Quantcast
Channel: Formiche.net » Federico Guiglia

Silvio Berlusconi, il novello Rieccolo: tutti i perché di un sorprendente ritorno

0
0
L'ITALIA E L'EUROPA CHE VOGLIAMO

Da Merano a Ischia la gente lo ferma per strada per farsi un “selfie” con lui, come se fosse capitan Totti. I giornalisti lo inseguono per avere lumi sul futuro governo, quasi fosse la Sibilla non Cumana, ma di sicuro Romana della politica. E la Merkel, amica ritrovata, lo interpella, mentre Putin, l’amico per la pelle, lo invita al compleanno.

Rieccolo, Silvio Berlusconi, ottantun anni compiuti, ma tutt’altro che “un grande avvenire dietro le spalle”, come chiunque avrebbe di lui pronosticato dopo le polemiche sul bunga-bunga che fecero il giro del mondo. Dopo la condanna per frode fiscale e l’addio al seggio senatoriale. Dopo il declino dell’ultimo dei suoi quattro governi, e la rottura con gli storici alleati, Fini e Casini. Persino dopo la vendita del Milan, l’amore di una vita.

Invece il leader di Forza Italia è tornato a dare le carte. Ha fatto ricorso in Europa per essere riabilitato alla candidatura in Parlamento, oltre che per contestare la condanna considerata ingiusta. E’ diventato l’interlocutore di Renzi e del Pd, il principale partito a lui avverso.

Come si spiega, allora, che il ritorno all’antico sia la novità politica del momento? Che il centro-destra, a lungo modesto, diviso e rassegnato alla sconfitta, sia ora col vento in poppa? Al punto che il risorto Berlusconi già avverte: se non avrà la maggioranza dei consensi alle elezioni, si ritirerà. Un modo per bocciare l’ipotesi delle larghe intese col Pd, e per sottolineare quanto si senta Cavaliere in sella.

La sua “ridiscesa in campo” è figlia soprattutto di due circostanze: il vuoto politico che si è creato in alternativa al centro-destra, con un centro-sinistra frastagliato e rissoso, e con il movimento di Grillo che ha perduto l’incanto del nuovo. Da oltre un anno Virginia Raggi governa la capitale d’Italia: chiunque può giudicarne i risultati.

Dunque, per molti risentire la voce di Berlusconi può apparire rassicurante, in un’Italia che si sente sofferente nel lavoro e impaurita dall’immigrazione. Anche fra i tanti cittadini che di lui non hanno alcuna nostalgia, nessuno negherebbe la capacità dell’uomo di cogliere le emozioni della gente, di saper coccolare speranze del tipo “meno tasse per tutti”.

Dietro l’inaspettato e per certi versi incredibile ritorno, c’è un messaggio di italiana semplicità, che la politica d’ogni colore farebbe molto male a sottovalutare.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Firenze, la Basilica di Santa Croce e il dovere di preservare il patrimonio Italia

0
0
Colombo, Incidente, Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Il grave incidente è avvenuto proprio nella basilica di Santa Croce, che è da tempo sottoposta, secondo i responsabili della chiesa fiorentina e universale dove sono sepolti Machiavelli e Michelangelo, Galileo e Foscolo, Alfieri e Rossini, a un piano di costante manutenzione. Tutto accerterà la magistratura, che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo.

Ma, intanto, l’improvviso distacco di un capitello con la caduta di un frammento in pietra da un’altezza di trenta metri è finito sulla testa di un ignaro e sfortunatissimo turista spagnolo, uccidendolo sul colpo. E tale disgraziata notizia, che ha sconvolto prima di tutto la povera moglie che dentro la chiesa era accanto al marito e manager di una multinazionale, il cinquantaduenne Daniel Testor Schnell, ha fatto il giro del mondo. Come capita, del resto, ogni volta che a Pompei si sfila anche il più insignificante dei calcinacci. Perché nulla è “insignificante” per il mondo che ama il nostro straordinario patrimonio storico-artistico molto più di quanto noi facciamo per preservarlo, abbellirlo, donarlo alle generazioni di domani con lo stesso impegno e fervore con cui l’abbiamo ereditato da quelle di ieri.

È ormai diventato un paradosso insopportabile. Da una parte siamo il Paese più fotografato dell’universo. E l’Unesco, come il notaio, conferma: nella penisola giace – a volte, purtroppo, letteralmente -, il maggior numero di siti unici e bellissimi dell’umanità. Ma dall’altra parte questo dichiarato riconoscimento internazionale non ci stimola a fare meglio e di più per prenderci cura dei beni della nazione. Per prevenire danneggiamenti frutto dell’usura del tempo, dell’indifferenza degli uomini, del disinteresse politico. Per trasformare l’Italia in quello che il mondo percepisce che è, a dispetto di noi stessi: un museo a cielo aperto che, grazie alla sua storia, alla sua arte, al suo paesaggio, allo stile di vita della sua amabile gente potrebbe fare del turismo la prima e fiorente industria. Al contrario, in uno dei soliti atti di masochismo di cui, come italiani, deteniamo ogni primato, anni fa abolimmo proprio il ministero del Turismo, oggi pietosamente riesumato in coda a quello dei Beni Culturali.

Qualunque cosa dirà l’inchiesta, che il triste episodio di Santa Croce diventi comunque un allarme per dedicarci alla cosa più importante e condivisa che abbiamo: la bellezza e l’incanto della bistrattata Italia.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Smog, perché non basta chiudere la finestra

0
0
BLOCCO TOTALE CIRCOLAZIONE

Chi l’avrebbe detto che un giorno saremmo stati costretti a implorare il Generale Inverno alle porte d’essere, stavolta, cattivo e inclemente. Arrivi pure con le sue armate di pioggia e di vento, pur di battere il nemico invisibile, ma temibile dell’inquinamento che ormai assedia l’intera pianura padana. Ci liberi dalla cappa di smog che si fa bellamente fotografare, quasi in segno di sfida, perfino dallo spazio.

L’ultimo a suonare l’allarme sull’aria mai così pesante che si respira in tutto il Nord Italia, è stato l’astronauta Paolo Nespoli in orbita attorno alla Terra. Da lassù, addirittura, ha visto con i suoi occhi quel che noi, comuni pedestri, abbiamo colto da tempo col nasino all’insù: che non si può andare avanti così, con la nuvola sempre più grigia di polveri sottili che sta sostituendo la bianchissima nebbia (o è solo un ricordo?) in Val Padana. Una nuvola che arriva, molesta, quando meno te l’aspetti e non se ne va. Neanche se chiudi porte e finestre di casa, come hanno consigliato amministrazioni e istituzioni. E non si sa se ridere o se piangere, perché è come dare l’aspirina a un malato grave.

L’inquinamento di oggi è una malattia, per fortuna non incurabile, ma frutto di tanti errori di ieri, e da tutti indistintamente commessi. Dall’automobilista che lascia acceso il motore in attesa che la moglie (o il marito) finisca gli acquisti nel vicino negozio, alla grande politica, per anni incapace di progettare una strategia allo stesso tempo industriale e ambientale. Una visione in sintonia con i progressi della modernità e con le straordinarie conoscenze sui cambiamenti climatici e i gravi rischi connessi.

Se i governi del mondo si sono inventati perfino “protocolli” internazionali per contrastare le nocive emissioni che se ne infischiano dei confini e delle baruffe ideologiche, vuol dire che la malattia in Val Padana è seria, profonda, meritevole di un’attenzione incessante e competente, anziché di qualche promessa in campagna elettorale. Se c’è una battaglia che soltanto d’intesa tra i cittadini e le loro città, e il governo di tutti, può essere vinta, essa riguarda la sicurezza. La sicurezza della nostra salute, il bene più collettivo e non negoziabile che abbiamo. Perciò ogni alleato dev’essere convocato, dal meteo a cui rivolgere un’affettuosa danza della pioggia ai ministri a cui tirare la giacchetta per chiedere loro: che state facendo contro l’inquinamento di queste ore e dei prossimi anni? E all’automobilista incivile, impariamo a dirgli: spegni il motore.

(Alla fine del testo, tra parentesi: Articolo pubblicato su Il Giornale di Vicenza e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco come Paolo Gentiloni correrà per il bis a Palazzo Chigi

0
0
PAOLO GENTILONI MINISTRO AFFARI ESTERI

Per una volta non ci possono essere equivoci. “Se il presidente del Consiglio conferma Visco, io non condivido”, aveva detto chiaro e tondo Renzi. E il presidente del Consiglio ha riproposto proprio Ignazio Visco alla guida della Banca d’Italia. Lo strappo di Gentiloni (in foto) con il leader del Pd arriva nelle stesse ore in cui il presidente del Senato, Grasso, abbandona il comune partito, mentre a Palazzo Madama a colpi di fiducia veniva approvata la controversa legge elettorale con prevalente meccanismo proporzionale. Regolerà le prossime e sempre più vicine elezioni nazionali di primavera.

Dunque, una giornata nata secondo le aspettative di Renzi, che portava a casa, nonostante la dura opposizione dei Cinque Stelle, il cosiddetto Rosatellum bis (dal nome del deputato del Pd, Ettore Rosato, che l’ha presentato alla Camera), s’è invece conclusa con una rottura senza precedenti. Perché è di natura istituzionale, oltre che politica. E perché avviene in contrasto con la mozione parlamentare che il Pd aveva promosso per la discontinuità ai vertici della Banca d’Italia: “Serve una figura per una nuova fiducia”, sollecitava il documento.

Invece Gentiloni ha scelto la strada opposta: sì alla riconferma, per la quale s’erano spese autorità dello Stato, a cominciare dal Quirinale.

Non era scontato che il premier indicasse una soluzione invisa a Renzi, anche se tra i due i rapporti sono buoni (lo ripetono entrambi).

Il leader del Pd aveva sempre sottolineato che avrebbe comunque rispettato la libera scelta di Palazzo Chigi, a cui spetta l’avvio della procedura di nomina del nuovo governatore (e l’atto conclusivo toccherà al presidente Mattarella).

Ricandidando Visco all’unico bis che la legge consente, Gentiloni si smarca dal “suo” segretario e dal suo stesso partito. Lo fa alla vigilia delle prove generali delle elezioni in Sicilia, il cui esito avrà ripercussioni sulla strategia di Renzi e sulla sua capacità d’essere riconosciuto come un condiviso punto di riferimento nel centro-sinistra. Non è un mistero che le elezioni potrebbero finire senza vincitori né vinti. Ciò potrebbe comportare le larghe intese fra Pd e Forza Italia. Ma il futuro premier dipenderà da molte circostanze: i voti ottenuti dai partiti, i nuovi equilibri, le esigenze istituzionali.

Con la sua decisione indipendente Gentiloni conferma ciò che in molti già dicono: che anche lui sarà della partita.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Vi racconto la comica fuga di Puigdemont in Belgio

0
0
Puigdemont

La Repubblica della Catalogna finisce ancor prima di cominciare. E finisce non all’ombra di Madrid, che ha chiesto l’incriminazione del destituito presidente Puigdemont, di quattordici esponenti del suo governo e di sei parlamentari per ribellione, sedizione e malversazione, ma al cospetto di Bruxelles. Qui, infatti, nel cuore politico della tanto invocata Europa da parte dei secessionisti, si sono rifugiati a sorpresa alcuni di loro, a cominciare dal leader catalano. Secondo la stampa spagnola, vorrebbero chiedere asilo politico al Belgio, perché l’aver proclamato unilateralmente l’indipendenza, nonostante i ripetuti moniti istituzionali a non agire “in disprezzo della Costituzione”, è un grave delitto che potrebbe comportare l’arresto dei capi indipendentisti.

Ma la fuga di Puigdemont e dei suoi a Bruxelles non è soltanto un quasi comico colpo di scena, dato che la democratica ed europeista Spagna non è certo in balìa di alcun dittatore. E poi nella ricca Catalogna, regione a statuto specialissimo, non regna alcun pericolo di discriminazione né di oppressione per la cultura, l’economia e la lingua catalane, di gran lunga preponderanti su tutto ciò che è “spagnolo”. L’improvvisa sparizione dei secessionisti da Barcellona, dopo che con atti e proclami avevano incendiato gli animi e le istituzioni inducendo la magistratura a intervenire per ripristinare la legalità tanto platealmente violata, si conclude proprio nella capitale di quell’Unione europea che l’ha ripetuto in tutte le lingue e latitudini: mai riconosceremo una nazione catalana.

Intanto, assecondate dalla stampa, dai giuristi e, soprattutto, dai solidali governi europei, le autorità di Madrid hanno imboccato la via del diritto. Che non è quella, inaccettabile, di usare la polizia contro gli inermi, come accadde il giorno del referendum illegale, bensì di far valere la forza della democrazia. Mandando a casa l’inadempiente governo catalano e indicendo subito nuove elezioni, mentre un milione di unionisti sfilavano a Barcellona. E, all’opposto, i tifosi del Girona gongolavano allo stadio per aver battuto il Real Madrid.

Ma la vera partita è ora nel campo dei magistrati, come si conviene nell’Europa della condivisione quando si attenta all’unità nazionale, che è un bene prezioso e un principio fondante tutelato da tutte le Costituzioni di tutte le Repubbliche.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


La strage di New York, Guantanamo e la carta verde

0
0
New York

Nel giorno di Halloween, che richiama le streghe e gli zombie per divertimento, l’America ha scoperto un mostro vero, autore della più grave sfida di terrorismo dopo quella dell’11 settembre. E sempre a New York, sedici anni dopo le Torri Gemelle.

Del ventinovenne che, al volante del solito camioncino contromano su una pista ciclabile di Manhattan, ha ucciso otto innocenti ferendone altri quindici, si sa ormai quasi tutto. Sayfullo Saypov, l’uzbeko ferito e catturato dalla polizia, era da sette anni negli Stati Uniti. Regolare e con famiglia, autista di mestiere, cioè in apparenza persona integrata nella generosa società americana, che attira il mondo per la sua capacità di dare un’opportunità a tutti.

Eppure, quest’uomo s’è radicalizzato proprio lì, tra l’Ohio, la Florida e il New Jersey. Ha pianificato il suo delitto con cura, ha agito in nome dell’Isis, rivelano gli inquirenti. Che hanno anche trovato nel camioncino un biglietto scritto a mano in arabo, dove si inneggia allo Stato islamico “che durerà per sempre”.

Dunque, non un raptus di follia, ma una consapevole e ideologica volontà di falciare la gente e di rivendicare la strage. Allo stato l’uzbeko sarebbe un lupo solitario, “animale”, l’ha chiamato il presidente Trump. Augurandosi che venga spedito e rinchiuso nella prigione di Guantanamo. “Basta con il politicamente corretto nel rispondere al terrorismo”, ha detto. Aggiungendo che chiederà al Congresso di porre fine alla storica lotteria della carta verde.

È uno strumento che mette a disposizione l’agognato documento – un permesso di soggiorno permanente per lavoro – per consentire a cinquantacinquemila cittadini non americani ogni anno di farsi una vita negli Stati Uniti. Se n’è valso anche il terrorista nel 2010, ecco perché Trump ora chiede l’abolizione del meccanismo.

Anche in Europa le reazioni sono state durissime, ogni volta che le sue città sono state insanguinate dal terrorismo fai da te o da cellule organizzate. Ma la risposta europea non ha mai confuso il dovere di colpire gli attentatori, e di prevenire la loro violenza, con la chiusura di frontiere “a prescindere”. Distinguere il grande male del terrorismo dalla grande speranza di chi arriva da altre nazioni per far bene nel nuovo Paese, è la forza della democrazia. La speranza è proprio la bandiera del mondo libero. Non la si deve ammainare mai.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco perché tra Musumeci e Palazzo Chigi la Sicilia non è più un’isola

0
0
musumeci, sicilia, voto

Se la Sicilia non è più un’isola, come indica il voto appena archiviato e ultimo test prima delle politiche di primavera, vincitori e vinti avranno lo stesso problema: chi guiderà chi. E come arrivare a una maggioranza non per prevalere, ma per governare.

Nella Regione, dove il centro-destra strappa il primo e vigoroso posto (40 per cento dei consensi) inseguito dai Cinque Stelle col 34,6, ma col 53 per cento degli elettori che non vanno a votare, si sono svolte le prove generali del cosiddetto Rosatellum. È la legge elettorale che, a livello nazionale, indurrà due dei tre grandi contendenti a mettersi d’accordo, turandosi il naso.

Seguendo l’esito siciliano, potremmo avere un esecutivo tra il rinforzato Berlusconi e l’indebolito Renzi (o chi per lui). Un’insolita intesa tra chi vince e chi perde, pur di lasciare il partito di Grillo fuori non dai giochi -impossibile: gli italiani lo votano-, ma da Palazzo Chigi.

Nel laboratorio siciliano il centro-destra conferma d’avere il vento di nuovo in poppa grazie a un apprezzato candidato di destra per la presidenza della Regione. E grazie all’unità ritrovata dei suoi sostenitori. Ma la Sicilia, dove Forza Italia ha fatto il pieno nella coalizione, non è il Veneto né la Lombardia. Qui, la Lega non più Nord ha un peso inversamente proporzionale alla scarsa influenza registrata, invece, laggiù. Il successo, perciò, darà alla testa. Anzi, alle teste di Berlusconi, di Salvini e di Giorgia Meloni, che può vantare d’aver imposto il candidato giusto in Sicilia, il neo-presidente Musumeci. Ma per gli alleati che brindano, ora s’apre la partita del candidato per Palazzo Chigi. Con Berlusconi che vuole la prima fila.

Anche l’insuccesso può dare alla testa. Il centro-sinistra ha raccolto solo il 18,6 per cento dei consensi. E un terzo di quei voti d’area li ha presi la sinistra (il 6,1 per cento). Perfino sommati -insegna la lezione siciliana-, i rappresentanti dell’attuale maggioranza a Roma risulterebbero sconfitti. E poi sull’ipotetica intesa fra Pd e sinistra pesa il fattore Renzi. Così in difficoltà, il leader del Pd, che Di Maio ha usato la pesante batosta elettorale dell’avversario da alibi per sottrarsi all’annunciato duello televisivo. “Non è più lui il competitore”, ha spiegato il fuggitivo. Piccata la replica: “ Di Maio ha paura del confronto”. Ma per Renzi il vero regolamento di conti non è con gli altri: è col “suo” centro-sinistra. Guai ai vinti.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco perché sulle banche gli italiani chiedono una “Bicamerale con vista”

0
0
banche, renzi,

Se Matteo Renzi voleva allenarsi in vista dell’ormai prossimo, e inedito, faccia a faccia televisivo con Luigi Di Maio, non poteva scegliere un tema e uno sparring-partner migliori. Cogliendo la presenza di Pierferdinando Casini a Firenze per presentare un libro sull’ex sindaco democristiano La Pira, il leader del Pd l’ha incontrato “a porte chiuse”, come s’usa dire dei colloqui riservati perché diventino, invece, di pubblico dominio. Nulla di strano, se non per il particolare -subito denunciato dai polemici Cinque Stelle- che il presentatore del libro e navigato senatore è pure neo-presidente della neo-commissione bicamerale d’inchiesta sul sistema bancario in Italia.

Naturalmente, l’indiscrezione trapelata sulla conversazione segreta più pubblicizzata del giorno è che Renzi e Casini proprio di banche abbiano parlato. “Perché s’incontrano in privato in Toscana?”, si sono chiesti con una nota al curaro i commissari pentastellati dell’organismo parlamentare, gridando allo scandalo. “Casini si fa dettare l’agenda a uso e consumo del segretario Pd?”.

Tirato in ballo, il primo interessato, cioè Casini, ha replicato “alla Renzi”. “I Cinque Stelle stiano sereni”, ha detto, alludendo all’ormai celebre espressione dell’ex premier. “Se ci fosse stato qualcosa di riservato, non avrei incontrato Renzi di fronte a centinaia di persone”.

Ma la Bicamerale da lui presieduta, i cui lavori s’interromperanno allo scioglimento della legislatura -dunque molto presto-, s’accinge a una serie di importanti audizioni. A cominciare dal confronto, giovedì prossimo, tra alti rappresentanti della Banca d’Italia e di Consob, “perché abbiamo registrato incongruenze”, come ha spiegato proprio Casini. Quegli esponenti erano già stati ascoltati per capire le loro diversità sulla gestione dei controlli in Popolare di Vicenza e Veneto Banca. E poi basta evocare un’altra banca -“Etruria”- per comprendere quanto il tema sia incandescente per tutti. Anche per Forza Italia, che dice: non ci rimettano solo i contribuenti e i risparmiatori.

Lo stesso Renzi, reduce dallo scontro contro la riconferma di Visco alla Banca d’Italia, ripete un concetto caro soprattutto ai pentastellati, ossia che i manager e i banchieri che hanno sbagliato “devono pagare”. È un vespaio politico sul terreno già minato delle banche. Ma anche gli italiani spettatori chiedono qualcosa: di conoscere tutta la verità, nient’altro che la verità. Una Bicamerale con vista.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Nazionale fuori? Fuori anche Tavecchio e Ventura

0
0
Colombo, Incidente, Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Chiedere le dimissioni degli altri è la pratica più facile del mondo: tanto, non le danno mai. Ma nel caso di Carlo Tavecchio e Gian Piero Ventura, i principali artefici della disfatta azzurra, nessuno dovrebbe chiedere niente. Da soli e da sé, il presidente della Federazione Italiana Giuoco (con l’antica “u”) Calcio e l’allenatore della Nazionale, quali essi sono, dovrebbero semplicemente trarre le conclusioni della loro straordinaria impresa in mondovisione. Proprio straordinaria, perché l’Italia non perdeva da sessant’anni la qualifica al Mondiale che si svolge ogni quattro. Invece la Nazionale quattro volte campione del mondo (solo il Brasile ha alzato una coppa in più di noi, e solo la Germania ci è pari), ha appena detto addio ai sogni di gloria e di Russia. Una super-potenza del pallone sconfitta, oltretutto, per mano, anzi, per i piedi di una Nazionale modesta per gioco e per storia come la Svezia senza Ibrahimovic, il suo unico fuoriclasse.

Nell’attesa di ricostruire tutto sulle rovine del calcio italiano, Tavecchio e Ventura hanno un solo dovere: andarsene. E subito. Mollare le loro poltrone d’oro non già perché glielo sollecitino proprio tutti -perfino il presidente del Coni, Malagò, che non è un noto rivoluzionario-, ma perché nella vita, e non solo nello sport, chi sbaglia, paga. E qui non siamo davanti a un errore banale né a una svista piccina, ma a un disastro sportivo ed economico. E’ accaduto quello che non doveva né poteva accadere: i principali responsabili del fallimento non hanno il diritto morale di trattare o di traccheggiare sulla loro permanenza, a prescindere dal diritto contrattuale. Qui il senso civico si antepone al cavillo. Qui il desiderio collettivo che, almeno per una volta, giustizia sia fatta, viene prima di qualsivoglia carta più o meno bollata. È incredibile il solo doverlo spiegare, perché non è poi così difficile da capire.

Lo capì il predecessore di Tavecchio, Giancarlo Abete, che si “dimise irrevocabilmente” con due anni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato dopo la pessima figura della Nazionale in Brasile nel 2014 (fu eliminata già nella fase a gironi). E con lui tornò a casa pure Cesare Prandelli, il Ventura dell’epoca. Perché gli onori e gli oneri valgono insieme quando si vince e quando si perde. Figurarsi quando è Caporetto, di cui – destino amaro – ricorrono proprio i cent’anni.

L’Italia di Buffon piange, e noi con lui. Ma non si aggrappa alla cadrega.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratti dal sito www.federicoguiglia.com)

 


L’eutanasia, il Papa e la scelta di non scegliere del legislatore

0
0
Colombo, Incidente, Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Quando a chiedere un “supplemento di saggezza” è il Papa, e su un tema sensibile e complicato come quello del fine-vita, l’interrogativo che sorge automatico è che cosa abbia fatto fino ad ora il Parlamento. E l’interrogativo acquista ancora più forza, quando si scopre che il testo già approvato dalla Camera per cercare di regolare la questione senza più lasciarla alla mercé dei magistrati giace, letteralmente, da sette mesi al Senato.

È sepolto sotto una valanga di emendamenti, presentati da chi legittimamente dissente dal testo. Ma, di fatto, ciò impedisce sia un sì che un no alla legge. Hanno scelto di non scegliere: prevale la solita palude. Ma nel suo intervento a sorpresa Francesco non si è limitato a rivolgere un messaggio lungo e meditato alla Pontificia Accademia per la Vita. In modo problematico e di sicuro nuovo per un pontefice ha distinto con chiarezza: evitare accanimento terapeutico non significa praticare l’eutanasia. Sulla quale la Chiesa non ha cambiato il suo giudizio contrario, posto sempre a sacra tutela della vita. Ma la difesa del principio bimillenario e del valore non negoziabile della vita non può ignorare la drammatica e sofferente realtà di quanti oggi si trovano a non poter far valere la loro ultima volontà, proprio perché manca una legge che tracci un nuovo e più “saggio” confine tra lecito e illecito.

Tant’è che non pochi malati senza speranza, o comunque non più disposti a subire un’esistenza da loro considerata invivibile, seguono da tempo la “via della Svizzera” per porre fine alla disperazione. Con ciò creando una doppia e inaccettabile categoria di malati: quelli che possono permetterselo, e gli altri costretti a non avere alternative in patria. Con la sua scossa Francesco fa traballare anche una grande ipocrisia. Nessun medico degno del nome e nessun familiare vero di una persona ammalatissima tiferanno mai per l’eutanasia: come potrebbero? Oltretutto, il progresso della scienza e una nuova cultura alimentare e salutista più avveduta hanno spinto l’aspettativa di vita oltre gli ottant’anni, come mai nella storia dell’umanità.

La direzione del mondo va verso la vita, la più lunga e la più degna possibile. Ma non si può chiudere gli occhi a fronte dei casi strazianti come quello di Eluana Englaro, che otto anni fa indusse la magistratura, nell’inerzia prima e nella polemica poi del Parlamento, a decidere lei il da farsi. Il giudice, il Papa: e il legislatore quando?

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratti dal sito www.federicoguiglia.com)


Fratelli d’Italia per sempre. Storia precaria di un inno bellissimo. Il nostro

0
0
Colombo, Incidente, Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Aveva “l’autorizzazione provvisoria”, come la si dà quando è meglio non risolvere un problema. E la firma dell’atto che concedeva alle istituzioni la possibilità temporanea di eseguire quella musica, era di Alcide De Gasperi, primo capo del governo nell’Italia repubblicana. La appose nel 1946, il giorno della scoperta dell’America: 12 ottobre.

Dice l’impolverato verbale: “Su proposta del ministro della Guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli”.

Da allora l’inno ha navigato per settantun anni fra l’Italia e il mondo come un precario della patria. Finalmente, il “Canto degli Italiani”, come in realtà si chiama l’inno nazionale, esce dall’ombra. Come già da tempo l’avevano fatto uscire gli italiani, cantandolo ovunque se ne presentasse l’occasione. In sede deliberante la commissione Affari Costituzionali del Senato ha fatto diventare definitivo il provvisorio. Adesso Goffredo Mameli, che ne scrisse le parole, e Michele Novaro che lo musicò, non ce li toglie più nessuno. Fratelli d’Italia per sempre.

Può sembrar singolare che, proprio nella patria di Verdi e del belcanto, di Pavarotti e di Bocelli, di Mina e Pausini, la nazione italiana abbia rinunciato così a lungo all’orgoglio di una sua canzone ufficiale e solenne. Un motivo che la facesse sentire una e unita, e riconosciuta dappertutto. Come lo svolazzante e leggero Nel blu dipinto di blu di Modugno. Neppure chi ha elaborato la Costituzione, a differenza di molti altri Paesi, s’era curato d’aggiungere due righe per indicare un inno che De Gasperi aveva battezzato di gran corsa alla vigilia di un 4 novembre a sua volta nel frattempo abolito (e a tutt’oggi non ancora ripristinato) come giornata di festa nazionale.

Se l’inno e la bandiera sono il padre e la madre d’ogni patria, da noi il papà veniva bistrattato e persino deriso. A cicli continui, una parte dell’intellighenzia progressista e la Lega secessionista ancora imbevuta, all’epoca, delle ampolle del dio Po, ne chiedevano l’abolizione. O la comica sostituzione col coro Va’ Pensiero del Nabucco, “perché è padano”, dicevano dell’italianissimo Verdi.

Pochi facevano notare l’impronta risorgimentale dell’inno, le parole appassionate e profonde di un poeta, Mameli, morto per l’Italia ad appena ventun anni nel 1849. Il resto purtroppo lo faceva chi lo eseguiva (e ancora esegue) con uno stile troppo bandistico, pur prestandosi, la Canzone degli Italiani, a bellissime interpretazioni. Per esempio eseguite solamente con gli archi.

Il primo a rompere il pregiudizio musicale sull’Inno di Mameli fu Riccardo Muti. Il Maestro ne spiegò la bellezza e la delicatezza, suggerendo come poteva essere suonato per metterne in evidenza il valore artistico e la forza del testo.

Ma la svolta che ha reso popolare l’inno nazionale arriva nel 1999 con il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Non a caso un personaggio colto e risorgimentale, che non si piegò all’ideologismo o all’ignoranza – nel senso proprio di non conoscenza – di quanti avversavano Mameli.

Ciampi fece la cosa più elementare: lo fece cantare. Fino a quel momento anche i calciatori della Nazionale facevano scena muta al momento di Mameli (e la faranno ancora, visto che non saranno al Mondiale in Russia dopo la disfatta di lunedì). Nella scuola nessuno l’insegnava più. Nella politica quasi tutti i congressi di partito s’aprivano senza l’inno. Del resto, la maggior parte delle forze politiche neppure aveva il Tricolore nel proprio simbolo.

Se tutto ciò è ormai preistoria, se Benigni ne ha recitato divinamente i versi in una memorabile serata televisiva, il merito è soprattutto di Ciampi, che andò controcorrente rispetto a una classe dirigente timorosa di pronunciare concetti come “nazione” o “patria”, rifugiandosi nell’ecumenico “Paese”.

La fotografia del cambiamento si coglie guardando gli stessi artefici del testo: appartengono ad opposti schieramenti. Il primo firmatario della proposta è un deputato del Pd, Umberto D’Ottavio. Il relatore del testo al Senato è, invece, di Forza Italia, Roberto Cassinelli. Su Mameli ogni divisione è finita. In precedenza (2012) parlamentari di entrambi i fronti avevano approvato anche una legge per far imparare e cantare l’inno nelle scuole.

Settantun anni dopo l’Italia chiamò.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


La lezione di Sappada e i privilegi di un regionalismo da rifare

0
0
Colombo, Incidente, Vivaldi marciare, consip, siria, brescia, Londra Alto Adige, Federico Guiglia dj fabo

Nel suo piccolo (meno di millecinquecento abitanti) il trasloco di Sappada non sposta niente. Con voto del Parlamento, il Comune bellunese è passato dal Veneto al Friuli-Venezia Giulia. Stessa nazione, stessa aerea geografica, stessi cittadini che cambieranno, semplicemente, anagrafe e amministrazione. Eppure, è un trasferimento senza precedenti, che può aprire un grottesco, ma anche pericoloso vaso di Pandora. Perché le ragioni prevalenti, se non uniche, dell’addio, non sono storiche, linguistiche o artistiche, cioè frutto di processi antichi, lunghi e complessi. Qui se ne sono andati perché il Friuli, a differenza del Veneto, è una regione a statuto speciale con maggiori poteri legislativi ed economici. Li ha spinti il desiderio o l’illusione di “stare meglio”. L’identico sogno da tempo accarezzato da Cortina d’Ampezzo, che vorrebbe trasferirsi in Alto Adige per fare le cose ancor più in grande. Dove nell’“autonoma” e ricca Provincia di Bolzano il livello delle tasse trattenute sul territorio arriva addirittura al novanta per cento. Come per l’altrettanto privilegiata Valle d’Aosta.

Ma se ogni Comune piemontese facesse come l’appena trasferita Sappada o come Cortina in lista d’attesa, se ogni municipio calabrese aspirasse a unirsi alla Sicilia o perfino alla lontana Sardegna pur di sfruttarne la loro “specialità” statutaria, l’Italia diventerebbe una corrida di egoismi. Tutti a caccia dell’Eldorado della porta accanto, tutti pronti a sbattere la porta di casa per bussare a quella del vicino col suo giardino che appare più bello e rigoglioso. Perché sempre ci sarà un’autonomia più autonoma di quella agognata. Lo rivela proprio il sindaco di Sappada, Piller Hofer. Non si è ancora spostato, ma già così commenta: “Se siamo contenti di diventare più ricchi? Calma, vediamo. Il Friuli è una cosa, l’Alto Adige un’altra”.

Incontentabili. A maggior ragione se si considera che la vera anomalia nell’ordinamento della Repubblica è l’anacronistica disparità di trattamento fra le cinque Regioni a statuto speciale e le altre quindici ordinarie che pedalano senza gli stessi vantaggi. Solo una ragionevole e concordata forma di autonomia responsabile, senza figli o figliastri, con diritti e doveri, può evitare le fughe alla Sappada. Non possono esserci cittadini più “speciali” di altri, settantun anni dopo la nascita della Repubblica uguale per tutti.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Sappada, quando il Comune trasloca da una Regione all’altra

0
0
Debora Serracchiani

Giusto il tempo che la legge finisca sulla Gazzetta Ufficiale e poi bisognerà fare attenzione agli scarponi da sci: uno pensa di averli messi in Veneto e invece si ritrova a doverseli togliere in Friuli-Venezia Giulia. Senza aver cambiato pista, passeggiate o discese, lassù, tra le magie di Sappada. Grazie all’ultimo e definitivo abracadabra della Camera (257 deputati a favore, 20 contrari, 74 astenuti), il Comune bellunese è appena passato da una Regione all’altra. L’onorevole trasloco è stato festeggiato con caroselli d’auto fra i non molti abitanti -meno di millecinquecento- di un luogo noto per il turismo d’inverno e d’estate. Ma il via dal Veneto verso il più luccicante Friuli è quasi un fuori-stagione, è la corsa verso chi sta ancor meglio del già benestante territorio finora considerato di casa. La differenza che ha ispirato l’addio, si chiama “specialità”. La nuova regione accogliente è una delle cinque più autonome d’Italia. Quella che piange l’abbandono dei suoi residenti è una delle quindici a statuto ordinario. Dunque, tra il Veneto e il Friuli c’è un mare di competenze in più, un potere legislativo superiore, il miraggio economico di crescere ancora e con maggiore forza. “Il voto della Camera è un atto di giustizia”, già si esalta Debora Serracchiani, la governatrice romano-friulana che ha vinto il braccio di ferro. “Roma continua a banalizzare, pensando che l’autonomia si possa sostituire con amputazioni ad hoc”, si deprime Luca Zaia, il governatore veneto sconfitto. Certo è che quest’atto formale è il primo nella corsa verso chi è più autonomo dell’altro. Il tiro alla fune del Veneto e della Lombardia, con i loro pur diversi referendum dagli esiti diversi per ottenere nuove e più forti prerogative dallo Stato, si spezza dove meno te l’aspetti: in casa propria. La piccola Sappada che se ne va per conto suo e bussa alla porta accanto. Trasferirsi di pochi metri verso una regione che, in virtù della sua specialità, può dare di più.

Eppure, lo strombazzato trasloco non basta. “Se siamo contenti di diventare più ricchi?”, si domanda Manuel Piller Hofer, il sindaco di Sappada. E così si risponde nel giorno del trionfo: “Calma, vediamo. Il Friuli è una cosa, l’autonomia del Trentino-Alto Adige un’altra”. Allude all’erba sempre più verde dell’altro e invidiato vicino, che trattiene il novanta per cento delle tasse nel proprio territorio. Nel suo piccolo, dunque, l’addio al Veneto testimonia dove può portare il “malessere da benessere”: alle mini-secessioni continue verso l’Eldorado del vicino accanto. Porta al rifugio sotto l’ala protettiva delle cinque regioni a statuto speciale, privilegio anacronistico invidiato dalle quindici ordinarie che pedalano senza gli stessi vantaggi.

Del resto, da tempo la ricca Cortina d’Ampezzo è in lista d’attesa per fare un salto nell’ancor più ricco Alto Adige, e restarvi. Se non è ancora successo, è perché Bolzano, che comprende lo straordinario valore aggiunto di Cortina, ne teme la ricaduta sul piano dell’equilibrio linguistico, visto l’eventuale arrivo di nuovi residenti di lingua italiana. Ma nel frattempo un gruppo di sette Comuni della Valmarecchia già ha fatto, grazie a una legge del 2009, un cambio alla pari: dalle Marche all’Emilia-Romagna, entrambe regioni a statuto ordinario. L’andirivieni istituzionale è di gran moda.

Non manca, nel caso di Sappada, un aspetto surreale, che però spesso accompagna le richieste di separazione, per cercare di abbellirle. Era dal lontano 1852 -informano i neo-liberati dal Veneto- che il Comune bellunese era stato “ingiustamente separato dal Friuli”. In realtà quell’epoca risale al non rimpianto impero austriaco. Ma con l’immaginario indietro tutta s’alimenta il mito dell’eterno ritorno e si giustifica la “rivoluzione” su un piano un po’ più nobile della prevalente scelta di convenienza.

Si sono sentite forti perplessità procedurali (per esempio: il parere della Regione Veneto non è stato formalmente acquisito) e politiche nella discussione finale alla Camera. Ma Sappada diventa anche uno spunto concreto per riflettere su un ordinamento che, a settantun anni dalla nascita della Repubblica, non regge più: cinque Regioni speciali avanti a tutte, pur rappresentando soltanto una parte minoritaria dei cittadini italiani residenti nelle altre quindici. Si pensi che il grande Piemonte è a statuto ordinario e la minuscola Valle d’Aosta specialissima. E’ un regionalismo a fisarmonica che crea profonde disparità di trattamento fra gli stessi cittadini italiani, e finisce per spingere le piccole fughe di Comuni verso lidi migliori.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


All’Italia senza figli solo le briciole dalla manovra

0
0
manovra

Dopo il danno, le briciole. È già polemica sull’emendamento alla legge di bilancio che ha previsto un fondo di appena cinquanta milioni nel prossimo biennio per risarcire le vittime dei reati finanziari, cioè i risparmiatori colpiti dalle crisi bancarie. Qualcosa – avvertono i consumatori del Codacons – che negli ultimi quindici anni s’aggira sui 44 miliardi di perdite per i cittadini coinvolti.

Ma per dare l’idea della beffarda sproporzione fra il male accertato e la grottesca cura proposta, si può citare anche l’Istat. Ha appena rilevato che il calo della natalità in Italia ha toccato livelli senza precedenti: meno centomila bambini nati negli ultimi otto anni. La media per donna è ormai di 1,34 figli a testa, tra le più basse al mondo. Per assicurare la continuità fra le generazioni – spiegano i demografi -, dovrebbe essere di almeno 2 figli per coppia.

A fronte del dato molto grave anche per le nefaste conseguenze che comporta, qual è la risposta della manovra all’esame del Senato? Il dimezzamento del pur definitivo bonus bebè. Passerà dai risibili ottanta euro al mese per l’anno entrante ai mortificanti quaranta per il 2019. Come se 480 euro all’anno potessero incoraggiare una coppia in difficoltà economica a far figli. La denatalità dovrebbe essere la madre, letteralmente, di tutte le battaglie politiche per i suoi risvolti economici, familiari e previdenziali. Per una certa e felice idea dell’Italia che invece fatica a farsi strada sotto il peso dell’interminabile crisi e all’ombra di una rete istituzionale del tutto insufficiente per consentire alle donne di lavorare in regime di parità e senza dover rinunciare ai figli. Invece siamo ancora all’abc nella catena di protezione sociale. Siamo alla cronica denuncia di mancanti o mal distribuiti asili-nido. Per non dire, in compenso, dei sessanta milioni di sgravi sulle prestazioni sanitarie, che sono solo una parziale abrogazione del super-ticket in un Paese destinato a invecchiare.

Ogni finanziaria deve fare i conti con l’alto debito pubblico, con gli obblighi europei, con il dovere di non tramandare ai figli gli sperperi consumati per troppi anni dal cinismo politico dei loro padri e nonni. Ma bisogna pur avere un’idea di futuro e fare lo sforzo massimo per realizzarla. Con la logica dell’aspirina nessuna legge di bilancio potrà sanare i mali d’Italia. Con l’elemosina ai risparmiatori e la mancia alle coppie non si va lontani. Neanche in campagna elettorale.

(Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Il simbolo del presepe e l’ecumenismo dell’indifferenza

0
0
Imagoeconomica_30047

Difficile, anche per un non credente, immaginare un segno di serenità più intenso di quello rappresentato dal presepe. Raffigurare la nascita di Gesù è molto più che tramandare una tradizione. Significa indicare una speranza per tutti, perché una nuova vita è sempre una nuova alba: donarla, accoglierla e condividerla con gioia prescinde da qualunque fede. Pur evocando, il presepe, la fede cristiana.

Perciò, la mozione che il Consiglio regionale del Veneto ha approvato per esortare, anche con finanziamenti, le scuole pubbliche a farlo, il presepe dimenticato, non deve e non può urtare la suscettibilità di nessuno. Il rispetto è nella forma stessa con cui la tradizione popolare, accompagnata da straordinarie opere di arte italiana e universale, ha da sempre raccontato l’evento. Il bambinello, la mangiatoia col bue e l’asinello, i pastori: una lontana e agreste idea di felicità che affratella.

Ma perché l’atto politico non diventi una sciocca ripicca ideologica nei confronti di quei presidi, insegnanti e persino sacerdoti che in tempi recenti hanno rinunciato a esporre uno dei simboli più cari al popolo italiano in nome di un ecumenismo senza valori -il finto buonismo dei veri indifferenti-, il Natale va riempito di riflessioni e di confronti, non solo di regali. Invece da tempo, e ben prima che dilagasse la polemica sul rapporto dei musulmani d’Europa con i principi occidentali, il Natale dei lustrini ha abolito il Natale del presepe. Come osserva Massimo Cacciari, sono proprio i cristiani, non altri, ad aver intrapreso questa strada buia, ancorché illuminata: il vicolo cieco del “festino”, senza più interrogarsi sul senso di una ricorrenza che da Duemila anni fa parlare e incontrare, dalla notte del 24, l’intero universo.

Ma questa ricorrenza è fonte della nostra storia e cultura: girarle le spalle, per pigrizia o per ignavia, vuol dire – avverte il laico Cacciari – mettere a rischio i valori della nostra civiltà. Per esercitare il dovere e il piacere di dialogare con altre religioni, i figli della tradizione occidentale devono essere consapevoli di se stessi. Quando si tende la mano a qualcuno, ci si presenta con nome e cognome. Non siamo figli di nessuno. Riscoprire le radici per rinverdirle e la memoria per arricchirla con le identità altrui. E viceversa, naturalmente.

La vita che nasce è il simbolo più bello e più forte che abbiamo. Il presepe cristiano è un fraterno omaggio all’umanità, di cui gli italiani possono essere orgogliosi.

(Articolo pubblicato da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)







Latest Images