamento tra Pd ed eventuali fuoriusciti grillini.

Si dirà: la tentazione del ribaltone misura la febbre pre-congressuale del Pd. Ed è a sua volta un modo per tenere alla larga Matteo Renzi, la più importante carta del centro-sinistra che solo il centro-sinistra stenta a giocare sul tavolo. Siamo così al paradosso. Un partito che ha il suo presente in Enrico Letta e il suo futuro in Renzi – dunque abbastanza in salute rispetto ai malconci partiti di oggi -, ragiona ancora come se dovesse prendere la Bastiglia. Dimenticando, per eccesso di presunzione o di prepotenza, che la sinistra è sempre stata votata da una minoranza di cittadini in Italia. Persino all’epoca del pur poderoso Pci e del suo unico mini-sorpasso sulla Dc alle europee del 1984. Quando, sull’onda emotiva della scomparsa di Enrico Berlinguer, ottenne il 33,33 per cento dei voti (contro il 32,97 della Dc). Ancora e sempre solo un terzo del consenso degli italiani.
D’altronde, non è un caso se Romano Prodi, l’unico leader del centro-sinistra che ha vinto col voto popolare, fosse d’estrazione non comunista. Come il giovane Renzi, forse per questo tanto osteggiato da una parte della nomenclatura del “Partito”.

Ma il Pd è al bivio: se l’“Italia viene prima”, come amano ripetere, pensino a governarla, anziché a manovrare per esibire un’identità e un programma che non corrispondono né al mandato né alla volontà della grande maggioranza degli italiani.

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La vittoria della Convenzione di Istanbul

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Pubblichiamo un’analisi del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

A volte sono i comportamenti dei cittadini che determinano le leggi, a volte sono invece le leggi che incidono sui comportamenti sociali.

Una nuova coscienza sull’ambiente, per esempio, ha partorito norme più rigorose sulla raccolta dei rifiuti o sulla tutela del paesaggio. Così come le leggi sul casco obbligatorio in motorino o sul divieto di fumo nei locali pubblici hanno cambiato nel profondo le tradizioni piuttosto anarchiche e in apparenza incorreggibili degli italiani sul tema. Il costume innova la legislazione e la legislazione innova il costume.

Ma nel caso dell’appena approvata Convenzione di Istanbul da parte del Parlamento, si può parlare di felice concomitanza. Nel senso che è stata, certo, la nuova consapevolezza del nostro tempo contro la violenza alle donne ad aver mosso e scosso prima la Camera e poi, martedì scorso, il Senato. Ma questa novità legislativa a sua volta contribuirà a sensibilizzare le persone sui diritti delle donne troppo spesso calpestati, e sull’importanza di reagire in tempo. Come impone l’incredibile statistica del femminicidio: in media ogni tre giorni una donna è uccisa da un uomo in Italia. E molte altre ferite, e altre ancora non censite, sia per un malinteso senso del pudore o per la paura che la cosa ancora suscita in tante aggredite, sia perché non esiste un conteggio nazionale e ufficiale su questo crimine.

Mentre il primo rapporto internazionale dell’Organizzazione mondiale della sanità conferma la tendenza e la vastità del fenomeno ben oltre l’Italia: un terzo delle donne ha subìto una qualche forma di violenza nel corso della vita. E’ evidente, pertanto, che la risposta delle istituzioni è fondamentale per voltare pagina.

Con la Convenzione di Istanbul diventata legge della Repubblica italiana, forse siamo alla svolta. Siamo a quel primo, piccolo passo che magari oggi non si vede o pesa poco, ma che col tempo avrà aperto il nuovo cammino per prevenire la violenza, proteggere le vittime e punire i colpevoli. In attesa che anche altri Paesi europei facciano come noi e come il Montenegro, l’Albania, la Turchia e il Portogallo -cioè le cinque nazioni per le quali questo strumento giuridico è vincolante a livello internazionale-, conta il principio introdotto nell’ordinamento italiano: ogni forma di violenza fondata sul genere è equiparata a una violazione dei diritti umani.

Viene in mente l’analogo cambiamento del costume e del codice fatto con la famosa legge che nel 1996 trasformava la violenza sessuale da delitto contro la moralità pubblica e il buon costume in crimine contro la persona.
Dunque, colpire una donna in qualunque ambito familiare, sociale o inter-personale che sia -e chiunque ne sia l’artefice-, significherà non solo aver compiuto un atto discriminatorio, ma anche aver violato un diritto fondamentale della persona. Monito altamente simbolico ma anche formale in concreto, se si pensa che sono 81 gli articoli della Convenzione che entrano nel dettaglio della “prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, evitando così il rischio della formulazione bella ma retorica, cioè inutile.

Al contrario, ora c’è uno strumento forte e condiviso -il Senato l’ha ratificato all’unanimità e in tempi insolitamente rapidi- per incidere sui comportamenti, per prevenire con un’educazione che deve partire dalle famiglie e dalle scuole, per reprimere con la severità della legge. Proteggere i bambini e stare dalla parte delle vittime: la battaglia contro gli abusi e per le pari opportunità dovrà portare a considerare semplicemente come “inaccettabile” qualunque forma di violenza alle donne. E’ suonato l’allarme rosso e da oggi nessuno può più dire che non l’aveva sentito.

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Letta, Monti e la toponomastica italiana dell’Alto Adige

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Pubblichiamo un’analisi del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia uscita oggi sul Tempo.

Chissà se anche tra i novelli riformatori della Costituzione vale quel “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Finora è stato così, e perciò da trent’anni, dalla prima commissione-Bozzi nel 1983, tutte le Bicamerali che si sono succedute hanno fallito l’obiettivo, mai ascoltando le richieste degli italiani: governi stabili, senso dello Stato, rispetto della volontà del popolo sovrano.

L’ultimo flop del cambiamento si chiama federalismo, e porta con sé il naufragio del titolo V della Costituzione. Fu modificato nel 2001 all’insegna di un regionalismo a tratti persino comico. Si rilegga la formulazione del “nuovo” articolo 114 della nostra Carta, che pone sullo stesso piano il più piccolo Comune d’Italia con trentatré abitanti e lo Stato unitario di oltre sessanta milioni. E che conferisce alle Regioni (articolo 117) “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Una follia.

Qualunque competenza oggi imprevista e imprevedibile finirà in mano ai governatori delle ventidue Repubblichette (venti Regioni più le Province autonome di Trento e di Bolzano), anziché al governo della Repubblica. Si vuol far prevalere il campanile all’universo, facendo valere il “più ci divideremo, più ci comprenderemo” al posto dell’“uno e indivisibile” che rende gli italiani solidali e consapevoli d’essere nazione.

Ma a certificare anche la debolezza legislativa dei Consigli regionali, ora arriva un verdetto insospettabile e ineguagliabile, perché pronunciato dal massimo custode delle leggi: la Corte costituzionale. Delle trentasette sentenze emesse nei primi sei mesi di quest’anno in seguito a ricorsi presentati dal governo contro leggi regionali, il 95 per cento delle volte la Corte ha dato ragione al governo e torto alle regioni. Una percentuale mai raggiunta prima nella pur lunga storia di conflitti tra istituzioni.

È la conferma che sull’onda della demagogica riforma del titolo V, le regioni si credono onnipotenti. Al punto d’aver violato la Costituzione in un numero altissimo di casi, se la Corte ha accolto le obiezioni del governo quasi sempre.
Ma, a leggere gli atti parlamentari, al danno di un modo di legiferare contrario alla lettera e allo spirito della Costituzione adesso si rischia l’aggiunta della beffa: l’harakiri costituzionale.

Secondo una mozione da poco presentata alla Camera (prima firmataria Giorgia Meloni), c’è chi starebbe pensando a una nuova strada per violare la Costituzione senza dare nell’occhio: quella di far addirittura ritirare le impugnative del governo! La mozione cita una legge provinciale del 2012 votata a Bolzano solamente dai consiglieri di lingua tedesca “per portare alla cancellazione di migliaia di toponimi di lingua italiana”.

Una legge contro la quale il governo-Monti ricorse alla Consulta lamentando una valanga di violazioni di diritto nazionale e internazionale, oltre all’incredibile circostanza che si potesse immaginare d’impedire che in Italia gli italiani (o chiunque) potessero chiamare in italiano luoghi con quasi un secolo di storia toponomastica bilingue, italiano e tedesca, alle spalle. Siccome la giurisprudenza della Corte e tutte le leggi in materia darebbero piena ragione al ricorso del governo, la Svp ha chiesto all’alleato elettorale Pd l’“emanazione di una norma d’attuazione superando l’impugnazione della legge”.

Una frase sibillina che, secondo i proponenti della mozione, suonerebbe così: il governo-Letta ritiri il ricorso del governo-Monti. Una mossa senza precedenti giuridici e di inaudita gravità politica, linguistica e culturale, perché lascerebbe in vigore la legge provinciale che fa strame della forma italiana in uso da quasi un secolo dei nomi di luogo bilingue dell’Alto Adige. Dove anche lo Statuto speciale, che è legge costituzionale, ricorda a scanso di equivoci: “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato”. E la lingua di Dante non contempla la parola “harakiri”.

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Berlusconi? Il successore sia scelto dalle primarie

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Pubblichiamo un commento uscito oggi su “L’Arena di Verona”, “Il Giornale di Vicenza” e “Brescia Oggi”.

La dura condanna di primo grado a Silvio Berlusconi accelera un altro processo, che nulla ha di giudiziario e tutto di politico: la successione al Cavaliere per la guida del Pdl. Un´operazione che prescinde dai verdetti dei tribunali e che è semplicemente legata a due circostanze di fatto. La prima è che la leadership di Berlusconi ha ormai toccato i vent´anni, dalla famosa discesa in campo del 1993. Anche a prescindere dall´età del capo (77 anni a settembre) in una prospettiva che vede la generazione dei quarantenni- alla Letta e alla Renzi- lanciata verso il futuro della politica italiana, è evidente che il ventennio berlusconiano ha esaurito la sua spinta propulsiva.

La seconda circostanza che impone al centrodestra il ricambio è che l´Italia, dalla Democrazia cristiana in avanti ha sempre espresso una maggioranza elettorale tendenzialmente moderata. Perfino ai tempi del celebre mini-sorpasso alle Europee del 1984, il pur potente Pci raggiunse «soltanto» il 33,33 % dei consensi. Perciò i leader passano, ma la storica maggioranza non di sinistra degli italiani resta. E non può restare senza bussola. Dei non tanti nomi che circolano il più accreditato successore di Berlusconi si chiama ancora Berlusconi. Nel senso di Marina, figlia primogenita molto stimata dal padre anche per le capacità manageriali dimostrate nel campo imprenditoriale ed economico in cui opera da anni.

Secondo la versione di Luigi Bisignani, molto addentro alle cose della politica, in una recente cena ad Arcore il Cavaliere avrebbe in qualche modo dato il via libera alla candidatura della figlia, nonostante Marina Berlusconi abbia finora smentito di voler seguire le orme del padre. Che Marina possa presto o tardi prendere il posto del Cavaliere è una prospettiva, peraltro, auspicata anche da altri ed alti esponenti del Pdl. Ma se il centrodestra vuole evitare la facile accusa di monarchia ereditaria da parte degli avversari, degli alleati e degli stessi suoi elettori, se vuole stroncare sul nascere la polemica di un partito che così si tramanderebbe di padre in figlia, dovrà chiedere a Marina o a chiunque altro intendesse guidare il centrodestra di sottoporsi a delle primarie aperte almeno quanto quelle che Renzi pretende per scendere in campo col Pd. Qualunque designazione, qualunque candidatura deve passare per forza di cose e di tempi attraverso il battesimo degli italiani.

Doppio battesimo. Il primo scegliendo col voto il leader che correrà per il partito e quindi per il governo, il secondo al momento delle vere e proprie elezioni politiche. Chissà che la maggioranza delle larghe intese non trovi un accordo generazionale anche sull´importanza delle primarie per tutti.

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Miccoli e altri, campioni viziati e stralunati

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Pubblichiamo un’analisi del giornalista, scrittore e conduttore tv Federico Guiglia uscita oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Si credono onnipotenti. Per il solo fatto d’essere acclamati da folle osannanti allo stadio, per la capacità che mostrano nel saper dare un calcio al pallone -semplicemente un calcio al pallone-, pensano di potersi permettere tutto. O quasi. Ma il successo quand’è così facile e rapido, può dare alla testa.

Il fiume di denaro e di vita non vissuta o vissuta male nel quale spesso nuota questa “generazione dei campioni”, non solo non bagna la felicità, come si sa, se non di rado: a volte tradisce la penuria di valori, o l’assenza di sacrifici alle spalle, o la manifesta ignoranza. Proprio nel senso di “non conoscenza” delle cose della vita al di là della “discesa in campo”.

Certo, noi li amiamo di un amore bambino i tanti giocatori del nostro cuore, perché ci fanno sognare. Inseguendo loro il pallone, noi rincorriamo la nostra infanzia. Ma così rischiamo anche di rendere certi divetti dell’Olimpo domenicale completamente diversi dalla generazione impegnata di tanti nostri figli.

La generazione che non vive di applausi, di magliette levate dopo il gol per esibire i muscoli. La generazione, al contrario, che fatica col fisico e con la testa perfino per farsi ascoltare, e non solo perché ha scelto di farsi strada in silenzio. Azzardiamo (ma mica tanto): i ragazzi e le ragazze che meriterebbero le ole delle tribune in festa, sono quelli che invece dimentichiamo, che emigrano all’estero, che passano da lavoretti di tre mesi in tre mesi pur laureati -e spesso con lauree e voti d’eccellenza-, che non trovano lavoro e devono consolarsi con l’affetto e il tetto offerti da mamma e papà.

Ecco, la conferenza-stampa delle lacrime e delle scuse di Fabrizio Miccoli, l’ex capitano del Palermo che ha chiesto perdono alla sua città e alla famiglia Falcone dopo le irripetibili parole-choc che ha usato nei riguardi del grande magistrato ucciso dalla mafia in un’intercettazione telefonica nell’ambito di un’indagine per estorsione e accesso abusivo a un sistema informatico, fa venire in mente l’”altra Italia”.

Quella dei giovani che non piangono né rimpiangono, perché non hanno nulla da farsi perdonare. Quella dei ragazzi che non sono interessati alla fama, ma al valore delle loro imprese, piccole o immense che siano.

Quella dei tantissimi italiani che si affacciano al mondo degli adulti senza vivere tra i privilegi di partite o di partito. Gente che suda, che viaggia, che soffre. Per una volta e mentre la nostra sempre amata Nazionale “scende in campo” in Brasile, pensiamo all’Italia che non si vede, che non mette le scarpette firmate ai piedi d’oro, che nessuna telecamera insegue, ma che di sicuro “vale” tutti i nostri sogni.

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La Ferrari e l’uso stravagante di Ponte Vecchio

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Questo commento è uscito oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Più il mondo ci vuole bene, più noi continuiamo a farci del male. L’ultimo riconoscimento dell’Unesco, che ha da poco dichiarato altri due siti italiani “patrimonio dell’umanità”, rafforza l’invidiabile primato di nazione col maggior numero di iscrizioni riconosciute a livello internazionale: ben 49 su 981. Ma a fronte dell’immensa bellezza, dell’antica storia e dell’arte sempre viva che l’universo indica a esempio nel nostro Paese, cadono le braccia per l’incuria a Pompei, per la trascuratezza al Colosseo, per l’uso a dir poco stravagante di Ponte Vecchio: il ponte più celebre di Firenze chiuso ai comuni mortali, di sabato sera, perché “affittato” per un evento esclusivo dedicato a collezionisti della Ferrari. Loro cenavano e i turisti imprecavano. Possibile che non si riesca a fare le due cose, accontentare la clientela che spende, senza sbattere il ponte in faccia a tutti gli altri? Ed è subito polemica.

Anziché valorizzare con sapienza e con amore quel che abbiamo, lo blindiamo. O in altri casi lo lasciamo marcire. O evitiamo di restaurarlo. O lo facciamo diventare oggetto di conflitti penosi tra personale -scarso, non motivato e mal pagato- e istituzioni. Col risultato di sottoporre a code interminabili o addirittura al “chiuso per sciopero” turisti arrivati da ogni dove. E col paradosso ulteriore che una mostra del British Museum su Pompei “muove” più interesse e visitatori del viaggio tra le vere e proprie, e irripetibili, rovine più famose del pianeta.

Non osiamo pensare che cosa sarebbe in grado di fare la Francia, se solo disponesse di un decimo del nostro patrimonio. Ma sappiamo quel che non è in grado di fare l’Italia, il cui ministero dei Beni culturali fu inventato da Giovanni Spadolini solo nel 1969, e da allora sempre assegnato al socialdemocratico di turno, perché politicamente non contava nulla. Il peggiore degli autogol, se si riflette sul potenziale economico e non solamente culturale che dovrebbe ispirare il dicastero chiamato a tutelare il bene più prezioso: la bellezza del territorio, del paesaggio, dei capolavori che da secoli “abitano” tra noi.

Si spera che da Massimo Bray, il ministro oggi chiamato a difendere il buon nome dell’Italia nell’universo, arrivi la sveglia da tempo invocata. Sveglia dal torpore istituzionale e dall’imbarazzante mancanza di fondi per affrontare l’impresa. Sveglia per coinvolgere i privati e i cittadini in uno sforzo pubblico che sarà pure titanico, ma che è il miglior investimento possibile per il futuro. E allora la valorizzazione del nostro patrimonio diventi una priorità del governo come l’Imu e l’Iva. E’ indecente dover andare a Londra per goderci Pompei.

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Da Foggia a Bruxelles passando per Pompei

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Commento pubblicato su La Gazzetta di Parma

L’altro giorno un gruppo di americani che vive a Foggia da anni, ha deciso in libertà di prendere la ramazza e ripulire il parco San Felice. “Volevamo dare un contributo sociale e morale alla città”, hanno spiegato. Con sacchetti per l’immondizia e rastrelli improvvisati gli americani hanno fatto quel che i foggiani avrebbero potuto o dovuto fare da tempo e da soli, o no?
Quasi in contemporanea l’Unesco ha rivolto un umiliante ultimatum al nostro governo: se entro il prossimo 31 dicembre non si adotteranno “misure idonee” per la salvaguardia di Pompei, l’Italia rischia di perdere l’onere e l’onore che il mondo ha attribuito alle nostre rovine universali. Abbiamo da poco consolidato l’invidiabile primato di nazione col maggior numero di “iscrizioni” dei suoi siti quali “patrimonio dell’umanità”: ben 49 su 981. Siamo la prima super-potenza della cultura, dunque. Ma col cartellino giallo appena esibito, l’Unesco ha fatto ciò che avrebbero dovuto fare tutte le istituzioni italiane preposte, o no?

Se dalle lezioni ecologiche e dallo stato dell’arte passiamo all’economia, le note sono ancor più dolenti. Non cala giorno senza che dall’Europa qualcuno si svegli, dalla signora Angela Merkel all’ultimo funzionario di Bruxelles, per dirci come governare l’Italia. Taglia di qua, abbassa di là, guai a voi se non fate questo o quello. E ci indicano pure la data entro la quale presentare i compiti. Ormai la musica va avanti da mesi, come se non fossimo la terza economia del Continente, il secondo Paese esportatore e con una ricchezza generale che, pur assediata dalla crisi senza fine, regge perché poggia su un sistema imprenditoriale, bancario e familiare ancora vivo e forte. Ma anziché ubbidire agli ordini altrui, dovremmo essere noi a darceli, quegli ordini di risanamento pubblico, di riduzione delle imposte, di rilancio dei consumi, o no?

Da Foggia a Bruxelles passando per Pompei il male oscuro che divora l’Italia, e che il perentorio ma meritorio intervento degli stranieri mette in risalto con l’evidenza infantile de “il Re è nudo”, è l’assoluta mancanza del principio di responsabilità. Se a Foggia i foggiani finiscono per delegare agli americani volenterosi la pulizia del loro parco, è perché si saranno detti “non spetta a me tirar su l’immondizia lasciata da altri sul prato”. Il che, naturalmente, è vero: esistono le amministrazioni comunali, provinciali, regionali o statali a ciò e a molto altro adibite. Ma se per incuria, incapacità, cattiva organizzazione o assenza di fondi l’amministrazione non provvede, che si fa? Si lascia la spazzatura per giorni, settimane, addirittura anni -vedi Campania con la sua “monnezza” che fece il giro informativo del mondo-, in attesa che si muova l’ufficio competente? Si lasciano in rovina le rovine di Pompei? Ci si lascia intimidire in tedesco dall’ultimo ragioniere di Bruxelles?

Ecco, bisogna guarire dal “chissene”, come dicono a Roma, cioè “chi se ne importa”. Non occorrono né soldi né volontà particolare né studi geniali alle spalle perché ogni cittadino, nel suo piccolo, dia “un contributo sociale e morale alla città”, per usare le parole riconoscenti di quegli americani a Foggia. Se lo Stato “siamo noi”, come a volte -poche volte- si sente dire, e se lo Stato non funziona, allora siamo noi che dobbiamo sorreggerlo col civismo. In fondo non è difficile. Basta non girarsi dall’altra parte e non trovare sempre l’alibi del “non tocca a me”. Ormai tocca a tutti noi preoccuparci e occuparci del bene comune, soprattutto dopo che negli anni la politica ha dato così misera prova di sé nel saper gestire, amministrare, organizzare, indicare un traguardo e la strada per raggiungerlo. La riscoperta del civismo è la scelta più “politica” che gli italiani possano oggi compiere, se vogliono bene a se stessi e all’Italia almeno quanto ce ne vuole il mondo.

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Letta, l’Enrico temporeggiatore

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Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Brescia Oggi.

Così giovane e già così democristiano, e non si sa se il giudizio oggi suoni come un rimprovero o, date le circostanze, un complimento. Certo è che Enrico Letta da Pisa, classe 1966, sta riproponendo al meglio quell’arte del rinvio in cui eccellevano gli Andreotti e i Forlani nella vituperata – ma evidentemente sopravvissuta – prima Repubblica.

Quando il gioco si fa duro e i duri, si dice, dovrebbero mettersi a giocare, ecco che invece scende in campo Enrico il temporeggiatore. Con un sorriso sempre e solo accennato e tono curiale, il presidente del Consiglio mette le cose a posto e spegne le polemiche. Prudente e premuroso. Ma al costo di decidere di non decidere: è la nuova, antica politica adottata per durare al tempo della crisi. E soprattutto al cospetto di un esecutivo che dice tutto e il contrario di tutto, come si conviene a una coalizione che nasce a sinistra e finisce a destra, o viceversa.

Dall’Imu all’Iva, dal taglio dei soldi pubblici ai partiti a quello delle Province, dalla riforma delle pensioni alle riforme in quanto tali è tutto uno spostare le scelte da compiere di settimana in settimana, di commissione in commissione, di disegno di legge in disegno di legge. Persino di “verifica” in verifica della maggioranza: il Nostro ha resuscitato anche le parole impolverate del tempo che fu.
Intendiamoci, dover accontentare Pd e Pdl passando per Monti, e senza deludere Napolitano, e senza imbattersi nelle ire di Grillo, è un esercizio di pazienza e di astuzia a cui pochi sarebbero portati.

Ma l’obiettivo del governo non è quello, pur necessario, di tagliare il traguardo dei diciotto mesi che si è dato. Il governo esiste non per durare, ma per governare. La stabilità è un valore finché non diventa immobilismo. Il programma è un valore finché non si trasforma in un calendario di promesse. Anzi, in promesse da calende greche.

Arriva il momento in cui anche un presidente del Consiglio così a modo come il Letta mai di lotta ma solo di governo, deve prendersi la responsabilità del “sì” oppure del “no” alle varie e importanti misure, appunto, “in agenda”.

Col balletto del rinvio si tira in avanti, sicuro – “meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, diceva Andreotti – ma non si risolvono i problemi dell’Italia per i quali questo esecutivo è nato. Né si risolve alcunché delegando le questioni italiane all’Europa o facendoci dare penose lezioni di economia dal Fondo monetario internazionale in casa nostra. Letta si decida e decida. Alzi la voce come si conviene al tenore del governo, prima di lasciare la scena.

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Letta si decida a dare battaglia ad Annibale

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Il paragone è lontano e improprio. Ma con l’arte del rinvio in cui ormai eccelle, Enrico Letta si sta guadagnando il diritto che la storia aveva concesso al solo Quinto Fabio Massimo, detto Cunctator, cioè “il temporeggiatore”. Quell’appellativo tanto familiare a intere generazioni di Liceo classico, il politico e generale romano vissuto nel terzo secolo avanti Cristo se l’era conquistato perché per mesi aveva pressato l’esercito di Annibale. Senza però aver mai affrontato in una battaglia decisiva il grande nemico di Roma. Prendeva tempo, il temporeggiatore. Decideva di non decidere, sceglieva la strategia del lento logoramento.
Ecco, il concetto del logoramento ci riporta subito ai tempi nostri: “Il potere logora chi non ce l’ha”, forse non era la massima preferita di Giulio Andreotti? Il giovane Letta sembra sulla stessa via politica degli Andreotti e degli Arnaldo Forlani del tempo che fu: mediare sempre, mediare tutto, mediare comunque. E’ come se gli ultimi democristiani della prima Repubblica avessero passato il testimone al primo della seconda, o già terza. L’Iva aumenta o no? Si vedrà. L’imu sulla prima casa resta o scompare? Ancora non si sa. E le benedette riforme, che dall’economia alle istituzioni dovevano cambiare l’Italia? E l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, che doveva dare un forte segnale di novità ai cittadini? E l’abolizione delle Province, che tutti reclamano ma nessuno, nemmeno la Corte costituzionale, lascia avviare? Calma e gesso: qui si ragiona. Ogni decisione annunciata passa di commissione in commissione, di agenda in agenda. E ormai siamo incamminati verso l’autunno, posto che d’estate – figurarsi – l’attività legislativa del governo e delle Camere va in vacanza molto più a lungo di quella che potranno permettersi tanti italiani.

Certo, Enrico il temporeggiatore ha qualche attenuante. Non è facile mettere insieme Stefano Fassina e Daniela Santanchè, come deve fare chi guida un governo composito. E con una coperta economica che, se la tiri a destra, lascia scoperta la sinistra, e viceversa. E’ penoso, inoltre, dover trattare ogni volta con Bruxelles, che alterna bastone e carota, e mai col Fondo monetario internazionale, che pretende di darci lezioni di fisco in casa nostra. E poi è naturale immaginare che il presidente del Consiglio intenda tagliare il traguardo dei diciotto mesi che si è dato, e che perciò voglia “durare” per arrivare sano e salvo alla mèta.

All’orizzonte, del resto, non mancano appuntamenti importanti, dal semestre di presidenza del Consiglio italiana dell’Unione europea (seconda metà del 2014) all’Esposizione universale di Milano del 2015. Ma una cosa è il tempo, altra il temporeggiare. A più di due mesi dall’insediamento dell’esecutivo (fine aprile), non si può più continuare a spostare le scelte all’infinito in nome di una stabilità che rischia di diventare paralisi. Soprattutto le misure di carattere economico, che rappresentano l’unica ragione sociale di una maggioranza altrimenti impensabile, andando dal Pd al Pdl e passando per Scelta civica. Domani non è sempre “un altro giorno”. A conti fatti sono passati 103 giorni dalle elezioni e siamo ancora in attesa di sapere se il governo taglierà le tasse o le spese, e quali, e quando, e quanto.

Chissà se il tenero Letta ami lo “slow food”, la filosofia della lentezza che contribuisce al piacere d’assaporare un buon cibo o, nel caso del premier, di ispirare una buona decisione. Una decisione lenta, dunque, ma inesorabile, se di autentica decisione si tratta. Ma qui si cullano nell’amaca dei “vedremo”, delle “verifiche” di maggioranza che poco o nulla verificano, dei comitati chiamati –ancora!- a “studiare” le misure, anziché a realizzarle. Ma la crisi, cioè Annibale, è alle porte: Letta si decida a dare battaglia.

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Kyenge, Calderoli e gli “stranieri in Patria”

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C’è un solo modo per risolvere con dignità il caso dell’insulto razzista rivolto dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, al ministro dell’Integrazione, Cécile Kyenge, paragonata a un orango. Calderoli dica “ho sbagliato e me ne vado”.

Per quanto non sia altissima la reputazione delle nostre istituzioni, continuiamo a credere che un ex ministro e attuale numero 2 a palazzo Madama abbia qualche obbligo in più della persona qualunque pronta a dire la prima cosa che le passa per la testa, mentre beve il caffè con gli amici al bar sotto casa. “Bar sport” viene infatti definito quel luogo del libero sfogo collettivo, del pettegolezzo spinto, del pregiudizio più osceno pronunciato a voce alta, dato il contesto non rappresentativo di nulla, fuorché della propria e personalissima stupidità. Ma il vicepresidente del Senato anche quando va a bere il caffè, non è un uomo qualunque. Le sue parole valgono e pesano sempre, e molto di più di quelle dei comuni cittadini che magari l’hanno pure eletto al Parlamento.

E così abbiamo assistito all’intervento del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, costretto a parlare di “imbarbarimento della vita civile”. E la bufera monta con richieste politiche trasversali che il vicepresidente lasci almeno la funzione rappresentativa del Senato. E un assessore veneto sempre della Lega ha commentato: “Vittima è l’orango”. E il solito Matteo Salvini al presidente Napolitano: “Taci che è meglio!”. “È una vergogna, intervenga Maroni per chiudere rapidissimamente questa pagina”, è l’appello del premier Enrico Letta.

Calderoli nel frattempo s’è scusato. Ma spiegando che il suo giudizio era estetico e non politico. Che lui ama associare i politici agli animali. Che nella sua espressione non voleva esserci nulla di razzista. E aggiungendo (Corriere della sera) che “gli pare assurdo che per fare un governo si debbano scegliere ministri tedeschi e del Congo”. Distinguendo, infine: Cécile non è italiana, ma ha la cittadinanza italiana, e non parlerebbe un italiano corretto.

Siamo così arrivati al nocciolo della questione: gli stranieri in patria. Esistono tanti modi per essere italiani. Ma il principale non potrà mai essere determinato dalla Legge. Non dal cosiddetto e lungimirante ius sanguinis (è italiano chi discende da italiano: la norma in vigore), né dal realistico “ius soli” che si vorrebbe introdurre in aggiunta e regolare: è italiano anche chi è nato in Italia, indipendentemente dalla nazionalità dei genitori. In Parlamento giacciono varie proposte per stabilire il percorso per riconoscere la novità di un milione di giovani nati o cresciuti tra noi da madri o padri stranieri. Quando farli diventare italiani: subito? Dopo cinque anni di residenza dei loro genitori in Italia? Dopo che hanno finito il ciclo scolastico elementare?

La verità è che è italiano innanzitutto chi si sente italiano, a prescindere dal sangue o dal suolo. È molto più italiana, per dire, la “congolese” Kyenge (o la “tedesca” Josefa Idem, addirittura stella della Nazionale di canoa), che non l’”italiano” all’anagrafe Umberto Bossi, per citare un altro ex ministro che arrivò anche lui a insultare, a insultare il Tricolore. La “congolese” Kyenge, al contrario, ha scelto liberamente la sua nuova patria italiana, laureandosi in medicina all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, specializzandosi in oculistica a Modena, parlando un italiano di tutto rispetto pur con l’accento della sua lingua-madre, vivendo una vita familiare e di amicizie italiana.

Non è accettabile che chi ha scelto l’Italia per amore e con immensi sacrifici, possa essere sbeffeggiato da politici nei cui comizi s’assiste al “chi-non-salta-italiano-è”. Calderoli non ha diritto a distribuire alcuna patente di italianità. Anche sa da ministro giurò d’essere fedele alla Repubblica, alla Costituzione e alla Nazione. Il che rende ancor più grave la sua posizione.

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L’Alto Adige e lo sconcio della lingua italiana vietata in Italia

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Nel più imbarazzato silenzio verso l’opinione pubblica, rischia di consumarsi un atto politico che finirebbe nei manuali di diritto pubblico per la vergogna: impedire alla Corte costituzionale di difendere la Costituzione.

Evitare che i custodi della Carta facciano valere una legge costituzionale che impone l’obbligo del bilinguismo nella toponomastica italiano-tedesca dell’Alto Adige, e che ammonisce: “L’italiano è la lingua ufficiale dello Stato”. Sorvolando, inoltre, sulla violazione dell’accordo De Gasperi-Gruber all’origine dell’autonomia bilingue nel Trentino-Alto Adige.

Si parla di nomi italiani che da quasi un secolo appartengono all’Italia. Si vorrebbe sradicarli in barba alle leggi, alla storia, alla volontà degli italiani: chissenefrega di loro.

In ballo c’è una legge approvata l’anno scorso dal Consiglio provinciale di Bolzano con i soli voti della Svp e del Pd locale, partito che condivise l’abominio del suo alleato-Golia in giunta. Tutti i consiglieri di lingua italiana e inter-etnici s’opposero. Che fosse un abominio giuridico, non lo dico io, ma lo capì subito il governo-Monti, presentando un ricorso rigoroso e documentato davanti alla Consulta per bloccare il via libera alla cancellazione dei nomi di luogo nella dizione italiana.

Quel ricorso finalmente si discuterà ai primi di ottobre. E qui comincia la vergogna. Anziché consentire alla Corte di sentenziare che nessuno può permettersi l’angheria di eliminare una parte del patrimonio culturale e linguistico della nazione dal suo territorio, e meno che mai la forma italiana ufficiale dei nomi, i sostenitori del tentativo ora pretendono un “tavolo di trattative” tra Roma e Bolzano per attenuare le più lampanti violazioni della legge provinciale e fornire così l’alibi al governo-Letta per ritirare l’impugnativa davanti alla Consulta.

Non più l’evidente ghigliottina d’oggi, ma l’uso più graduale e misericordioso delle forbicine, con qualche contentino bilingue qua e là. Perciò rivolgo un appello al Quirinale. E alla Farnesina, dove si conosce la valenza dell’accordo De Gasperi-Gruber. E ai funzionari e alti dirigenti dei ministeri capaci di dire “Signornò!” a richieste irricevibili. E agli intellettuali d’ogni lingua, ai ministri che non si fanno ricattare dalla piccola politica, a chi ama la pluralità di nomi e di storie.

L’appello è che la Corte costituzionale si pronunci sul diritto non negoziabile della libertà di parola in Alto Adige, come ovunque nel mondo. Vietare l’italiano in Italia, è l’incredibile posta in gioco.

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