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Cesare Battisti, cent’anni di solitudine

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L’articolo è stato pubblicato oggi su quotidiano L’Arena di Verona

E’ il più importante mausoleo dedicato a un singolo eroe della prima guerra mondiale. Tuttavia, non c’è un solo cartello che indichi e spieghi: per la tomba di Cesare Battisti, bisogna salire lassù, al Doss Trento, colle sulla riva destra dell’Adige.

E’ un monumento imponente, e non solo per la posizione riconosciuta a chi è morto per un sogno di Italia e di libertà. Sorge in alto sulla città, quasi una metafora fra la terra e il cielo riservata ai martiri, cioè alle persone comuni che in epoche e circostanze diverse pagano con la vita il proprio impegno per gli altri. Opera semplice e solenne come la figura dell’uomo che vi riposa, il più trentino degli italiani, il più italiano dei trentini. Eppure, non una scenografia particolare, né una bandiera tricolore, né un percorso storico-sentimentale preparano l’occasionale visitatore all’evento: entrare in un mausoleo nazionale che per impatto emotivo ricorda la tomba parigina di Napoleone a Les Invalides. Un modello classico dalla forma circolare, sedici colonne alte più di dieci metri. Un’opera che porta la firma dell’architetto e scenografo veronese Ettore Fagiuoli. Grandiosa e suggestiva, dunque.

Ma i visitatori si contano sulle dita di una mano: soltanto cinque il 5 settembre scorso. Imbarazzante, ma ovvio. Il maestoso simbolo non è promosso, organizzato, restaurato come dovrebbe. Il paragone è impietoso, se si pensa allo splendido percorso museale da poco inaugurato nella vicina Bolzano dall’architetto Ugo Soragni, direttore regionale dei Beni culturali e paesaggistici del Veneto, in accordo con la Provincia e con il Comune alto-atesini, per raccontare e valorizzare il contemporaneo Monumento alla Vittoria. Bolzano ha riscoperto la sua opera del 1928, Trento ne ha dimenticato la sua del 1935. Code per visitare la Vittoria, il deserto per il Mausoleo.

Eppure, i due monumenti dipendono dalla stessa amministrazione di tutela dello Stato. Ed entrambe le province hanno identica autonomia legislativa per agire d’intesa. Ma nei cent’anni della Grande Guerra l’eroe è di nuovo solo. Con l’erba alta. Con l’acqua della pioggia che non scorre, ma deturpa la struttura visitabile solo in parte. E fra due anni cadrà il secolo della morte di Battisti, avvenuta nel 1916 per capestro (significa strangolato e non impiccato come suol dirsi), da parte degli austriaci nella sua Trento. L’esecuzione di questo giornalista, geografo, politico e leader socialista di quarantun anni catturato in battaglia, doveva essere un brutale monito per tutti: ecco che vi succede, se scegliete di combattere da italiani, voi del territorio appartenente (allora) all’Austria-Ungheria.

“Evviva l’Italia, evviva Trento italiana!”, furono le sue ultime parole che ancora risuonano nella patria liberata. Liberata, ma immemore.

Cesare Battisti, cent’anni di solitudine -> Formiche.


Tra Floris e Giannini hanno vinto Benigni e la noia

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Lo spettacolo di parole è ricominciato, e la madre di tutte le battaglie del genere è andata finalmente in onda, preceduta da squilli di tromba e rulli di tamburo che da giorni annunciavano il duello di prima serata. Di qua “Ballarò” (Rai 3), condotto dall’emozionato ex vicedirettore di Repubblica, e più volte ospite del programma, Massimo Giannini. Con pistolotto d’esordio e un Roberto Benigni sempre in gran forma subito buttato nell’agone. Di là il nuovo – ma poco fantasioso nel nome – “Dimartedì” (La7), condotto dall’ex conduttore di Ballarò, Giovanni Floris, succinto nella presentazione di sé e di Maurizio Crozza nei panni di un Matteo Renzi non così divertente come al solito. Giannini-Floris, quasi una guerra in famiglia, se poi si pensa che i due giornalisti hanno invitato l’uno il direttore del Corriere, Ferruccio De Bortoli, l’altro l’ex direttore del Corriere, Paolo Mieli. Ed entrambi con sondaggisti. Anche se i veri protagonisti erano e sono i politici.

Nel confronto a distanza il colpo l’assesta Ballarò grazie alla presenza di due personaggi che da tempo non s’affacciavano sullo schermo televisivo (la novità è sempre notizia): il benvenuto di Benigni e l’intervista troppo legnosa con un Romano Prodi in vena di racconto. Ma il Giannini-Floris con la sua carovana di artisti, professori, santi e navigatori non è l’eccezione in tv. E’ ormai la regola che regna nei programmi da lunedì a venerdì e da un canale all’altro. Prima o seconda serata, emittente pubblica o privata fa poca differenza: qui comanda il talk show. Nome in inglese che non riesce a camuffare un’abitudine politica e giornalistica molto italiana. Che è quella di parlare di tutto, senza dire niente. Di scambiarsi ogni tipo d’accusa, senza rischiare niente. Di promettere ogni volta la luna, senza aver dato qualche buon esempio sulla Terra. Di esibire la faziosità. Tranne che in rare occasioni, nulla si approfondisce davvero e poco il telespettatore alla fine apprende o scopre, pur avendo passato molto del suo tempo col telecomando in mano. Il resto è noia.

Spesso l’incontro di ospiti che sono sempre quelli, come un circo che gira piantando le sue tende da un’antenna all’altra, si trasforma in ring e la discussione in rissa. Accade non a beneficio del pubblico a casa, ma della percentuale d’ascolto che la trasmissione potrà accertare e rivendicare a beneficio della pubblicità. Niente di nuovo sotto il sole.

Peccato. Perché mai come ora gli italiani vorrebbero capire, sapere, poter mettere sul serio a confronto idee e soluzioni non fra Narcisi diversi e ripetitivi seduti in poltrona a litigare fra loro, ma tra le persone che pur governano o comunque rappresentano il Paese di tutti. Il talk-show è diventato una catena di montaggio che spiega e svela poco, alienando l’interesse di tanti che sono, prima che telespettatori, cittadini.

Tra Giannini e Floris ha vinto Benigni.

Tra Floris e Giannini hanno vinto Benigni e la noia -> Formiche.

Articolo 18, ecco come Renzi lo rottama

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Qui si rifà l’Italia o si va a elezioni. Con piglio garibaldino e mille giorni richiesti per lo sbarco delle sue riforme, chissà se Matteo Renzi ha finalmente capito, intervenendo ieri l’altro in Parlamento, che non può continuare a tenere sulla corda a colpi di annunci un Paese che è già alle corde. Recessione, deflazione, disoccupazione crescente e previsioni calanti o stagnanti nella produzione industriale: sarebbe un delitto, se il governo e il suo presidente del Consiglio tuttofare non cogliessero -ancora!- il problema principale e prioritario. L’unico che interessi gli italiani, indistintamente. E poi se la memoria collettiva zoppicasse, gli organismi internazionali e la petulante Europa ce lo rinfrescano dalla mattina alla sera, il nostro obbligo. Dobbiamo crescere. E per crescere, occorre un nuovo e vigoroso piano-lavoro, che il nostro garibaldino ha battezzato col machiavellico jobs act. Dell’astuto disegno farebbe parte il cosiddetto contratto a tutele crescenti, con l’obiettivo sia di mettere un po’ d’ordine nel caos della quarantina di contratti vigenti, sia di rendere più flessibile il precario e paralizzato mercato del lavoro. Il governo ha presentato uno specifico emendamento al testo nel Senato per agevolare l’ingresso dei neo-assunti al lavoro e incoraggiare le imprese a prenderli, poiché le garanzie del mantenimento del posto crescerebbero, appunto, col passare del tempo e dell’esperienza maturata. Più indennizzi, anziché reintegri. Meno rigidità per tutti, maggiori investimenti per tutti.

Eppure, anche se la formulazione dell’articolo dovrà passare per le forche caudine del dibattito e del voto parlamentari e i suoi effetti si misureranno con gradualità nel giro di tre anni, e riguarderà i soli assunti di domani, i sindacati già gridano allo scandalo. Qui si abbatte il tabù -essi temono-, il famoso articolo 18 sul licenziamento illegittimo, giunto a noi dallo Statuto dei lavoratori di quarantaquattro anni fa. Tema sul quale Renzi ha ipotizzato anche il ricorso al decreto-legge per dare ai cittadini (e all’Europa) quel segnale di cambiamento che a sua volta darebbe credibilità almeno a una delle troppe riforme finora soltanto annunciate.
Sul lavoro, dunque, il presidente del Consiglio si gioca il credito europeo non smisurato, ma effettivo di cui gode, e la popolarità fra i pazienti, ma impazienti italiani. A seconda di quanto e di quando la novità diventerà operativa, Renzi perderà una fetta di consensi. Ma potrà guadagnare ciò che gli manca, cioè la percezione degli altri che l’uomo sia anche capace di mantenere le promesse, e non soltanto di saperle fare meglio di chiunque (se la gioca solo col Silvio Berlusconi di una volta, quello del “meno tasse per tutti”).

Naturalmente, in un Paese affamato di lavoro non bastano le tutele crescenti, né i decreti-legge per scuotere l’economia. Neppure i moniti del Quirinale sull’indecoroso protrarsi delle votazioni per eleggere i membri del Csm e della Corte Costituzionale, o l’ennesimo faccia a faccia Renzi-Berlusconi: ben altro impone la svolta necessaria.

Ma dal modo in cui il governo afferrerà il toro della crisi per le corna, comprenderemo presto se vale la pena attendere altri mille giorni per cambiare. O se cambiare l’illusionista di tante speranze.

Articolo 18, ecco come Renzi lo rottama -> Formiche.

De Magistris e le dimissioni, why not?

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Commento pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Brescia Oggi

Se la legge è uguale per tutti, come si ostinano a scrivere sui tribunali, e noi cittadini a leggere e a credere, per un politico la legge dovrebbe essere “un po’ più uguale”. Nel senso che lui per primo, a prescindere dall’incarico ricoperto o dal partito di riferimento dovrebbe, ogni volta che la circostanza lo richiede, essere d’esempio nel pretendere il rispetto di questo antico principio di eguaglianza, cioè di giustizia. Ricchi o poveri, potenti o umili, la legge non fa distinzioni. Altrimenti, che Stato di diritto sarebbe?

Il destino bizzarro ha fatto sì che stavolta a dover far valere la circostanza di elementare civiltà,sia chiamato un ex magistrato importante, nel frattempo diventato sindaco di una città importante. Luigi De Magistris, primo cittadino di Napoli. Gli tocca dimostrare che certe parole scolpite nelle aule non sono retorica ipocrita di pochi illusi e molti creduloni. E lui sa, e lui può, perché De Magistris da pubblico ministero all’epoca non guardava in faccia nessuno, immedesimandosi in quel criterio di sacra equità: “La legge è uguale per tutti”. Di più. Se in giro c’erano politici condannati che ancora facevano politica -e ce n’erano molti, e ce ne sono ancora tanti-, De Magistris non temeva di dire a voce alta quel che i normali cittadini dicono a voce bassa, ossia con buonsenso: un condannato non è detto affatto che sia colpevole, finché non sarà una sentenza definitiva a decretarlo. Ma intanto è opportuno che quel politico condannato (“condannato” e non semplicemente “indagato”), si ritiri dalla cosa pubblica. Oltretutto sapendo che, se alla fine del processo risulteràestraneo ai fatti, il popolo sovrano potrà di nuovo eleggerlo, avendoapprezzato la coerente serietà con cui quella persona s’è comportata.

Ora De Magistris è stato condannato in primo grado a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio per l’acquisizione illecita, ai tempi della sua celebre, ma non fortunatissima inchiesta “Whynot?”,di utenze di parlamentari. “Non lascio, si dimettano i giudici”, è stata la sua durissima risposta a chi gli suggeriva, prima che ci pensi la legge-Severino d’autorità col prefetto, di fare quel che lui suggeriva di fare agli altri in casi di condanna: dimettersi. “Resisterò, è una sentenza vergognosa”, ha rincarato la dose, guadagnandosi una risentita replica dall’Associazione nazionale magistrati e l’intervento del presidente del Senato, Pietro Grasso. Bufera per tutti nel più classico,ma inedito corto circuito fra politica e magistrati. O meglio fra la legge e il politico-magistrato che non ha imparato la lezione che impartiva.

De Magistris e le dimissioni, why not? -> Formiche.

Renzi, sarà la svolta buona sull’articolo 18?

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Questo commento è stato pubblicato oggi su La Gazzetta di Parma

Matteo Renzi è sott’assedio, e il tante volte evocato “autunno caldo” adesso arriva davvero. Come volevasi dimostrare, è sul lavoro che il presidente del Consiglio gioca tutta la sua novità. Non, dunque, sulla legge elettorale, il Senato che verrà o le tante riforme annunciate. In tempo di crisi e col buonsenso di non credere più ai miracoli promessi un governo dopo l’altro, gli italiani esigono soltanto una priorità dal loro giovane presidente del Consiglio, per decidere se concedergli ancora fiducia. Pretendono che l’uomo finalmente dimostri da che parte voglia condurre il Paese per risanare e rilanciare l’economia. E tutte le strade d’Italia portano al lavoro, che diventa, così, la prova simbolica e concreta non solo dello spirito di cambiamento incarnato da Renzi, ma della sua capacità tra il dire e il fare. A costo d’imbattersi in un mare di polemiche.

Per Renzi, allora, le rese dei conti sono due e molto diverse fra loro. La prima è più rumorosa e si sta consumando all’interno del suo stesso partito a opera della vecchia guardia, che mal lo sopporta (ricambiata). Ma che, essendo vecchia guardia di politica, più che di anagrafe, dalla sua ha anche la saggezza dei molto furbi: sa perfettamente che, senza l’ambizioso rottamatore, il Pd non sarebbe più il protagonista della scena. E’ il pedaggio da pagare all’estraneo fiorentino. Si può presumere che essi continueranno a pagarlo, quel pedaggio politico: sbuffare sempre di più, ma tenersi ben stretto e stretti all’unico cavallo vincente del momento.
Perciò lo scontro in corso sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (disciplina il reintegro del lavoratore per licenziamento illegittimo), ossia l’ultima bandiera della sinistra ideologica e del sindacato ad essa più vicino, non è poi tanto peregrino. Da una parte rappresenta la nostalgia per il tempo che fu, quarantaquattro anni fa, su un tema serio, giusto ed eterno: la tutela del lavoratore. Dall’altra è un modo per far sapere d’esistere all’uomo solo al comando.

Mentre il presidente del Consiglio fa i conti in famiglia fra direzioni, moniti, appelli e tutto quanto prevede il muro contro muro della circostanza, cioè la minoranza contro il leader maggioritario del Pd, al varco aspettano i cittadini. I quali forse meno sanno dell’articolo 18 e ampi dintorni. Ma che sollecitano nuove forme di garanzia per l’esercito dei precari, dei giovani disoccupati, degli adulti non più occupati, delle tante categorie che mai hanno potuto invocare l’aiuto dello Stato, né della magistratura per poter esercitare il principio numero uno della Costituzione: la Repubblica è fondata sul lavoro. Incoraggiarlo, crearlo, renderlo più aperto e garantito nel tempo per tutti, lavoratori e imprenditori, ecco la scommessa.

Adesso si vedrà se Renzi avrà o no la forza del cambiamento più che nel Pd, in Parlamento, dopo le belle parole con cui l’ha più volte cavalcato (anche domenica sera a “Che tempo che fa”, forse la più convincente delle sue molte apparizioni in tv). Sarà la svolta buona?

Renzi, sarà la svolta buona sull’articolo 18? -> Formiche.

L’opera buffa del Teatro all’Opera di Roma

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Commenro pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

E’ finita come molti temevano che sarebbe finita: tutti licenziati, orchestra e coro del prestigioso, ma litigioso Teatro dell’Opera di Roma. Prima volta che succede in Italia. Centoottantadue dipendenti a casa, uno su quattro, per poter riorganizzare l’istituzione con quei criteri flessibili e produttivi che già valgono in tanti enti d’Europa. Il parastato non è più di moda neanche nello Stato: figurarsi nel mondo libero delle arti. “Passaggio doloroso, ma necessario per far rinascere il teatro”, ha detto Dario Franceschini, che da ministro dei Beni Culturali amerebbe inaugurare e non certo chiudere luoghi e simboli che fanno dell’Italia un Paese unico. Così unico, che a Riccardo Muti, forse il più grande direttore d’orchestra vivente, il mondo fa ponti d’oro per averlo. A Chicago gli hanno rinnovato il contratto fino al 2020. Noi invece l’abbiamo fatto scappare dal teatro della capitale ora in liquidazione. “Non c’era un clima sereno”, aveva spiegato Muti, usando un eufemismo per carità di patria. Polemiche, scioperi minacciati, cartellone in bilico, l’ingovernabilità: da questo era fuggito.

Dunque, a forza di tirare la corda, come ha fatto un gruppo di lavoratori, irriducibile nella sua protesta davanti al mondo che cambia, e al Maestro che rinuncia, la corda si è rotta. In epoca di crisi e nelle ore della riforma del lavoro questa vicenda sembra esemplare: ecco come va a finire, quando si fa prevalere la dura e pura rivendicazione di pochi sull’interesse ragionevole di tutti. L’interesse, per cominciare, dei lavoratori a lavorare: e invece sono stati licenziati. Perché il muro contro muro non paga più. Lavorare oggi significa capire che non c’è diritto senza dovere. Che l’Italia non è penisola isolata e felice nel mondo globale con le sue regole anche nel lavoro. Che ogni generazione deve avere la sua opportunità. A tempo indeterminato c’è soprattutto la speranza di saper cogliere la novità: far bene il proprio lavoro è la migliore garanzia per poterlo continuare a fare sempre. Per poterlo anche cambiare e migliorare. Per impedire abusi e arbitri. E chi, se non il sindacato, ha il compito di incarnare questa rivoluzione dei tanti e diversi lavori per tutti, anziché dell’un solo lavoro per alcuni per tutta la vita, com’era nel passato che passa?

L’amara vicenda dell’Opera insegna: chi va allo scontro con lo sguardo rivolto all’indietro, non porta il sindacato alla vittoria. Porta i lavoratori alla sconfitta. L’interesse di tutti è tornare a dire “musica, Maestro!”.

L’opera buffa del Teatro all’Opera di Roma -> Formiche.

Le troppo gaie diatribe sui matrimoni gay

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l commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Mancava solo una bella litigata sui matrimoni-gay. O meglio, sulla trascrizione di queste nozze fatte all’estero nei registri civili in Italia. Ma il governo, che già balla di suo per la riforma del lavoro, al punto d’essere stato costretto a porre il voto di fiducia in Parlamento, ora ci ha concesso anche l’ultima baruffa. Che si deve a una circolare del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ai prefetti – circolare, peraltro, che molti Comuni già annunciano di non voler rispettare – per mettere in guardia. Bisogna cancellare subito dai registri municipali eventuali matrimoni omosessuali contratti in altri Paesi, trattandosi di atti illegittimi. Ed è subito bufera civica e ideologica, col mondo politico che si spacca non solo sulla circolare in sé, ma soprattutto sul tema se sia giusto o meno prevedere le nozze fra persone dello stesso sesso da noi. Tema molto serio e internazionale, dove ogni nazione ha fatto la sua scelta e dove ogni opinione è benvenuta. Ma c’è un piccolo dettaglio che sfugge ai polemisti di pronto intervento: non toccherebbe né ai prefetti né ai municipi decidere come si attua la Costituzione della Repubblica. Tocca al legislatore nazionale.

Ma ormai la tempesta è scoppiata, emozioni e reazioni hanno la meglio sulle riflessioni. Riflessioni che, proprio in queste ore, sta facendo il sinodo dei vescovi fortemente voluto dal Papa per discutere di famiglia in tutte le sue evoluzioni. Anche in quella, tradizionalmente ostica per la Chiesa, dei divorziati e dei risposati. Verso i quali, invece, Francesco tende una mano nuova e forte, cercando di capire come fare a conciliare l’antica dottrina con la realtà del tempo che passa e che cambia. Eppur si muove, la Chiesa.

Ma si muovono anche tanti cittadini italiani. Per la prima volta il dato degli emigranti ha superato quello degli immigrati, cioè i connazionali alla ricerca di un futuro fuori d’Italia sono più numerosi degli stranieri che sperano in un loro futuro in Italia. E’ l’altro lato della crisi, con i giovani – ma anche tanti adulti – stufi di attendere quella svolta troppe volte sbandierata dalla politica per essere, ancora, creduta. Parole, soltanto parole: e molti italiani se ne vanno. Ma un altro fiume di parole già scorre sull’iniziativa del ministro Alfano, che finisce per tornare a divedere le fazioni in modo prevedibile (la sinistra contraria, la destra favorevole alla circolare), ma soprattutto per togliere energie e attenzione sulla prioritaria emergenza: come far ripartire l’economia in Italia. Come non far ripartire gli italiani verso l’estero.

Le troppo gaie diatribe sui matrimoni gay -> Formiche.

Uruguay, chi si contende l’eredità di Mujica Cordano

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Mujica

L’analisi è stata pubblicata oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Da Montevideo (Uruguay)

Quattro anni dopo, José Mujica Cordano detto Pepe se ne va così com’era arrivato: tra le polemiche. Il presidente “più onesto del mondo” – com’è stato ribattezzato dalla stampa internazionale per aver rinunciato al novanta per cento dello stipendio a favore dei bisognosi -, lascia la presidenza della Repubblica dell’Uruguay dicendo che i suoi avversari politici sono “anime marce” (“almas podridas”: in spagnolo suona ancora peggio). E allora a Montevideo, la capitale, s’accendono gli ultimi bagliori di una campagna elettorale senza l’entusiasmo che accompagnò, una decina d’anni fa, la prima volta del Frente Amplio al governo con l’oncologo Tabaré Vázquez che rompeva l’ultra-secolare tradizione dei Colorados e dei Blancos, i riformatori e i conservatori che si alternavano alla guida del Paese.

Il Frente è una coalizione progressista costituita da una decina di formazioni, e favorita nel voto di oggi per eleggere il Parlamento e il successore di Mujica. Ma il possibile ritorno di Tabaré Vázquez, candidato di nuovo in pista in un Paese nel quale la Costituzione impedisce l’immediata rielezione (per questo l’uscente Mujica si congeda), non è scontato. Tabaré, 74 anni, dovrà vedersela con Luis Lacalle Pou, leader quarantenne a cui i vecchi patriarchi all’opposizione hanno dato via libera nella speranza di conquistare il voto giovane e battere il Frente. Il giovanotto è figlio di un ex presidente della Repubblica, e corre per i Blancos. Così come lo è Pedro Bordaberry, leader degli alleati Colorados. Bordaberry, 54 anni, è uomo preparato, ma con un cognome difficile da portare. Il padre Juan María fu anche lui presidente nei primi e tesissimi anni Settanta, avallando il colpo di Stato militare. Fu complice della passata dittatura. Per evitare fraintendimenti, il figlio si fa chiamare, e tutti lo chiamano solo per nome: Pedro.

Dunque, Tabaré contro Lacalle e Pedro, ecco la sfida alle urne. Ma dal passato spunta anche il nome di un altro candidato del Frente alla vice-presidenza, Raúl Sendic. E’ figlio del leader storico dei Tupamaros, il movimento di guerriglia da cui proviene lo stesso Pepe Mujica.

Con la nuova generazione l’Uruguay volta simbolicamente pagina. Ma a differenza dell’impolitico Mujica, personaggio da pane al pane che se ne infischia del politicamente corretto, Tabaré sarà chiamato, se vincerà, a rispondere a due questioni che scottano. La prima è di principio e spacca la società in due: come attuare l’avvenuta e controversa legalizzazione della marijuana. Da medico Tabaré ha già detto che è contrario alla vendita di droga in farmacia. Il secondo e sentitissimo problema riguarda la sicurezza. Gli uruguaiani si sentono indifesi nelle loro case e non intendono rinunciare alla proverbiale tranquillità con cui uscivano la sera anche nei quartieri periferici. L’opposizione dei Blancos e Colorados, cioè il centro-destra, vuole il pugno di ferro contro la micro-criminalità e chiede che anche i minorenni, troppe volte protagonisti di furti e rapine, vengano puniti, anziché mandati nelle comunità da cui poi, usciti, tornano spesso a delinquere. Si propone di modificare la Costituzione, che considera “non punibili” i minori di diciott’anni.

Se è la sicurezza il punto debole del Frente al governo, l’economia è il suo punto forte. Nel decennio trascorso il turismo e le esportazioni sono cresciuti e il tenore di vita, pur da Paese caro in proporzione agli stipendi, si è mantenuto stabile. Il governo ha puntato le sue carte sui ceti più deboli e “assistiti”, come attacca l’opposizione, con una tassazione che colpisce soprattutto dalla classe media in su. Ma a differenza del popolare e populista Mujica, il riformista Tabaré non spaventa una parte della borghesia. In compenso il giovane Lacalle pesca tra i coetanei che votano Frente.

Ecco perché il duello si rivela un incrocio interessante, che sarà risolto probabilmente non oggi, ma al ballottaggio di novembre.



Benvenuti alla surreale sceneggiata siciliana con Napolitano e Grillo

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Il commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Non poteva essere più pesante la bufera che Beppe Grillo ha scatenato per le sue incredibili dichiarazioni sulla mafia. “La mafia aveva una sua morale”, ha detto il leader dei Cinque Stelle a Palermo, ma è stata “corrotta dalla finanza”. E Cosa Nostra andrebbe “quotata in borsa”, più altre frasi-choc con l’evidente intento di scatenare un putiferio.

Subito, infatti, scatenato. “Grillo è un barbaro che cerca i voti della mafia”, gli ha risposto il presidente della Regione siciliana, Rosario Crocetta, mentre Maria Falcone ha accusato il comico-politico di “insulto alle vittime”. Bufera pesante, bufera intempestiva. Proprio in queste ore il presidente della Repubblica depone al Quirinale sulla presunta trattativa fra istituzioni e criminalità organizzata. E anche se la forma è salva -al punto che lo stesso Giorgio Napolitano ha acconsentito a testimoniare su fatti antecedenti al suo attuale mandato presidenziale-, la sostanza non è un bel vedere. Perché il capo dello Stato si troverà a parlare nell’ambito di un’inchiesta in cui figura anche il capo della mafia, Totò Riina, che tanto “avrebbe voluto partecipare all’incontro”, come ha spiegato il suo avvocato. Che invece ci sarà, e potrà porre domande al presidente Napolitano. Un evento quasi surreale e comunque senza precedenti. L’obiettivo dei giudici è indiscutibile: si vuole accertare tutta la verità sulle stragi e sugli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ma davvero non c’era altro modo per acquisire la testimonianza di Napolitano? Possibile che anche il ruolo del presidente della Repubblica, il simbolo più alto e riconosciuto, finisca nel tritacarne delle polemiche che la deposizione fatalmente creerà, qualunque cosa Napolitano dirà o non dirà?

Intanto, la vigilia si arroventa per le parole prima citate -e diverse altre- pronunciate da Grillo. I suoi lo difendono, parlando di “strumentalizzazione” e ricordando che l’impegno anti-mafia dei Cinque Stelle è incontestabile. Ma il problema è un altro. E’ che l’azione criminale della mafia, la sua devastante influenza sull’economia non solo del Mezzogiorno, la sua violenza da troppi anni esercitata su cose e persone non possono essere liquidate con espressioni non si sa se da cabaret o frutto della non conoscenza del fenomeno. “Frutto dell’ignoranza”, ha detto Rita Borsellino. Il male che i mafiosi hanno fatto e continuano a fare all’Italia e agli italiani è incalcolabile. Le parole non bastano per descriverlo. Ma le parole a volte sono pietre e non bisognerebbe buttarle al vento della polemica.


Ecco come Grillo e Renzi stanno stritolando Berlusconi

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renzi berlusconi grillo

Il commento è stato pubblicato su La Gazzetta di Parma di oggi

Le ultime dal centro-destra? La festa di primavera. Per dirla con Silvio Berlusconi, che non molla, “una grande kermesse a marzo” con l’obiettivo di rinnovare il Polo che fu. E che da tempo non c’è più.

Da tempo il bipolarismo all’italiana ha cambiato nomi e formule. Di qua Matteo Renzi, di là Beppe Grillo. L’irriducibile contrapposizione fra il leader del Pd al governo e il leader dei Cinque Stelle all’opposizione nasconde la vera anomalia politica in Italia: la marcia del centro-destra nel deserto. Chi li ha più visti? Né basterà la rondine di primavera per ritrovare la coalizione perduta. Che non ha più la chiavi del governo in mano, né contrasta sul serio il governo. Il centro-destra è lì in mezzo al guado, né carne né pesce, sperando che Renzi duri e che il patto con lui regga. Ma non troppo. Altrimenti, il presidente del Consiglio finirà col fagocitare quel che resta del giorno.

Eppure, l’unione politica dei non progressisti, cioè il Pdl più tutte le sue evoluzioni, varianti e alleanze, rappresentava l’italica versione di una dimensione politica europea. Quella dei popolari in Germania e in Spagna, dei gollisti in Francia, dei conservatori in Gran Bretagna. La sfida in Italia è invece diventata un’inedita partita a due, Renzi versus Grillo. Essi hanno riempito anche il vuoto del dopo-Berlusconi, che tanto “dopo”, oltretutto, non è, visto che Berlusconi non intende abbandonare il campo. Ma per quante acrobazie Renzi e Grillo possano compiere, per quante “buone ragioni” degli avversari quei due facciano proprie, mai il Pd si trasformerà in Partito popolare. Né i Cinque Stelle in Partito conservatore. Riempire il vuoto altrui, non significa fare quel che gli altri avrebbero fatto.

Insieme il partito di Renzi e quello di Grillo raccolgono più del sessanta per cento del corpo elettorale. Dunque, quel duello rispecchia di gran lunga il volere prevalente dei cittadini. Ma negli altri Paesi che contano, non è così. E tre volte su quattro governa il centro-destra. “L’Europa della Merkel”, viene non per caso chiamata. Perciò l’anomalia italiana è duplice. A differenza di Berlino, di Londra e di Madrid, a Roma non solo il centro-destra non governa, ma da mesi non tocca palla nello scontro fra Pd e Cinque Stelle. E’ il polo evanescente fra l’uomo più veloce del tweet (Renzi) e quello che più va alla carica, da Circo Massimo (Grillo).

Dalla riforma del lavoro al dibattito sulle nozze omosessuali, dall’immigrazione alle modifiche costituzionali, dalla politica estera alle linee guida per l’economia non c’è un solo tema in cui il punto di vista degli elettori senza partito -come si trovano di fatto moltissimi elettori di centro-destra-, sia stato decisivo o, almeno, condizionante. Persino sulla classica battaglia delle tasse la piccola presenza del Ncd al governo o la maggiore influenza di Forza Italia da fuori si sono rivelati inutili. La nuova Tasi (già il nome!) è il suggello fallimentare di chi sollecitava l’abolizione dell’imposta sulla prima casa come madre di tutte le battaglie sul fisco.

La crisi del centro-destra viene da lontano e non basterà una “grande kermesse” per esorcizzarla. E allora: primarie per tutti? Caccia a un “Renzi di destra” per competere? Conferenza di programma per cambiare? Intanto, Matteo e Beppe se le cantano. Ma cantano solo loro.


Fabiola Gianotti al Cern sfata tutti i luoghi comuni sull’Italia

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gianotti CONFERENZA IL BOSONE DI HIGGS E LA NOSTRA VITA

Articolo pubblicato oggi su Il Messaggero

E così anche alla guida del laboratorio di fisica più importante al mondo -il Cern di Ginevra- per la prima volta nei sessant’anni della sua storia ci sarà una donna. Una donna italiana. Un’italiana che è scienziata giovane: appena cinquantadue anni.

In un colpo solo Fabiola Gianotti ha cancellato tanti luoghi comuni. Non è vero che nell’Europa dei parametri l’Italia sia fuori classifica. La signora della scienza è stata scelta dai suoi colleghi del mondo come numero uno della fisica. Non è vero che, per i giovani che valgono, ci sia solo un destino da “cervelli che fuggono”. Fabiola s’è formata tra Roma e Milano, è approdata al Cern, ma non ha mai interrotto i suoi rapporti professionali con l’Italia. C’è, al contrario, una continuità formidabile nella “scuola italiana” di fisica: dai ragazzi di Via Panisperna che negli anni Trenta stupirono il mondo, alle ragazze di Ginevra che il mondo, oggi, lo stanno cambiando. Ottant’anni di un sogno italiano e universale. Non è vero, infine, che la nomina di Fabiola Gianotti a direttore generale del laboratorio europeo a partire dall’1 gennaio 2016 sia la solita rondine che non fa primavera. Né autunno, data la stagione. Il vertice del Cern a un’italiana fa il paio con quello della Banca centrale europea a un italiano. Lì, a Francoforte, da tempo siede Mario Draghi. Anche lui, oltretutto, scelto da rappresentanti di diverse nazioni d’Europa, e non soltanto dagli italiani.

Da Ginevra a Francoforte, dalla fisica all’economia si smentisce, allora, un altro luogo comune che noi stessi amiamo tramandare, cioè che la nostra cultura sia soprattutto umanistica e letteraria. Come se cinque premi Nobel italiani per la fisica (nell’ordine: Marconi, Fermi, Segrè, Rubbia e Giacconi), non stessero lì a testimoniare che italianità fa rima con universalità anche quando non è Dante Alighieri il grande e riconosciuto protagonista della storia. Del resto, la nazionalità prevalente dei moltissimi ricercatori e studiosi al Cern, e di decine di Paesi, è proprio l’italiana. Fabiola Gianotti non è la bella eccezione alla regola: è la bella regola che non fa eccezione.

Ecco perché la scelta di questa signora nata a Roma, con un Liceo classico e un diploma di pianoforte che sempre rivendica quali tappe fondamentali nei suoi studi, può darci più orgoglio, più tranquillo orgoglio del poco a cui siamo abituati. A fronte del catastrofismo imperante nella politica e nell’antipolitica, davanti a chi vede e teme solo fatali declini e si salvi chi può, di fronte a una classe dirigente che in ogni ambito vede il bicchiere mezzo vuoto anche quand’è mezzo pieno, è importante sapere che in Europa due dei più ambiti ruoli internazionali e istituzionali siano stati “dagli altri” assegnati a italiani. Siamo geniali nel farci del male da soli. Ma Fabiola Gianotti dimostra che a volte siamo geniali e basta.


Dalle parole ai fatti, l’esempio di Fabiola Gianotti

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cern gianotti

Questo commento è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Non le parole, ma gli esempi. E l’ultimo esempio viene da una donna italiana di 52 anni, la scienziata Fabiola Gianotti. Dal primo giorno del 2016 dirigerà il più importante laboratorio di fisica al mondo. Al Cern di Ginevra, dove già lavorava da anni ad altissimi livelli, l’hanno preferita ad altri due candidati, uno britannico, l’altro olandese.

E così la Signora della scienza ricoprirà il ruolo internazionale e istituzionale più elevato nell’ambito del sapere che sia stato finora riconosciuto “dagli altri” a un italiano. E che “altri” essi sono, visto che si parla del meglio del meglio di studiosi, ricercatori, professori d’ogni lingua e parte dell’universo. Proprio grazie all’impegno del Cern coordinato dalla scienziata italiana, l’anno scorso fu assegnato il Nobel per la fisica a Peter Higgs. Fabiola Gianotti e i suoi collaboratori riuscirono a scoprire l’esistenza del bosone che Higgs aveva a suo tempo ipotizzato, la soprannominata “particella di Dio”: un mistero di meno fra i molti che interrogano l’umanità dalla notte dei tempi.

Ma la storia di Fabiola, nata a Roma e cresciuta a Milano, con Liceo classico e diploma di pianoforte alle spalle, non è esemplare soltanto perché è una storia italiana vincente da ogni punto di vista. Come donna, come studiosa giovane, come scienziata che ha contribuito a una scoperta. E’ perciò una storia che dà speranza alle ragazze e ai ragazzi italiani: non li attende solo l’amaro destino da “cervelli che fuggono”. Lei stessa va avanti e indietro fra il mondo e l’Italia. La sua, dunque, è una normale storia di eccellenza che smentisce il catastrofismo con cui la politica e l’anti-politica ogni giorno raccontano di un Paese senza speranza. Invece no, i giovani adesso sanno che anche i grandi sogni non muoiono a Ginevra né altrove.

Fabiola Gianotti è la classica italiana che per anni non s’è lamentata, né scoraggiata. Ha lavorato, e poi lavorato e poi ancora lavorato. Sempre in silenzio. Rare e mai frivole le sue interviste persino dopo essere finita in prima pagina -ma solo per la sua competenza- sui giornali più accreditati al mondo. Lontana da ogni casta e, soprattutto, da quella chiacchierona e inconcludente di casa nostra, la Gianotti ha onorato il buon nome dell’Italia semplicemente dedicandosi a quello che sa fare: il fisico che ricerca nella fisica. Senza altre pretese, se non quella di fare al meglio la sua professione. E’ ciò che fanno, ogni giorno, milioni di cittadini italiani, ciascuno nel proprio campo. Che l’Italia ricominci da Fabiola, donna e giovane scienziata. Il volto nuovo e sorridente di una svolta generazionale.


Il fascismo secondo Giampaolo Pansa

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Pansa PDL SUMMER SCHOOL 2009

Intervista pubblicata su Il Messaggero.

All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore.

Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo -suo di Pansa-, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?
“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partico comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?
“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.
Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?
“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea -poi pubblicata da Laterza- sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.
“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.


Dall’Aquila al caso Cucchi, ecco la giostra dei verdetti diversi

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RIVOLUZIONE CIVILE INGROIA DI PIETRO

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

I giuristi diranno subito che il giudizio d’appello esiste proprio per riesaminare il giudizio di primo grado. E perciò, se lo rovescia, non c’è scandalo: altrimenti che “appello” sarebbe?

Ma la sentenza che all’Aquila ha mandato tutti assolti i sei membri della commissione Grandi rischi che erano stati invece condannati in precedenza a sei anni di carcere da un’altra Corte per aver sottovalutato il rischio del terremoto, non può non colpire i cittadini. Nel rispetto che sempre si deve al difficile lavoro dei magistrati, chiamati ad accertare una “verità dei fatti” che spesso gli stessi fatti rendono complicata, com’è possibile che, a distanza di poco tempo, per la stessa vicenda e con identica imputazione due corti emettano sentenze diametralmente opposte tra loro?

La questione, però, non riguarda soltanto i processi dell’Aquila, che pure registrano l’indignazione di molti abruzzesi e familiari delle vittime. Ma su cui è impossibile dare un ulteriore “giudizio sul giudizio” senza ancora conoscere le motivazioni della Corte che ha assolto. Quel che sorprende è che non è la prima volta che un tribunale ribalta il verdetto di un altro tribunale, come testimonia anche il recente e pur assai diverso “caso Cucchi” (tutti assolti, di nuovo, in appello). Ma come dimostra, in particolare, la giustizia di un sistema malato, che ogni giorno alterna condanne e assoluzioni -ma soprattutto assoluzioni- in un crescendo di interpretazioni di norme, di ricorsi a cavilli, di lentezza nelle decisioni a danno della più elementare esigenza per i cittadini. L’esigenza che giustizia sia fatta.

E allora la giostra dei verdetti diversi e a cui non si sa più a quale, se e quanto credere, ripropone la questione irrisolta: il rapporto non equilibrato fra l’imputato super-garantito e la vittima del reato super-dimenticata. La statistica del ribaltone giudiziario è quasi sempre a favore degli accusati, non degli accusatori. Anche ammettendo un eccesso di processi per questioni che in modo diverso potrebbero essere accertate (e che perciò portano alla naturale assoluzione degli imputati), è evidente che qualcosa non funziona più. Chi subisce un’ingiustizia penale, civile o amministrativa, deve sudare sette camicie per sperare d’avere, forse un giorno, ragione in tribunale.

E’ l’ora, dunque, di un nuovo garantismo per i legislatori che fanno le leggi e per i magistrati che le applicano: dare maggiori garanzie a chi chiede giustizia, e che troppe volte continua a essere ignorato.


Quanto vacilla il patto tra Renzi e Berlusconi

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Questo commento è stato pubblicato su La Gazzetta di Parma

Per ora Matteo Renzi e Silvio Berlusconi si minacciano con gesti e rituali. Il primo ha fatto il suo bel vertice di maggioranza (guai a chiamarlo “verifica”; in epoca di rottamazione non si può), e ha reso note le condizioni e correzioni che intende imporre su legge elettorale e dintorni al suo oppositore di riferimento. Niente di così grave che Berlusconi, il nemico-amico, non possa accettare. Ma il solo fatto che il presidente del Consiglio abbia cucinato da solo la minestra, e chi non la mangia salti pure dalla finestra, ha provocato l’ira dei commensali di Forza Italia non invitati.

Essi temono che il cosiddetto patto del Nazareno, cioè l’accordo stile tè delle cinque tra Matteo e Silvio, sia passato di moda. E che il capo del governo non voglia più frequentare la passerella dei pasticcini – in tutti i sensi – con Berlusconi per andare, invece, presto e dritto alle urne. Anche perché un eventuale cambio dell’oppositore prediletto (Grillo che beve il tè al posto di Berlusconi? Beato chi ci crede…), appare piuttosto difficile. E perciò Renzi rilancia: basta rinvii, qui si decide. Entro febbraio lui vuole la nuova legge elettorale e così la legislatura finirà nel 2018. Ma a nome dei destinatari dell’ultimatum Renato Brunetta reagisce a muso duro: “Il premier cambia tutto? Allora vada avanti da solo”. Niente diktat è la risposta dei berlusconiani al fiorentino.

Piccole gelosie crescono. Ma cresce soprattutto il dubbio su quanto possa tenere l’intesa che vacilla tra Renzi e Berlusconi. E’ una specie di polizza assicurativa per entrambi. Consente al presidente del Consiglio di annunciare che potrà fare alcune importanti riforme che Berlusconi avrebbe voluto fare, avendole soltanto e pure lui annunciate. E consente al leader di Forza Italia di conservare un ruolo politico rilevante, inversamente proporzionale alla debolezza del centro-destra, alla forza del Pd e alle potenzialità dei Cinque Stelle. Renzi e Berlusconi, sale la tensione e s’alzano le voci gladiatorie. Ma in fondo sta bene a tutti e due. All’orizzonte ci sono le dimissioni senza data, ma anch’esse “annunciate”, dell’anziano presidente della Repubblica. Chi verrà dopo Giorgio Napolitano? E’ chiaro che Forza Italia e il suo leader non vogliano restare esclusi dalla scelta altrui. E poi la maledetta crisi economica, per contrastare la quale Bruxelles torna a lanciare l’allarme sulle misure insufficienti adottate dal governo italiano. E’ chiaro che l’uomo solo al comando, cioè Renzi, abbia bisogno del maggior numero di non belligeranti in Italia per convincere l’Europa a non rompere più le scatole. Riecco l’amico-nemico Berlusconi, che può tornare utile per il compito, ossia per fare i compiti a casa, come preside Angela Merkel esige da Berlino.

Se i rottamatori della rivoluzione in corso non s’offendono, siamo in piena “convergenza parallela”, come quei retrò della prima Repubblica avrebbero definito il patto in bilico tra Matteo e Silvio. Distanti e distinti, ma l’uno non può fare a meno dell’altro. Camminano, e soprattutto Berlusconi, su un sentiero strettissimo e tortuoso. Ma l’alternativa è sprofondare nell’abisso.
Tutto si tiene. Ha un senso perfino il contentino dello sbarramento al tre per cento, appena, inventato per la legge elettorale. Uno sbarramento che il presidente del Consiglio ha abbassato con furbizia per premiare i soliti cespugli di lotta e di governo. Accontentarli tutti con le briciole, per continuare a governare solo lui.



Spot Bce, italiani camerieri d’Europa. Draghi è d’accordo?

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Questo articolo è stato pubblicato oggi sul quotidiano il Messaggero

La moneta è di tutti, ma il pregiudizio è per uno solo. Per far conoscere la nuova banconota da dieci euro, la Banca centrale europea s’è inventata uno spot da antologia per chi vive di stereotipi.

Nel breve racconto a più lingue che è stato ideato, i francesi, gli inglesi, gli spagnoli vengono rappresentati in momenti felici di vita familiare, di avventura, di tempo libero. “Questo è il mio tesoro”, afferma, per esempio, un soddisfatto bambino tedesco. Ma quando arriva il turno dell’italiano, ecco comparire una cameriera. “E’ la mia prima bella mancia”, dice.

Non si vede, dunque, un cantante lirico, un direttore d’orchestra, una scienziata che dirige il Cern a Ginevra. Oppure uno stilista, un Marchionne, un rilassato cittadino qualunque che magari si riposa guardando la Cappella Sistina, le Dolomiti rosa al tramonto o i faraglioni nell’azzurro di Capri, anziché pescare nel lago, come invece accade per lo spagnolo raffigurato. Macché. Delle infinite possibilità che la Banca d’Europa aveva per descrivere gli italiani così come essi sono percepiti da gran parte del mondo, si è invece scelto la strada del solito cameriere. Mancava solo il mandolino. Ma ci aspettiamo di ascoltarlo in occasione della prossima banconota.

Nel suo piccolo, questa grande mancanza di rispetto non per i camerieri, che svolgono, anzi, un lavoro faticoso e dignitoso, ma per raccontare in pochi secondi chi sono gli italiani, e che essi non vivono soltanto di pane e cioccolata, è esemplare. Esemplare del fatto che gli italiani siano l’unico popolo della Terra che possa essere denigrato, deriso, seppellito sotto i peggiori luoghi comuni da chiunque. Perfino, stavolta, da un’istituzione europea che pur conta – ironia della sorte! – su un presidente italiano, Mario Draghi. Ma chi se ne importa anche di lui. In fondo è solo uno spot.

E allora: quando si rappresentano gli italiani, non vale neanche il politicamente corretto, che almeno impedisce o suggerisce a tutti di evitare espressioni che possano ferire persone o popolazioni.

D’altronde, in Italia regna l’auto-denigrazione come sport preferito. Pochi della classe dirigente (politici, intellettuali, economisti) sentono anche una naturale e consapevole questione di dignità nazionale per i marò “sequestrati” in India da quasi tre anni contro ogni diritto internazionale. Per gli ordini che i kazaki impartivano in casa nostra durante il caso-Shalabayeva. Per la foto dall’ostentato richiamo anti-italiano che Gheddafi esibiva sulla giacca quando sbarcò a Roma, e fu subito corsa politica a baciarlo e abbracciarlo. Persino con la piccola e civilissima Austria non siamo mai riusciti a farci restituire i terroristi alto-atesini condannati dalla magistratura italiana per fatti gravissimi (peggio, un po’ di loro li abbiamo pure graziati).

Se, insomma, diamo sempre la sensazione che chiunque possa prendere a schiaffi l’Italia e gli italiani, questo è il risultato: camerieri d’Europa. Il pregiudizio degli altri, che noi per primi dovremmo imparare a sradicare.

f.guiglia@tiscali.it

LO SPOT DELLA BCE


Tutte le alluvioni che flagellano l’Italia

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Questo articolo è stato pubblicato su L’Arena di Verona, Il giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Per il governo peggio dell’autunno caldo poteva esserci soltanto l’inverno gelido. E sta puntualmente arrivando. Non solo per un maltempo che flagella in particolare il Nord Italia, causando frane, inondazioni e un mare di polemiche per l’incuria che per troppi anni le varie amministrazioni hanno mostrato verso il territorio e l’ambiente.

Oggi i cittadini ne pagano le pesanti conseguenze, come le vittime, i feriti e i danni alle cose e alle case testimoniano. Alle istituzioni non resta altro che invitare le popolazioni a non lasciare le abitazioni. E’ il colmo dell’impotenza politica: correre tardivamente ai ripari, anziché aver dato retta agli allarmi di chi da sempre aveva sollecitato prevenzione. Ma oltre alle ferite procurate dal meteo che non perdona, il governo si trova anche alle prese con un malcontento diffuso e con un disagio che un cardinale come Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, esorta la politica ad ascoltare.

Si va dai cosiddetti scioperi sociali promossi in venticinque città agli scontri nella periferia di Roma, alle proteste per le occupazioni abusive di case a Milano, al corteo di automobili per rivendicare il lavoro che non c’è in Sardegna. La febbre degli italiani sembra salire ovunque e per i più disparati motivi, mentre l’economia di nuovo rallenta. L’annunciata riforma del lavoro, che pure è in corso, ancora non basta per la svolta necessaria. E allora l’aria di rivolta che pullula dappertutto non può lasciare impassibile il destinatario finale di ogni corteo, marcia e malumore, cioè il governo.

Come succede quando il termometro supera i 39, il medico chiamato a intervenire deve prima di tutto rassicurare il paziente-Italia. Deve saper dare e spiegare la ricetta giusta per affrontare l’emergenza, che ormai è a un tempo climatica, sociale ed economica. Un’emergenza che rischia di diventare esplosiva, perché mette insieme ogni genere di insofferenza, di ingiustizia, di indignazione. Chi rappresenta lo Stato a ogni livello deve saper rispondere in modo rapido e convincente a questo malcontento dilagante. Per esempio facendo rispettare il diritto della gente a non vivere nel degrado e, nello stesso tempo, garantendo il dovere dell’accoglienza per i deboli, i minori, i non protetti da nessuno.

Guai se la rabbia dei cittadini si trasforma in una guerra tra poveri, o nell’esasperazione permanente fra italiani e immigrati. Al ritorno dal G20 in Australia Matteo Renzi e i suoi ministri dovranno soprattutto rasserenare il Paese. Prima che sia troppo tardi.


Perché le Olimpiadi a Roma nel 2014 sono un bel sogno

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Si sa, tutte le strade portano a Roma. Ma nel caso dello sport una cosa è arrivarvi passando da Torino. E ogni riferimento alle splendidi Olimpiadi invernali del 2006 è voluto. L’altra è di giungere a Roma nuotando tra le piscine vuote, incomplete o inadatte rimaste dai Mondiali 2009.

Il successo o lo spreco, il saper far bene le cose o la solita inchiesta della magistratura costretta a “vederci chiaro” ad appuntamento finito: ecco il bivio che si presenta, oggi, alla politica, mentre si profila la grande opportunità di candidare la capitale, che già organizzò le Olimpiadi nel 1960, al bis nel 2024.

E’ un gran bel sogno. Ma i patti devono essere molto chiari, e subito, per esempio già prevedendo, com’è stato fatto per l’Expo a Milano l’anno prossimo, un’Autorità in grado di controllare conti, procedure e lavori in calendario anche prima e durante l’organizzazione dell’appuntamento, non soltanto “a babbo morto”.

Perché stavolta i cittadini non tollererebbero ingenti investimenti pubblici e privati, quali un’Olimpiade sempre comporta, a fronte di sperperi e debiti fatali. Come l’Expo di Milano anche la possibile Olimpiade a Roma sarebbe una straordinaria vetrina internazionale per l’Italia, oltre che la meritata occasione che migliaia di atleti inseguono da una vita: far vedere e far valere in casa il talento, la disciplina e il sacrificio di cui sono capaci. Di cui siamo capaci, se si guarda al medagliere.

Nell’intera storia universale dei Giochi invernali ed estivi a partire dai primi dell’era moderna nel 1896 ad Atene, l’Italia è il quinto Paese al mondo ad aver conquistato il maggior numero di ori, argenti e bronzi. Dunque, l’evento è nelle nostre corde.

Le sportive e gli sportivi azzurri sono bravissimi. Ma guai a sporcare il sogno con pratiche che nulla c’entrano con podi e classifiche, e meno che mai con tecnici e famiglie che vivono di lavoro e di speranze (non di soldi, come nel calcio dei Vip). Guai a tradire i giovani, che hanno bisogno del buon esempio.

L’esempio del nuotatore che s’impegna e della politica con mani altrettanto pulite. L’esempio che l’Italia può di nuovo permettersi di fare le cose in grande, senza approfittatori di alto o basso livello. L’Olimpiade può essere un’opportunità anche per le istituzioni, se la candidatura italiana di Roma sarà, alla fine, votata: dimostrare che la classe dirigente nazionale e locale è all’altezza dei suoi atleti e della sua gente. Ma, come dicono gli astronauti, “sbagliare non è un’opzione”. Vale anche per i marziani della nostra politica.

f.guiglia@tiscali.it   

Da Emilia Romagna e Calabria due sberloni a Renzi e Berlusconi

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Questo commento è stato pubblicato oggi da La Gazzetta di Parma

“Piazze piene, urne vuote”, si diceva un tempo, per descrivere il peso politico di quei partiti che protestavano molto fra la gente ma che, il giorno del voto, ottenevano risultati poco esaltanti.

L’adagio vale ancora, seppur adattato all’epoca dei tweet. “Piazze televisive piene, urne vuote” per Matteo Renzi e il suo Pd, che in Calabria, ma soprattutto in Emilia-Romagna, devono accontentarsi di una vittoria piccola piccola. Perché la maggior parte degli italiani ha scelto di non andare a votare: un astensionismo senza precedenti per un territorio abituato da sempre, al contrario, alle alte percentuali d’affluenza. Invece adesso più di sei elettori su dieci hanno detto picche.

Ha votato solo il 37,3 per cento. Anche molti simpatizzanti della Regione rossa per eccellenza sono rimasti a casa, al pari di un’opinione pubblica non schierata, ma scottata dall’offerta politica che passa il convento. Un’offerta che si rispecchia nei tredici trimestri di fila del Pil (prodotto interno lordo) in rosso, e non ideologicamente parlando.

E’ dunque nell’andamento dell’economia, cioè nell’aspetto più concreto di vita quotidiana con cui si misurano i cittadini, che bisogna scavare per cercare le ragioni delle due sberle. La prima – checché ne dica l’interessato – l’ha presa il signor Renzi. Il quale pochi mesi fa trionfava sull’onda di un quaranta per cento di consensi alle europee senza essersi neppure candidato di persona. E adesso nell’Emilia-Romagna del Pd e dei suoi sogni Renzi deve prendere atto di una percentuale notevole di gente tanto delusa da non essersi neanche presentata ai seggi.

E’ come se solo quattro giocatori su undici scendessero in campo per una partita. La partita l’hanno vinta, certo. Ma che vittoria amara: nessun allenatore al mondo potrebbe gioirne. Meno che mai il presidente del Consiglio che allena l’Italia, senza essere finora riuscito a invertire o almeno fermare la tendenza negativa dell’economia. E allora l’astensione di chi non ci sta, è tutt’altro che “un fatto secondario”, come ha minimizzato il premier.

L’altro schiaffo più prevedibile, ma non meno fragoroso è per Silvio Berlusconi e quel che resta del centro-destra. Il solo fatto che sia Matteo Salvini, cioè il leader della Lega – essa sì vittoriosa in Emilia – a profilarsi come il nuovo che avanza fra gli elettori dell’area non progressista, rende l’idea della crisi profonda in cui naviga l’ex Popolo delle libertà coi suoi alleati. Col patto renziano del Nazareno Berlusconi conta (forse) nel Palazzo. Ma nel Paese Forza Italia è stata doppiata dalla Lega in ascesa, grazie alla comunicazione “pane al pane” della ruvida generazione di Salvini. Matteo contro Matteo, sarà questo il destino italiano?

Intanto, il terzo incomodo comincia a essere meno incomodo. Quando i Cinque Stelle si propongono privi del grande capo, ottengono risultati rispettabili, non però sconvolgenti. In Emilia-Romagna il partito di Beppe Grillo non sarà il principale oppositore del Pd. L’oppositore più forte si chiama Matteo Salvini.

Naturalmente, il voto in due delle venti Regioni è solo un’indicazione dell’Italia che cambia. Ingigantirne il verdetto sarebbe da provinciali. Ma ridimensionarlo a roba di paese, significherebbe non capire il disagio potente e crescente del Paese.

f.guiglia@tiscali.it          

Capitale corrotta o infetta?

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MUSEI CAPITOLINI

Grazie all’autorizzazione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo questo commento uscito sul quotidiano Bresciaoggi

A volte ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri, nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari, politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”.

Ma stavolta la realtà supera ogni fantasia e fra gli indagati finisce pure l’ex sindaco Gianni Alemanno, del quale hanno perquisito la casa. L’operazione degli inquirenti, non ancora conclusa, apre intanto le porte del carcere a Massimo Carminati, ex Nar ed ex Banda della Magliana, accusato d’essere l’anima nera, in tutti i sensi, del sistema corruttivo ed estorsivo nel mirino degli investigatori. Sott’accusa è il groviglio di appalti e di faccendieri, di personaggi politici di destra e di ogni parte (anche rappresentanti locali del Pd e del Pdl risultano indagati), di dirigenti pubblici e criminali. Un insieme di quell’oscuro, ma non troppo “mondo di mezzo” che finiva per costituire, secondo l’accusa, una rete trasversale e autonoma che l’inchiesta non per caso ha voluto denominare “mafia capitale”.

Naturalmente, solo gli accertamenti in corso e i prevedibili processi diranno quanto fosse ramificato e come operasse quest’organizzazione. Così come sapranno distinguere con la serenità e la severità che la legge impone anche gli innocenti dai colpevoli con sentenza definitiva. Tutti i politici si tirano fuori, a cominciare da Alemanno, che si dichiara estraneo agli addebiti e sicuro d’uscire “a testa alta” dalle pesantissime accuse mosse e ribadite dal procuratore capo a Roma, Giuseppe Pignatone, secondo il quale “alcuni uomini vicini all’ex sindaco sono componenti a pieno titolo dell’organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione”.

Ma in attesa, come si dice, che la giustizia faccia il suo corso, lo scenario descritto dalla magistratura dopo tre anni di indagine è sconvolgente. Non solo per l’estensione della zona grigia a cavallo fra illecito e criminalità, ma anche per quanti ambienti e ambiti diversi essa attraversasse. Gli affari non avevano confini né politici né morali: tutto bolliva nella stessa pentola di illegalità dilagante. Che la Procura di Roma vada fino in fondo, visto che il fondo già l’abbiamo toccato.

f.guiglia@tiscali.it 


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