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Sciopero generale, tutti gli errori di Camusso e Barbagallo

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CONFERENZA STAMPA UIL E CGIL SU SCIOPERO GENERALE DEL 12 DICIEMBRE

Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Quando un grande sindacato mobilita la sua gente per lo sciopero generale, e lo fa in un momento di crisi economica e di lavoro mancante, precario o insufficiente che non ha precedenti, non ha molto senso stabilire se la protesta fosse giusta o sbagliata. Da oltre un secolo il diritto a incrociare le braccia è il presupposto elementare per dare voce a chi ha meno voce, gridando in piazza tutti i suoi “no” a contratti, comportamenti, rapporti di lavoro considerati ingiusti.

Ma proprio perché nessuno dovrebbe chiedere all’esperta Susanna Camusso e al nuovo Carmelo Barbagallo “perché l’hanno fatto?”, essendo diritto-dovere delle rispettive Cgil e Uil rappresentare come credono il dissenso dei loro iscritti, un’altra e diversa domanda forse è opportuna, ora che la mobilitazione nazionale è finita, ed è finita anche fra tensioni a Milano e a Torino: che cosa speravano di ottenere?

Se l’obiettivo, come sembra, era contestare la già approvata riforma del lavoro, la manifestazione è stata tardiva. Per quanto arrabbiato, lo sciopero non cambierà di una virgola la Gazzetta Ufficiale, che dà vigore e valore alle leggi dello Stato. Né potrà rimettere in discussione in Parlamento quel che il Parlamento ha appena deciso.

Se invece il fine, e sembra anche questo, era di contestare la politica economica del governo, o addirittura la politica del governo in quanto tale, lo sciopero è ideologico, cioè fuori-posto. Spetta solo ai cittadini elettori giudicare gli atti e le parole – si spera sempre più atti e sempre meno parole – di Matteo Renzi e della sua maggioranza. Al già verboso premier non può rispondere un ancor più verboso sindacato con la sua montagna di slogan d’altri tempi, mentre il tempo di oggi è quello dei problemi da risolvere.

Se, infine, i due sindacati su tre (la Cisl, si sa, s’è dissociata), intendevano difendere il famoso e ormai fumoso articolo 18, l’obiettivo è comprensibile, ma incompleto. Nessun esecutivo potrebbe decretare che licenziare la gente sia bello e giusto, e meno ancora un governo guidato da un partito, il Pd, che ai lavoratori è vicino per tradizione ed elezione.

Invece la novità che dovrebbe essere colta e raccolta da chi rappresenta i ceti più deboli, è come tutelare la marea dei non protetti, giovani e donne su tutti. Come incoraggiare gli imprenditori a investire e assumere. Come rendere sicuro non il posto, ma il diritto ad avere un posto per tutta la vita. Neanche Renzi e la sua riforma hanno la verità in tasca. Ma il sindacato li aiuti a cercarla, la soluzione ai problemi del mondo che cambia.

f.guiglia@tiscali.it



Cari Renzi e Salvini, quando finisce il tempo delle favole?

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PORTA A PORTA

Il commento è stato pubblicato oggi dalla Gazzetta di Parma

La coincidenza non poteva essere più significativa, e stavolta c’entrano poco le riforme all’esame del Parlamento con la contestuale corsa di candidati, presunti o desunti, già partita per il Quirinale. C’entra, invece, la conferma di Matteo Renzi quale leader incontrastato nel Pd, oltre che presidente del Consiglio molto in sella nel Paese, proprio mentre arrivano le scadenze della Tasi, dell’Imu, dell’Iva e delle altre celebri sigle che per i cittadini paganti si riassumono in una sola e sempre più odiosa realtà: più tasse per tutti.

Lui, Matteo Renzi il vincitore, non ha più avversari che lo possano sgambettare nel partito, né oppositori che lo possano rovesciare nelle Camere o nelle piazze. Può, dunque, provare a governare al meglio delle sue capacità. Ma ha un’insidia più temibile dei dissenzienti costretti a nascondersi nell’ombra, e dei capi delle altre forze politiche che non riescono a fargli ombra: il nemico dell’economia. Un nemico serio e pericoloso, perché colpisce la vita quotidiana degli italiani. E poco importa della simpatia o meno che il giovane fiorentino sa suscitare col suo modo di comunicare, lontano dai bizantinismi sia della vecchia politica, sia dalla nuova quando si traveste di demagogia. Tipo l’idea del leader leghista, Matteo Salvini – altro giovanotto che va per la maggiore nelle file dell’opposizione -, di creare un’aliquota unica al quindici per cento per tutti i contribuenti. Bellissima, la favola.

Ben altri sono i sentimenti dei cittadini che il premier farebbe male a sottovalutare e che non dipendono dalla sua personalità, bensì dalla crisi infinita, dalla luce in fondo al tunnel che non s’accende, dai numeri sull’occupazione, la produzione e l’esportazione che fotografano un’Italia per niente scossa dallo scossone-Renzi.

Per quanto il presidente del Consiglio si muova e annunci, la società ancora non coglie il senso di un cambiamento di marcia. O, almeno, di una marcia: basterebbe. Perché la gente è pronta ai sacrifici, ma ogni limite ha una pazienza, diceva Totò. Mentre si dissanguono d’imposte, gli italiani vorrebbero avere la sensazione non già di stare solamente pagando i vecchi debiti creati e accumulati da classi dirigenti imprevidenti e improvvide, ma anche di investire sul futuro. Di contribuire a una svolta, ecco, anziché immolarsi dentro il solito pozzo senza fine che ogni governo giura che sarà l’ultimo, e sempre dall’ultimo si ricomincia.

Naturalmente, nell’Unione europea la crisi italiana non è solo italiana. Ma adesso Matteo Renzi ha tutto il consenso necessario nel partito, nella maggioranza, nel Paese per far valere il punto di vista dell’Italia. Non ci sono più alibi, attese, avversari dietro l’angolo: nessuno ha oggi la forza politica o l’interesse nazionale a ostacolarlo.

Per Renzi, allora, è arrivato il momento di osare a Roma e a Bruxelles. L’Italia val bene un’Olimpiade e molto di più ancora, se è la crescita, come dev’essere, l’obiettivo strategico. La statura politica del presidente del Consiglio non si misurerà sui tanti consensi appena riconquistati all’Assemblea del Pd, né sui voti, moltissimi, a suo tempo raccolti alle europee. Si misurerà sulla sua capacità di far ripartire la locomotiva-Italia.

Economia, il nemico che non perdona.

f.guiglia@tiscali.it


Miracolo di Francesco a Cuba

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UDIENZA GENERALE DEL MERCOLEDI

Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

L’uovo di Colombo è nelle tre parole in spagnolo che Barack Obama ha sentito il bisogno di pronunciare: “Somos todos americanos”, siamo tutti americani.

Sono le parole che gli disse papa Francesco per convincerlo sulla necessità di voltare pagina, dopo cinquantasei anni di incomunicabilità totale, di uno sbarco tentato e fallito e persino di una guerra atomica sfiorata fra i governi democratici degli Stati Uniti e la dittatura comunista a Cuba, spalleggiata sempre dalla Russia quando ancora era e si chiamava Unione sovietica.

Un’epoca lontana e in bianco e nero, che però sembrava sopravvivere a tutto: al persistente embargo americano, al perdurante regime castrista, al doloroso esilio di generazioni di cubani, ma soprattutto alla loro condizione nell’isola, ancora oggi alle prese con una tragica mancanza di libertà e di sofferenza economica in un Continente latino-americano che ha saputo sbarazzarsi da tutti i suoi golpe e militari al potere, da tutte le sue guerriglie. E che, il Brasile insegna, sa che cos’è la crescita.

Invece il gelido rapporto tra la vicina America e una Cuba senza più nazioni minacciose alle spalle era un’anomalia triste e inaccettabile, che questo Papa sta contribuendo a cambiare. Perché il mediatore Francesco è riuscito a convincere anche Raúl Castro, il fratello di Fidel, che il braccio di ferro ormai rappresentava un anacronismo continentale. E perciò quel che generazioni di governanti non sono riusciti a ottenere, cioè indurre le parti a smetterla col muro contro muro, ora pare esservi riuscito il Papa: il miracolo di Francesco.

Naturalmente, l’annuncio che l’embargo americano finirà e che il regime cubano sarà di manica più tollerante almeno con internet (perché è addirittura questo il livello di inesistente libertà di cui si parla) non bastano per parlare di svolta. E le stesse aperture diplomatiche o il concreto e non meno simbolico “scambio di prigionieri” già assicurato, sono insufficienti per poter dire “Cuba libre” senza pensare soltanto al celebre cocktail.

Ma è indubbio che la silenziosa mediazione di un Papa che conosce benissimo non soltanto l’America latina da punta a punta, ma anche il difficile – specialmente a Cuba – ruolo della Chiesa, apra uno scenario che lascia ben sperare soprattutto i cubani. Si può dire che ad aprire, in punta di piedi, il dopo Fidel, non sono stati i roboanti proclami americani, né l’inazione della lontana Europa, ma quel semplice e rivoluzionario “somos todos americanos” di un uomo venuto “quasi dalla fine del mondo”.

f.guiglia@tiscali.it 


Chi boccia Obama su Cuba

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Questo articolo è stato pubblicato oggi dal quotidiano il Messaggero

La fine dell’embargo non sarà la fine del dolore. A Miami, neanche quattrocento chilometri di mare e di squali da L’Avana, vive l’esilio cubano da cinque generazioni. Il tempo di capire che la Rivoluzione del 1 gennaio 1959 non avrebbe liberato Cuba, ma semplicemente sostituito un odiato dittatore con un altro – dal deposto Fulgencio, al secolo Batista, al nuovo arrivato Fidel, di cognome Castro -, che già partivano verso l’America i primi compagni delusi dopo aver rischiato la vita per la libertà così rapidamente tradita.

Cinquantasei anni dopo, i cubani negli Usa sono all’incirca due milioni, di cui la metà è nata sul suolo della Florida. Dunque, quasi un cubano su cinque, moltissimi, in raffronto agli oltre undici milioni d’abitanti nell’isola. Il loro ruolo è importante (contribuiscono a eleggere i presidenti degli Usa), la loro reazione a metà fra la rabbia e lo sconcerto. “Il peggior presidente di sempre ha concesso alla dittatura cubana tutto ciò che voleva, senza ottenere nulla in cambio”, ha detto di Barack Obama uno dei candidabili alle prossime presidenziali, il senatore repubblicano Marco Rubio, che da figlio di esuli ha il polso della sua gente.

L’avvenuta liberazione del “prigioniero” americano Alan Gross nell’isola, poco consola i cubani delle due patrie cubana e ormai anche americana, che si battono – come Rubio ricorda -, perché finisca l’anomalia dell’America latina: unica nazione del continente che non conosce la democrazia. E dove chi rappresenta gli esiliati a Miami, o dà voce ai dissidenti, viene spesso irriso e insultato dal regime.

Davanti al caffè Versailles, che sulla strada numero 8 costituisce da sempre il ritrovo della nostalgia e della speranza, cioè degli esuli, dopo l’annuncio dell’addio al mezzo secolo d’embargo si leggevano cartelli durissimi. “Sos per Cuba, no agli affari con gli assassini comunisti”, riferito alla dinastia dei Castro, Fidel e Raúl, che oggi governa per interposto fratello. Pochi i presenti che invece riconoscevano, soddisfatti o almeno speranzosi, che la novità potrebbe portare a un cambiamento, “perché l’embargo non è servito a niente”.

Ma il giornale in lingua spagnola El Nuevo Herald già riporta la fotografia di madri in lacrime. A cominciare da Miriam de la Peña, il cui figlio ventiquattrenne e pilota, Mario, venne abbattuto il 24 febbraio 1996 dall’aviazione militare cubana, mentre volava in acque internazionali per salvare i balseros, ossia cubani che fuggivano dall’isola su zattere improvvisate. La “colpa” di Mario? Aver in precedenza lanciato dal cielo migliaia di volantini sull’Avana con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nello spregio d’ogni legge un Mig 29 di fabbricazione russa abbatté quello e un altro aeroplanino durante la missione umanitaria del ragazzo. Quattro persone uccise. Fidel se ne assunse la responsabilità con un’intervista a Time Magazine l’11 marzo 1996. Un missile firmato.

Piange, ora, mamma Miriam, nel vedere che uno dei condannati nell’ambito di quel delitto contro l’umanità (pena inflitta: due ergastoli, e in America), fa parte dello scambio fra prigionieri.

Solo gli esiliati hanno il conto dei fucilati – almeno quindicimila dall’inizio della Rivoluzione tradita -, degli imprigionati ancora oggi, degli affamati sempre, dall’ultima dittatura in America latina. La memoria dell’esilio, compreso quello dell’ala più dialogante, che richiede di poter almeno partecipare alle trattative del disgelo. Per chi ha dovuto abbandonare la famiglia e la patria, la libertà di Cuba è l’unico scambio possibile col proprio cuore ferito.

f.guiglia@tiscali.it


I 3 vantaggi di Renzi per la scelta del successore di Napolitano

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Questo articolo è stato pubblicato oggi Bresciaoggi e Giornale di Vicenza

Matteo Renzi ha tre vantaggi nella scelta per il Quirinale: è il leader del partito più forte in Parlamento. E’ il presidente del Consiglio più in sella a palazzo Chigi, quasi senza avversari esterni e interni che possano oscurarlo. Ed è un politico giovane che continua a godere della fiduciosa attesa da parte degli italiani. Eppure, tanta forza e tanto consenso potrebbero non bastare per vincere la partita più difficile da quando l’uomo ha lasciato l’amministrazione di Firenze per insediarsi alla guida del governo. Il voto per il Colle non perdona.

L’ultimo e ancora fresco precedente gioca contro di lui. Uno dopo l’altro, si ricorderà, i grandi elettori delle Camere in seduta congiunta impallinarono prima Franco Marini e poi Romano Prodi, candidati del Pd bocciati nel segreto dell’urna dall’ormai famosa “carica dei 101” del Pd. Anche la figura importante del presidente in uscita paradossalmente non aiuta il premier nella scelta: non è facile trovare un candidato capace di proseguire l’operazione di “pronto soccorso” alla Repubblica che l’anziano Giorgio Napolitano sta compiendo da più di otto anni e mezzo. Un capo dello Stato che è stato costretto ad “accompagnare” di continuo la claudicante politica, oltretutto in epoca di notevole crisi economica.

Come se non bastasse, col suo modo di governare deciso e verboso al tempo stesso Renzi s’è creato nemici dentro e fuori il partito. Per i quali l’appuntamento del Quirinale può essere la ghiotta e invisibile occasione della vita. E poi il tanto evocato “profilo”: nessuno come il giovane premier sa quanto gli italiani vogliano una persona che della politica dia quell’idea del cambiamento a cui lui per primo (“rottamatore”) ha legato la sua novità.

Dunque, i precedenti, il buon Napolitano, l’inconfessabile desiderio degli anti-renziani e la voglia di una scossa degli italiani impongono al presidente del Consiglio una strategia preventiva per non fare il bis del predecessore Pierluigi Bersani, bruciato dai 101. Ecco perché Renzi, per vincere la partita che è di tutta la politica, ma soprattutto di tutti gli italiani, deve convincere il suo Pd all’unità. Le dichiarazioni accomodanti di Silvio Berlusconi e dialoganti di Angelino Alfano confermano che non sarà il centro-destra a mettersi di traverso. Ma la Lega, Sel e Cinque Stelle vorranno far pesare la loro opposizione.

E allora, la politica non è mai pura aritmetica. Ma per il Quirinale i voti dei grandi elettori non si pesano: si contano.

f.guiglia@tiscali.it  


Renzi non è stato troppo renziano sull’articolo 18

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AUGURI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ALLE ALTE CARICHE DELLO STATO

Questo articolo è stato pubblicato oggi su La Gazzetta di Parma

E’ encomiabile, dopo decenni di non-decisioni, che Matteo Renzi abbia rivendicato il suo dovere d’assumersi ogni responsabilità e il suo diritto di “fare delle scelte”. Per lungo tempo i nostri presidenti di Consiglio si nascondevano dietro le loro composite e perfino “strane” maggioranze -così fu ribattezzata quella dell’esecutivo Monti-, per giustificare la propria inerzia. Invece il giovane fiorentino ha voluto mettere il naso fin dentro i decreti attuativi della riforma del lavoro. Per dirci: l’autore sono io.

Dato a Renzi quel che è di Renzi, cioè il coraggio di decidere -e molto coraggio gli italiani chiedono al loro governo per uscire dalla crisi-, l’esito di tale e tanta partecipazione non è stato, però, all’altezza dei propositi. Già dal Parlamento era uscita una legge del tipo “vorrei, ma non posso”. Vorrei cambiare radicalmente le regole del sistema nazionale, ma non posso tirare troppo la corda: ecco il senso e il contenuto della molto sbandierata riforma, che alle Camere aveva, per esempio, “superato” con astuzia il famoso articolo 18, senza tuttavia prenderlo di petto con franca azione legislativa. Lasciando presagire che non di svolta, ma di compromesso si sarebbe, alla fine, trattato.

Coi provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri pre-natalizio, quell’anticipazione di un cambiamento di marcia non con la quinta, ma soltanto in prima, è stato confermato. Ed è stato confermato dagli insospettabili protagonisti del tiro alla fune. Da una parte la Cgil e la Uil, sindacati che ora parlano di “regalo agli imprenditori” e di “abominio”, testuali parole di Susanna Camusso. Dall’altra, il Nuovo centrodestra al governo, dal quale si leva la voce dell’esperto in materia, Maurizio Sacconi, con opposte, ma non meno dure parole: “La montagna ha partorito il topolino”.

E allora, se questa “rivoluzione copernicana”, come invece se la canta e se la suona il buon Matteo, riesce a produrre delusioni tanto profonde su entrambi i fronti contrapposti, significa che essa si propone come via di mezzo tra il dire e il fare. La nuova disciplina del contratto a tutele crescenti finisce per rinviare alla magistratura questioni decisive e dalla tipica competenza del potere politico. Fra l’obbligo di reintegro e quello di indennizzo c’è una scala di varianti, di situazioni e di cavilli che rischiano di creare il paradossale effetto di non garantire il lavoratore com’è stato fino a oggi garantito. Né di assicurare all’imprenditore la libertà, finora negata, di poter assumere, valorizzare o licenziare sulla base del lavoro svolto e della condizione economica nel Paese.

Il cosiddetto jobs act, com’è stato denominato con comico provincialismo, si presenta quale risposta innovativa, ma pasticciata. E il pericolo è che, strada facendo e magistrati inevitabilmente intervenendo, il pasticcio avrà la meglio sulla novità. E poi: come può una nuova disciplina applicarsi nella stessa impresa in due modi tanto diversi (a tutela crescente per i neo-assunti, come prima per tutti gli altri), senza violare il principio di eguaglianza fra padri e figli? Domande che certamente hanno, e avranno, una risposta. Ma prima di magistrati, imprenditori, sindacati e lavoratori, a rispondere con chiarezza doveva essere la politica.


Come si comporterà Renzi per eleggere il successore di Napolitano

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Giorgio Napolitano (16)

L’articolo è stato pubblicato da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Chissà se l’ultimo messaggio di fine anno di Giorgio Napolitano in tv darà qualche indicazione sul suo successore al Quirinale da metà gennaio in avanti. Certo è che alla prima conferenza-stampa di Matteo Renzi da presidente del Consiglio a chiusura del 2014 che si terrà oggi si parlerà di tutto.

Ma forse non troppo dell’appuntamento più importante per un capo del governo che ha nel frattempo archiviato la riforma del lavoro ed è riuscito a far incardinare in Parlamento sia la nuova legge elettorale, sia la revisione della Costituzione. Ma adesso la partita è diversa e il premier non può vincere la nova sfida a colpi di fiducia parlamentare stile “con me o contro di me”: deve, invece, convincere alleati e avversari nel segreto dell’urna.

Forza di volontà e numeri rischiano di non bastare, se Renzi non saprà usare l’arma della politica vera, che è anche persuasione, e coraggio, e capacità di sostenere il nome giusto al momento giusto. Saper catturare l’attimo fuggente. Tutto il contrario di quel che capitò a Pierluigi Bersani, il predecessore alla guida del Pd che bruciò le candidature di Franco Marini e di Romano Prodi nel falò dei 101 traditori della parola data. E ne pagò, il Bersani sconfitto, le amare conseguenze con le dimissioni.

E allora, per non ripetere il precedente, il presidente del Consiglio dovrà coniugare la sua novità al realismo del momento. Novità significa l’identikit di una personalità che rispecchi la svolta generazionale e politica per la quale Renzi si batte e continua a godere di consenso nel Paese. Perciò, una figura non anziana, lontana dalle manovre politiche, uomo (o, ancor meglio, donna) che capisca di economia e creda nell’Europa. E che in Italia sia in sintonia con il cambiamento invocato dal premier: ecco il profilo che Renzi predilige.

Tant’è che si fa il nome del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, in prima fila. E’ forte abbastanza per rispondere ai requisiti, senza far ombra al presidente del Consiglio. Ma per quanto il conto alla rovescia sia già cominciato, la strada è lunga. E l’accordo coi grandi elettori del Parlamento dovrà essere trovato bussando alle porte di tutti. Anche se Renzi dovrà rivolgersi prima di tutto a quelli con cui sta riformando le istituzioni. Centrosinistra e centrodestra è la via realistica, vista l’incompatibilità o la contrarietà delle forze all’opposizione.

Salvo, però, sorprese. Che per il Quirinale sono di casa almeno quanto nel Pd, da dove viene l’insidia più pericolosa, perché già sperimentata. Dagli amici mi guardi Iddio, con quel che segue.


Da Re Giorgo a un presidente di svolta

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AUGURI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ALLE ALTE CARICHE DELLO STATO

Questo articolo è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

E’ stato un addio franco e onesto, com’è l’uomo, ma non memorabile né coinvolgente: un discorso rivolto alla testa, anziché al cuore, e meno che mai alla pancia, degli italiani. Nel suo ultimo messaggio televisivo dal Colle, Giorgio Napolitano ha confessato col candore del nonno ai nipoti la sua stanchezza fisica e politica dopo nove anni di un presidenza vissuta vertiginosamente. E con ben tre governi – Monti, Letta e Renzi – che ha dovuto quasi inventarsi per stato di necessità. Ottantanove anni compiuti e una crisi economica che da troppo tempo non fa prigionieri: davvero non si poteva chiedere al capo dello Stato di continuare nell’opera di supplenza e di sostegno a una classe dirigente alle prese con l’Italia in mezzo al guado.

Quando giunse al Quirinale, nel maggio 2006, Napolitano trovò un Paese migliore di quello che ora si prepara a lasciare. Bastino i dati sul lavoro che manca, precario, insufficiente per dare l’idea del passo indietro per tutti da allora a oggi. Ma anche per farci capire che cosa aspetta e spetta al successore di Napolitano: non più il ruolo di un presidente “accompagnatore” e ideatore di soluzioni di emergenza, ma una figura capace di promuovere iniziative e soprattutto tanta fiducia nei demoralizzati italiani.

Chi verrà dopo re Giorgio, com’è stato soprannominato da amici e nemici per la funzione forte esercitata nell’ultima parte del mandato, non potrà limitarsi al pur necessario pronto soccorso stile sovrano richiamato in servizio in tempo di Repubblica. Dovrà aiutare la società a rimettersi in cammino e i partiti a indicare come farlo. Dovrà far sentire il peso dell’Italia a Bruxelles e dintorni. Dovrà tenere testa a un presidente del Consiglio molto attivo e mosso dai migliori propositi (ma i propositi, anche migliori, non bastano) per cambiare il Paese. Il giovane Matteo Renzi avrà bisogno di una sponda istituzionale proprio per la profondità e la difficoltà del compito che l’attende. Sapere, perciò, che al Quirinale avremo una personalità capace di spingere Renzi, oppure di frenarlo, è una buona garanzia per tutti. Per uscire dalla crisi l’uomo solo al comando è un’illusione che i fatti hanno smentito. Ma anche l’indecisione continua dei premier che si sono succeduti è un male nell’era globale. E allora il dopo-Napolitano richiede una figura un po’ alla Pertini e un po’ alla Ciampi, passione e rigore insieme, ma nuova nell’interpretare i bisogni e i sogni degli italiani fino al 2022. I governi passano, ma il presidente resta. Che il Parlamento lo scelga pensando al domani.



Renzi a Courmayeur col volo di Stato e i protocolli di Palazzo Chigi da aggiornare

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Questo articolo è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Fra i tanti e odiosi privilegi che i cittadini contestano, quello dell’uso dei voli di Stato per ragioni private da parte dei politici è il penultimo nella scala dell’insopportabilità. Soltanto il ricorso alle auto blu a sirena, sempre più spesso, spenta (Lorsignori si sono fatti furbi, e forse un po’ se ne vergognano), riesce a far indignare la gente ancor più del passaggio in aereo.

Perciò, la polemica che il Movimento 5 Stelle ha aperto col presidente del Consiglio, accusandolo d’essere andato in vacanza a Courmayeur con un Falcon della flotta di Stato, non va presa come la solita sparata tipica di chi fa l’opposizione e deve sempre trovare il pelo nell’uovo. Neanche dopo le immediate e ragionevoli spiegazioni che Palazzo Chigi ha voluto dare: nessun favoritismo, è tutto previsto dai rigidi protocolli di sicurezza che non possono non essere adottati ovunque e comunque. E poi Matteo Renzi avrebbe pagato di tasca sua le spese personali e di famiglia, soggiorno compreso. Dormendo, tutti quanti, in una caserma, non certo in un albergo -passi l’involontaria battuta-, a cinque stelle.

Se le cose stanno così, non c’è scandalo. C’è, però, una molto importante  -importante per gli italiani che guardano e giudicano – questione di opportunità. Che vale per Renzi, per i ministri, per chiunque intenda guidare l’Italia da qui in futuro.

Per godere del meritato riposo, chi governa può spostarsi coi treni pubblici, con gli aerei di linea o con le automobili, come fanno tutti. Pur con la doverosa accortezza della scorta al seguito e di qualunque altra esigenza. Nessuno può essere tanto demagogo da chiedere al capo dell’esecutivo di farsi Roma-Courmayeur in autostop o in Cinquecento. Oppure viaggiando in piedi in terza classe (che, tra l’altro, è stata abolita da decenni). Nessuno può essere così ottuso da richiedere al presidente del Consiglio di rinunciare alle vacanze o alla famiglia, diritti imprescindibili per lui come per tutti.

Ma c’è uno stile che proprio un politico avveduto come Renzi, gran rottamatore della vecchia politica e dei suoi vizi, farebbe male a sottovalutare: ciò che risultava inaccettabile se fatto dai politici che s’infischiavano di salvare forme e conti, risulta incomprensibile anche se fatto da chi bada alla sostanza, evitando che sia il popolo italiano a saldare la vacanze sugli sci. Perfetto. Ma i cittadini vorrebbero sperare che i loro governanti vadano in vacanza certamente con sicurezza, ma anche con semplicità e con discrezione, come fanno sessanta milioni di italiani.

A costo di aggiornare i protocolli di Palazzo Chigi.

f.guiglia@tiscali.it  


Che cosa lega Italicum, Quirinale e decretino fiscale

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Questo commento è stato pubblicato su su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

A pensar male, si sa, si fa peccato, ma spesso ci si indovina. Per non dare corda agli indovini, Matteo Renzi ha deciso di rinviare la riforma del fisco a dopo la prevedibile elezione del nuovo presidente della Repubblica, in modo che nessuno possa sospettare che norme dell’appena bloccato decreto attuativo del governo possano in qualche modo favorire l’imprenditore Silvio Berlusconi condannato per frode fiscale.

I sospettosi paventavano una sorta di tacito scambio: salvare il leader di Forza Italia, magari per ottenerne il voto per uno dei candidati presentati dal Pd il giorno della seduta degli oltre mille grandi elettori in Parlamento. Invece no, nessuno immagini, e nessun pasticcio si disegni all’orizzonte: con la mossa di Renzi, la previsione dell’inciucio in arrivo si ridimensiona, prima ancora di divampare.

Ma se la scelta del previdente presidente del Consiglio, che comunque ha negato d’aver voluto preparare un antipasto fiscale a vantaggio del Cavaliere, cioè del prossimo commensale del Quirinale, “aggiusta” l’incidente della riforma fiscale, essa non può certo cambiare le carte in tavola, né i numeri in Parlamento. E allora l’ombra dell’accordo -o inciucio che dir si voglia- tra Renzi e Berlusconi inevitabilmente s’allunga all’appuntamento più rilevante della legislatura: decidere chi prenderà il posto di Giorgio Napolitano per sette, lunghi anni.

L’anteprima comincia a giocarsi già oggi, quando all’esame dell’aula del Senato va il testo dell’Italicum, che è la futura legge elettorale proveniente dalla Camera, ma nel frattempo modificata in commissione a palazzo Madama. Se tiene l’intesa nata con l’ormai celebre patto del Nazareno, pur con tutte le revisioni (soglia di sbarramento, ballottaggio, ecc.) intanto sopraggiunte, è chiaro che potrà reggere un accordo per il Colle. Per il tandem Renzi-Berlusconi in azione, sarebbe difficile spiegare perché la legge elettorale si possa fare insieme, ma il Quirinale no.

Proprio per questo i dissidenti dichiarati o invisibili in entrambi i partiti, cominceranno a far sentire la loro artiglieria già sull’Italicum. Essi sanno che è la prova generale per capire se il presidente del Consiglio e il leader dell’opposizione più collaborativa siano forti abbastanza per controllare le rispettive truppe alle Camere. L’Italicum è la cartina di tornasole del Quirinale. Anche cronologicamente, visto che la partita per il Colle arriva poco dopo la legge elettorale, dal 13 gennaio in poi, quando sarà finito il semestre europeo di presidenza italiana, e Napolitano avrà, così, potuto dare le annunciate dimissioni. L’ombra sul Quirinale, ma a pensare male…

f.guiglia@tiscali.it       

Dall’Italicum al Quirinale. Tutte le insidie per Renzi e Berlusconi

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Articolo pubblicato da La Gazzetta di Parma

Il nuovo anno non ha tempo da perdere e perciò ha deciso di concentrare in un solo mese -questo di gennaio- tutte le insidie della legislatura. Il primo campanello d’allarme per il patto del Nazareno, la singolare intesa tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulle riforme-, è cominciato a squillare, quando è andato nell’aula del Senato il testo modificato dell’Italicum, che è la legge elettorale in cammino. Del provvedimento già votato alla Camera è stata abbassata al tre per cento, appena, la soglia di sbarramento per entrare in Parlamento. E alzato non di molto, al quaranta, il tetto della percentuale di consensi oltre il quale le due coalizioni (o due partiti?) più votati dovranno andare al ballottaggio. E poi sono stati mantenuti i capilista nominati, anche se introdotte le preferenze per tutti gli altri, dal secondo candidato in lista in giù. Ce n’è quanto basta, dunque, per solleticare il dissenso -che peraltro si solletica da sé-, di quanti nel Pd e in Forza Italia per i più disparati motivi preferirebbero prendere il testo di mira per colpire, in realtà, i due padri-padroni, come i ribelli proclamati, ma soprattutto invisibili, percepiscono il tandem del Nazareno.

Si sa, un’insidia tira l’altra, e in contemporanea Montecitorio prenderà in esame la riforma costituzionale che il Senato ha già approvato per abolirsi: unico caso di eutanasia istituzionale finora praticato in Italia. Come se non bastasse, il 13 finisce la presidenza italiana del semestre europeo. E un minuto, un giorno o una settimana dopo, comunque presto, Giorgio Napolitano si dimetterà dal Quirinale. Altri quindici giorni per formalizzare l’appuntamento coi mille e otto grandi elettori ed entro la fine del mese potremmo avere il nuovo presidente che regnerà, nella Repubblica, per sette lunghi anni.

Dalla semplice cronologia dei fatti si comprende perché, dall’Italicum al Quirinale, il patto che finora ha retto, vada incontro alla sua prova decisiva e senza rete: in caso di fallimento non c’è più un Napolitano di pronto soccorso. Renzi e Berlusconi dovranno far vedere quanto contano nei rispettivi partiti, e quanto saranno capaci, da separati che stanno insieme, di arginare le incursioni dell’opposizione. Specie dei 5 Stelle, che non hanno alcuna intenzione di restare a guardare. Doppia guerriglia in arrivo, allora, per il duo chiamato dagli eventi a far vedere che c’è: offensiva interna e nascosta, offensiva esterna e dichiarata.

Ma il patto ha bisogno di non apparire un inciucio agli occhi di chi non chiede altro per affossarlo. Questo spiega perché Renzi abbia subito bloccato la riforma del fisco che avrebbe potuto favorire Berlusconi, e perché Berlusconi abbia a sua volta dichiarato che tale contestato decreto attuativo (prevedeva la non punibilità per un’evasione considerata minima in proporzione al reddito imponibile), sia stato ideato, lui inconsapevole, da qualcuno per “mettere in crisi il patto del Nazareno”. Dal che si desume che perfino dentro il governo possano esserci manine ostili alla grande intesa, che può scivolare come su una buccia di banana anche per commi legislativi messi (o scoperti) a sorpresa. Perché il patto regga, soprese non potranno più arrivare, ora che le feste sono finite


Charlie Hebdo e Islam, l’arma invincibile di sapere distinguere

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Questo articolo è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi. 

C’è solo un errore da non commettere contro l’orrore appena vissuto a Parigi: quello di non saper più distinguere. Come se anche le nostre coscienze, oltre che i nostri cuori, si fossero annebbiate dopo i brutali omicidi (diciassette morti) in Francia. Invece bisogna distinguere non solo tra la libertà di una matita, che evoca il senso critico della vita, e la raffica di un kalashnikov, che invoca soltanto morte. Bisogna saper distinguere anche tra una massa di musulmani che nulla ha da spartire con la violenza e i gruppi di terroristi che in nome di Allah sono pronti ad ammazzare e a farsi ammazzare, scambiando per martirio ogni loro strage di innocenti. Una folle eresia di sangue.

Saper distinguere significa non avere paura di avere coraggio. E infatti, e finalmente, la prima distinzione la stanno facendo gli stessi credenti nell’Islam, che in diverse parti del mondo, Italia compresa, espongono cartelli col semplice, ma chiaro “non in mio nome”. Non in nome del loro Dio qualcuno può arrogarsi il diritto di uccidere. Saper distinguere, vuol dire capire che c’è una differenza grande come il mare che spesso li divora tra i barconi della disperazione in rotta sul Mediterraneo dall’Africa, e zeppi di musulmani indifesi, e gli arrivi, spesati e magari con voli in classe Magnifica, di fanatici che le forze di polizia e la magistratura di tutta Europa hanno il dovere di colpire con implacabile durezza.

Distinguere, dunque e soprattutto, tra il buon musulmano della porta accanto – ciascuno di noi ne conosce almeno uno -, che non ha le nostre abitudini, nemmeno culinarie. Che magari fatica ancora a parlare la nostra bella lingua. Che forse troppo poco “si apre” verso il modo di vivere occidentale. Ma che mai si metterebbe un cappuccio nero in testa per aprire il fuoco contro i suoi simili del vicinato, qualunque fosse la religione, certamente diversa, da essi professata. O non professata alcuna. Guai se i nostri pensieri e le nostre emozioni, tanto colpite in queste ore drammatiche, accettassero per un momento il sospetto che “milioni di islamici sono pronti a sgozzarci”, e che il pericolo incombente potrebbe addirittura annidarsi “anche sui pianerottoli di casa nostra”, come paventa il leader della Lega, Matteo Salvini.

Saper distinguere è la sola arma invincibile contro il fanatismo al tritolo, perché impone a tutti il compito di spiegare e di spiegarsi. Di raccontare l’identità d’origine e di ascoltare l’identità d’approccio, ossia di integrarsi. Di condividere, per chi crede, la diversità delle fedi, perché è la libertà che rende Dio più forte e le religioni trincee di pace. Distinguere, nel momento in cui tutto sembra confondersi, pur essendo tutto così tragicamente chiaro.


Video Isis, ecco la triste lezione da trarre dal terrorista bambino

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Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Mancava solo il bambino con la pistola, ma i terroristi dell’Isis hanno pensato anche a quello. Dopo l’orribile vicenda delle bimbe imbottite di tritolo in Nigeria e costrette a farsi saltare in aria per colpire persone inermi e innocenti, un nuovo ed ennesimo video dell’orrore (otto minuti di orrore), mostra un bimbo di dieci anni che spara a due ostaggi. Quasi fosse un piccolo boia chiamato a eseguire la sentenza.

Il bimbo porta un maglioncino nero e ha i capelli già lunghi, come a farlo sembrare un adulto ormai indottrinato sulla strada del fanatismo che si macchia di sangue, e se ne vanta. Già avevamo visto giovani incappucciati pronti a sgozzare altri innocenti sequestrati e anch’essi costretti a recitare una sorta di mea culpa occidentale collettivo, accusando i loro Paesi d’origine d’essere i veri colpevoli della propria morte annunciata e filmata. Ma con le bambine-kamikaze e il bambino-assassino questa strategia della violenza e della paura raggiunge un livello, se possibile, ancor più mostruoso.

Dove vogliono arrivare, dunque, questi estremisti della jihad, la rivendicata guerra santa che ora coinvolge addirittura l’inconsapevole infanzia? Qual è il grado massimo di terrore che le cellule del fondamentalismo armato sparse in Asia, in Africa e in Europa – come abbiamo appena tragicamente constatato a Parigi -, intendono infondere al mondo che assiste attonito? E, soprattutto, che cosa deve fare, chi può fare, per mettere fine a questa brutale catena di crimini e criminali che non risparmia neppure l’età dell’innocenza?

Di fronte a tante e a tali immagini una più crudele dell’altra, il rischio è che anche la nostra indignazione finisca per attenuarsi. A forza di vedere – non importa se con montaggi finti o purtroppo veri: pure questo fa parte della propaganda omicida -, coltelli che decapitano, e kalashnikov che massacrano, e l’effetto delle bambine-bomba, e bambini che impugnano la pistola, il pericolo è di abituarsi all’orrenda banalità del male, da una parte. Dall’altra, di farci tutti morire di paura, non riuscendo alcun essere pensante a comprendere a quale tasso di disumanità possano arrivare esseri pur sempre umani. Ci appaiono marziani di un altro mondo che non rispetta né regole né persone né –figurarsi!- religioni.

Il problema è che questo mondo non è fra le stelle, ma è qui, ora e subito, e perciò la reazione non può essere delegata solamente ai governi, alle forze di polizia, ai militari chiamati a garantire la sicurezza e ad affrontare l’emergenza. Mobilitare le coscienze e non assuefarsi al male, mai.

f.guiglia@tiscali.it


Ecco le vere mire di Renzi e Berlusconi su Italicum e Quirinale

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renzi-berlusconi

Questo commento è stato pubblicato oggi da La Gazzetta di Parma

Per regolare un po’ di conti con Matteo Renzi, lo spunto nobile (o la scusa astuta) erano i capilista bloccati. Pur di cancellarli in nome di mamma-preferenza per tutti i candidati, e far così sapere al presidente del Consiglio che non ha sempre ragione, la minoranza del Pd prende di mira l’Italicum. Tenta l’incursione sulla nuova legge elettorale, ma l’offensiva è respinta all’assemblea del gruppo al Senato, che approva a maggioranza l’impianto renziano e si spacca: 71 sì e 29 dissidenti che non partecipano al voto. “Abbiamo i numeri”, assicura il ministro Maria Elena Boschi con gli occhi già puntati all’aula di palazzo Madama, dove il testo viene votato in queste ore. I ribelli attaccano l’Italicum per colpire il primo e importante frutto del patto del Nazareno concluso un anno fa tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. E riaffermato proprio alla vigilia del voto al Senato con l’incontro fra i due contraenti a palazzo Chigi.

Dunque, l’accordo del disaccordo è l’oggetto della contesa, e anche in Forza Italia non mancano i contrari al premio di maggioranza attribuito al partito (anziché alla coalizione vincente). “E’ un suicidio”, accusa Raffaele Fitto. In punta di diritto il testo si presta a ben più di un’obiezione, e poderose. Ma ormai la questione non è giuridico-costituzionale: è politica. Renzi deve dimostrare che nel Pd diviso comanda lui, il segretario. Berlusconi che è ancora e sempre il capo di Forza Italia.
Ma il passaggio dell’Italicum è solo l’anticamera delle sette camicie che il giovane capo dell’esecutivo dovrà sudare per portare a casa il presidente della Repubblica, giovedì 29 gennaio. Squadra che vince, si sa, non si cambia. E se il patto regge sull’Italicum, dove la sfida è temeraria, avrebbe poco senso non farlo valere anche per il Quirinale. E poi il sostegno di Forza Italia sulla legge elettorale non è un aiutino disinteressato. E’ il suono di un campanello d’allarme per Renzi: senza l’appoggio del centro-destra, che adesso cerca di ricomporsi all’insegna de “l’unione fa la forza”, il presidente del Consiglio tornerebbe in balia dei suoi antipatizzanti nell’ora dell’elezione -con voto segreto- del capo dello Stato.

Le dimissioni a sorpresa di Sergio Cofferati, sconfitto alle primarie del Pd in Liguria, e i sondaggi che hanno dato il partito in calo a livello nazionale, e il plateale, durissimo scontro in corso al suo interno sono terreno troppo fertile per chi non sopporta la politica, il carattere, il patto, insomma tutto del presidente del Consiglio e insieme segretario. E spera di contrapporgli un capo dello Stato per tenergli testa. Speranze, pur diverse, ne nutre anche il centro-destra. Vuole piazzare al Colle una persona che non provenga da sinistra per riequilibrare il profilo politico di tutte le più alte cariche dello Stato. A sua volta Renzi deve trovare una figura gradita agli italiani, prima ancora che ai partiti. Gradita per capacità di ruolo e per novità di presenza. L’uomo che rivendica il cambiamento, “rottamatore” per auto-definizione, come farebbe ad accettare il nome di un politico dalle troppe stagioni alle spalle? Coi riflettori dei 5 Stelle, oltretutto, già puntati addosso. Regolare i conti del Quirinale, ecco l’impresa più difficile per tutti.


Ecco la lezione che arriva dalla Grecia

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Forse è giusto così, che il luogo in cui tutto è a suo tempo -molto tempo fa- cominciato, decida che ne sarà dell’Europa in cammino. Certo, la Grecia che oggi va alle urne non lo fa in nome di Omero, di Platone o di Pitagora, il pensiero che è diventato culla di formazione e di diritto per l’intero Occidente, quasi tremila anni dopo. Oggi gli elettori di Atene e di tutta la nazione vanno a votare per ragioni non filosofiche, né letterarie ma concrete: come far quadrare i conti che non tornano, senza sacrificare il presente dei padri e il futuro dei figli. La modernità è la grande scommessa di quel mondo che viene dall’antico.

Chiunque avrà la meglio, e a maggior ragione se il successo arriderà al movimento Tsipras che contesta da sinistra, e radicalmente, la politica finora seguita e perseguita dal “governo europeo”, darà una risposta al metaforico referendum, che è la vera posta in palio per tutti, greci ed europei: flessibilità oppure rigore. Investimenti oppure austerità. L’opzione è fra il riaffermare una scelta di alta politica e il cambiarla. Cambiarla non nella direzione di marcia, perché i governi nazionali non possono che volere la felicità dei loro cittadini, ma nel modo e nei tempi per arrivare, insieme, alla mèta. Questo auspica soprattutto l’Europa italiana, francese e spagnola.

L’esito delle elezioni in Grecia sarà, allora, il campanello d’allarme più forte che sia finora suonato per le orecchie tappate di Bruxelles e della Germania. Dove s’è propensi a credere che le regole vadano semplicemente rispettate, oggi come domani. Regole da adattare alla situazione, replicano gli altri, e in particolare la Grecia che sta pagando la severità tedesca dei compiti da fare a casa senza più barare, ma soprattutto l’incapacità e le bugie, per anni, dei propri governanti, che sono i principali responsabili del disastro economico in patria. Ma la partita non è più Atene contro Berlino, e se lo fosse non ci sarebbe partita. La mossa intelligente e coraggiosa della Banca centrale europea, guidata da Mario Draghi, il miglior italiano che possiamo offrire all’alta politica internazionale, va nel senso dell’apertura.

Al di là dei complicati meccanismi messi in opera con il cosiddetto alleggerimento quantitativo appena approvato, la Bce ha dimostrato di non essere rimasta insensibile al grido di dolore che dalla Grecia s’è propagato in tante parti dell’Unione.

Si può trovare una via che non renda vano il dovere del rigore, senza calpestare il diritto ad avere, tutti, una speranza di vivere meglio, e talvolta solo di vivere. Il voto greco quasi come la forza del destino.


Perché con Mattarella al Quirinale anche il centrodestra può cambiare verso

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Questo editoriale è uscito oggi su Gazzetta di Parma, L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Neanche quarantotto ore dopo l’elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica e il centro-destra esplode. “Non siamo i tappetini di Renzi”, avverte il ministro Maurizio Lupi a nome di Ncd, partito di governo e non più di lotta, come ha dimostrato nell’oscillante orientamento sul  Colle, passato dal “no” al “sì” a Mattarella in pochi istanti di realismo.

“Il Quirinale era nel patto del Nazareno”, a sua volta tuona Denis Verdini per conto di Forza Italia, ancora incredulo che il più astuto di lui, Matteo Renzi, non sia stato all’accordo presunto o desunto: concordare tutto l’istituzionale con Silvio Berlusconi, dalla legge per votare, all’addio al Senato, al Mattarellum non più evocazione di un sistema elettorale archiviato, ma per i prossimi sette anni il presidente degli italiani in persona. “Il centro-destra è morto”, è stato invece il de profundis di Matteo Salvini, che pur è dato in viva ascesa dalle sue parti ben oltre il recinto della Lega.

Tre giudizi urlati e diversi, ma per dire una cosa sola, e sommessa: guai ai vinti. Guai ai vinti dell’area non progressista, ai quali non resta altra strada che far buon viso a cattivo gioco. E continuare a percorrerla, collaborando con la maggioranza di centro-sinistra sulle riforme e spronando, per quanto possibile, il Pd sull’economia. Ma non sarà facile dopo il disastro politico che la subìta elezione di Sergio Mattarella ha reso ancor più evidente, per uno schieramento che è diviso fra governo e opposizione. E nell’opposizione fra collaborativi e radicali.  E nel radicalismo tra favorevoli all’euro, all’immigrazione regolata e a un’economia un po’ liberale e un po’ sociale e i contrari a tutto, alla Salvini, cioè al D’Artagnan col vento populista in poppa.

Proprio nel giorno dell’insediamento al Quirinale (e Berlusconi ha annunciato che sarà presente, quasi a voler ricucire subito lo strappo), proprio nelle ore della sola e solenne occasione in cui il presidente della Repubblica potrà parlare alle Camere in seduta congiunta nel corso del settennato, il centro-destra inaugura la crisi più profonda della propria e moderna storia.

Da quando nacque il bipolarismo il 27 marzo 1994. Ventun anni e quattro governi-Berlusconi dopo, per un totale di quasi nove anni alla guida della nazione, ed ecco che il centro-destra si trova a dover ricominciare daccapo. Ma con l’aggravante, stavolta, d’avere un avversario non ostile, bensì, al contrario “incantatore” dell’area moderata come il giovane Renzi. E la prospettiva, stavolta, di non avere più un leader capace di rimonta, né un programma che invogli gli elettori al cambiamento. E la scelta obbligata, perché per ora priva di serie alternative, della non belligeranza col governo per sperare di contare almeno un po’.

Ma il ricambio al Quirinale può essere da stimolo anche per il ricambio nel centro-destra, se vuole tornare protagonista nell’Italia che verrà.

 f.guiglia@tiscali.it   

Tutte le (finte?) guerricciole tra Renzi e Berlusconi dopo Mattarella

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renzi berlusconi

Questo commento è stato pubblicato oggi su Bresciaoggi e il Giornale di Vicenza.

Succede in politica come nella vita: quando la rottura fra due persone è brusca o inaspettata, i separati passano subito dal rimprovero ai dispetti. Saltato, perciò, il patto del Nazareno fra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, le parti non fanno in tempo ad incolparsi dell’idillio istituzionale finito che già arrivano le prime reazioni. E siccome il più forte, politicamente parlando, è il presidente del Consiglio, specialmente dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale che il suo interlocutore, al contrario, osteggiava, in poche ore suonano un paio di sberle su temi molto “sensibili”: la giustizia e le telecomunicazioni.

Nel primo caso s’estende la punibilità per falso in bilancio (sarà perseguibile d’ufficio) in un disegno di legge contro la corruzione che era rimasto sospeso per un anno. La maggioranza ora trova, invece, l’accordo anche nel considerarlo prioritario. E verrebbe da dire: meglio tardi che mai, visto che l’inchiesta su mafia-capitale esigeva una risposta durissima e non solo rapida.

Poi il governo ha riscritto un emendamento nel cosiddetto testo-Milleproproghe sulle frequenze tv in digitale. Con la conseguenza – paventa Forza Italia – di chiedere cinquanta milioni di euro a Rai e Mediaset per distribuirli ad altri operatori. Sorpresina e polemicona sono state rinviate alla prossima settimana. Ma intanto nelle competenti commissioni della Camera la novità è quella. Manca solo il terzo e ultimo indizio – amava dire Montanelli -, perché il sospetto si trasformi in prova. La prova che il divorzio consumato ha il suo prezzo politico. Anche se il centro-destra all’opposizione troverà presto una posizione sul contenuto dei provvedimenti, visto che il centro-destra al governo ha già trovato la sua di pieno appoggio alle iniziative.

Botta dell’uno, risposta dell’altro. Il partito di Berlusconi bolla come “indecente forzatura del governo e del Pd” la riforma costituzionale incardinata nei lavori della Camera. E allora le coincidenze temporali e i temi prescelti indicano due cose: che Renzi manda un segnale sia agli avversari, sia agli alleati. E ogni riferimento ad Angelino Alfano è scontato. E che Forza Italia prepara le barricate sulle riforme. Questo non significa che dal patto i contraenti passeranno ai materassi. Né che il premier intenda fare a meno dell’opposizione berlusconiana sulle regole, troppo importanti e ancora in bilico per escludere questo o quello. Ma le piccole grandi manovre sono cominciate. Come gli iceberg quando si staccano nel mare, la politica va alla ricerca di nuove sponde per coprirsi dal gelo.


Lampedusa, la lezione di Triton

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Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Quanti morti ancora, se neanche gli ultimi trecento e trenta bastano per muovere e commuovere l’Europa? Quanti bambini dovranno di nuovo soccombere al freddo, e madri restare vittime della violenza e della fame, e uomini essere travolti dalle onde perché Bruxelles giri la testa dalle parti di Lampedusa? Qual è il limite oltre il quale non sarà più consentito ai criminali di sfruttare la povera gente come schiavi, ai quali rubare i pochi averi prima di imbarcarli su gommoni di latta a suon di botte, e farli salpare dalla Libia affidandoli solo alla clemenza del mare, alla fortuna, alla preghiera?

Mare Nostrum non c’è più, adesso si chiama “Triton” l’iniziativa non più italiana, ma europea, messa in piedi per fronteggiare l’emergenza dei barconi. Un drammatico fallimento, come testimonia l’ultimo ed ennesimo sbarco nella sempre generosa terra di Sicilia. Uno sbarco per pochi sopravvissuti, perché la maggior parte di loro – trecento e trenta, appunto – non ce l’ha fatta. Africani senza nome e senza patria: un titolo di giornale, la solita indignazione politica che dura ventiquattr’ore (ma almeno in Italia ci si indigna; altrove neanche quello) e poi avanti con la prossima odissea. Perché tra un’ora, un giorno, una settimana saremo a conteggiare altri morti neppure ritrovati. A organizzare altri funerali di sconosciuti. A confortare con cibo e parole  -nient’altro possiamo, purtroppo, offrire – altri superstiti delle navigazioni senza rotta.

Non, dunque, immigrati che sognano l’Europa per migliorare le loro condizioni economiche, ma gente che scappa per sopravvivere. In fuga da guerre e carestie, donne e uomini che vorrebbero essere salvati dalla miseria, non importa dove. Importa quando: subito. Ma qui è Lampedusa, Europa, un continente forte abbastanza per catturare gli scafisti che trafficano e per assistere e distribuire fra tutti il peso dell’umanità sofferente e senza voce.

Certo, l’Europa non può farsi carico di tutto il dolore del mondo. Le regole, i controlli, la capacità di guardare lontano per integrare chi viene da lontano, devono valere sempre e per tutti. Ma questa di Lampedusa è tutta un’altra storia, che può e che deve essere affrontata con spirito civile e lungimiranza politica. Accudendo tutti insieme chi arriva e intervenendo sui governi e sui Paesi dai quali s’imbarca e viene fatta imbarcare la disperazione. Soldi, organizzazione, umanità: non è impossibile il nuovo compito. Ma Triton deve cambiare radicalmente. E l’Italia ha il dovere e la credibilità conquistata fra mare e terra per esigerlo.

f.guiglia@tiscali.it   

Perché il mondo libero deve liberare la Libia

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Dopo l’attentato del 7 gennaio a Parigi, e quell’universale “siamo tutti Charlie”, riecco la Danimarca ripiombare nello spettro del terrorismo. Copenaghen, la capitale, è stata di nuovo colpita da un attacco a mano armata, mentre in un bar si svolgeva un convegno che proprio alla libertà d’espressione e all’Islam era dedicato. Un morto e almeno tre feriti in una sparatoria all’impazzata.

Ma non casuale: da un decennio quel Paese con i suoi disegnatori -c’è sempre una vignetta di mezzo-, è nel mirino della violenza fondamentalista. Vietato anche far sorridere, è il macabro avvertimento del fanatismo jihadista.
Sparano da Parigi a Copenaghen, eppure la minaccia non viene solo dal lontano Nord, né riguarda soltanto il principio non negoziabile della libertà d’opinione. Che può essere portata in tribunale, se ritenuta diffamatoria, mai però assassinata. Tanto meno nascondendo il crimine dietro un presunto paravento divino.

Ma per noi italiani la minaccia è più vicina di quanto possa sembrare e viene soprattutto dal Sud. Viene dalla Libia in preda all’anarchia. Ormai siamo rimasti l’ultimo e probabilmente unico Paese europeo a tenere un filo di rapporti politici, economici e umani con una terra in balia del terrorismo. Tutti scappano, perché in Libia regnano il caos e l’insicurezza. Cellule dell’Isis, tristemente famose per la ferocia con cui decapitano innocenti, e bruciano vivi i “nemici”, e li filmano, già operano tra Bengasi e Tripoli. E le autorità libiche, peraltro fragili e divise, difficilmente riusciranno a reggere l’urto.

“L’Italia è pronta a combattere in Libia in un quadro di legalità internazionale”, ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, subito attirandosi dalla radio del “Califfato” l’accusa di guidare una nazione “crociata”. Un intervento militare sotto l’egida delle Nazioni Unite, dunque, perché il rischio del terrorismo è dietro l’angolo. Quel rischio mina anche l’interesse nazionale del nostro Paese nell’avere relazioni di pace e stabili con un territorio che sta diventando, di fatto, ingovernabile.

Sono mesi, in realtà, che gli osservatori più acuti avvertivano: attenzione alla Libia. Dalla quale, peraltro, noi vedevamo la conseguenza più disperata, perché quasi tutti i barconi dei migranti partono da lì.
Ma il solo pensiero che Tripoli possa finire nelle mani dell’orrore chiamato Isis, è sufficiente perché Roma richieda la mobilitazione del mondo che alla libertà non intende rinunciare. E che vuole impedire al terrorismo di governare alle porte di casa.


Tutti gli errori degli anti Renzi

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ENRICO LETTAMATTEO RENZI

Questo commento è stato pubblicato oggi su La Gazzetta di Parma

E’ passato giusto un anno da quando Matteo Renzi, il 22 febbraio 2014, prendeva dalle mani di un imbronciato Enrico Letta la graziosa campanellina che si fa sentire alle riunioni di palazzo Chigi. Ma da quel brusco passaggio di consegne, reso ancor più gelido dal celebre tweet “Enrico stai sereno” che il premier che arrivava aveva appena scritto al premier che usciva, Renzi s’è preso tutta la scena politica.

Dalla riforma della Costituzione a quella del lavoro, dalla legge elettorale all’Europa, al fisco, all’Isis e ora alla scuola, alla Libia, alla Rai, all’universo mondo non c’è tema sul quale il presidente del Consiglio non abbia detto come la pensa e che cosa fare. “Solo annunci”, ha replicato in tutti questi mesi l’opposizione, giocando su un’esposizione “mediatica” di Renzi continua e debordante. Ma un anno dopo, lui è più in sella che mai e con sondaggi favorevoli: non ha perso la fiducia di molti italiani, nonostante il profluvio di parole, di selfie e di tweet, la sua arma prediletta e impropria, visto che l’usa già al mattino presto. Al contrario, le opposizioni appaiono divise e soprattutto incapaci di marcare il presidente del Consiglio come in una partita a uomo, tema per tema e provvedimenti su provvedimenti. Sarebbe l’unico e concreto modo per cercare di “stanare”, come a nascondino, la differenza tra il pensiero e l’azione del capo del governo.

E così, anziché mettere in campo proposte diverse sull’economia e la politica estera, sul terrorismo che incombe e la scuola da rinnovare, sulla sicurezza e le tasse, e la nuova cittadinanza, e l’immigrazione, ossia tutto ciò che interessa la vita quotidiana della gente, l’opposizione tutta ha scelto di buttare il pallone in tribuna. Parlano d’altro. E’ il radicalismo il linguaggio in comune fra i contestatori di Renzi: da Matteo Salvini a destra, a Maurizio Landini l’ultimo arrivato a sinistra. A Beppe Grillo, che vive in un altro pianeta al di là della destra e della sinistra.

Chi critica Renzi, dunque, di rado tenta di prenderlo in castagna per quello che fa o che non fa. Preferisce, invece, innalzare bellissimi “no” alla moneta unica o all’abolizione dell’articolo 18. All’Europa dei banchieri e all’Italia dei disoccupati. Ai possibili interventi in Libia e impossibili a Bruxelles. Regna la pura astrazione, che può affascinare molto e molti per cinque minuti, il tempo di un’apparizione di Salvini in tv (un altro che vive fra telecamere). Ma che non cambia di una virgola la politica del governo, né le aspettative degli italiani. I quali forse gradirebbero avere sia Renzi, sia un’alternativa a Renzi.

Invece le opposizioni credono di poter battere la popolarità col populismo, e perciò propugnano battaglie tanto alte da non essere afferrate. Battaglie all’insegna dei nuovi miti scoperti, rispettivamente Marine Le Pen, Alexis Tsipras e Nigel Farage, che nulla hanno da spartire coi problemi degli italiani in Italia, e ben poco da insegnare per risolverli.

Se le opposizioni abbandonano l’area centrale per rifugiarsi all’estremo, riusciranno a intercettare il malcontento, non però la voglia di cambiare. Finiranno per essere i conservatori che tengono il riformista Renzi per molti anni ancora alla guida dei tweet e del Paese.

f.guiglia@tiscali.it


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