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Chi ha ragione fra Federico Pizzarotti e Beppe Grillo

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Ora che lo strappo è consumato, non ha molto senso, per i tanti cittadini che hanno dato fiducia ai Cinque Stelle (un italiano su quattro alle ultime politiche), stabilire chi abbia ragione fra Federico Pizzarotti, il sindaco di Parma che ha annunciato l’addio, e Beppe Grillo, il gran capo del movimento che ha commentato, beffardo: “Arrivederci Pizza, goditi i quindici minuti di celebrità”.

Per l’opinione pubblica che segue da fuori e da tempo con l’attenzione che sempre meritano le novità – specie in un Paese dove le svolte politiche avvengono solo a parole -, il punto non è scegliere una barricata fra i due contendenti. Anche gli ultimi arrivati al Palazzo, hanno ormai imparato che alla gente poco interessa delle beghe da cortile. Meno che mai del chi interpreti la linea dura e pura nel conflitto fra le parti. O di quanto il movimento sia nel frattempo diventato partito, più tutte le fantasie per politologi che non hanno mai preso un autobus in vita loro, tanto gli fa orrore l’idea di condividere il sudore del popolo.

La gente vorrebbe, più semplicemente, cogliere nella nuova generazione di politici non di mestiere e spesso espressione della “società civile”, la diversità: che fanno e come si comportano quando tocca a loro, sull’onda del libero furore del popolo sovrano, entrare nella stanza dei bottoni. Ed è qui il punto di rottura fra il sindaco che lascia i Cinque Stelle e il capo che lo sbeffeggia: la differenza fra l’amministrazione e l’ideologia. Fra l’inceneritore che non si può incenerire perché costi e benefici per la comunità sarebbero insopportabili, e i vaffa. Fra la responsabilità dell’istituzione chiamata ad ascoltare anche le esigenze di chi non ti ha votato e la libertà della piazza di mandare a quel paese chi è accusato d’aver mandato in rovina il Paese.

Non c’è scontro, però, fra due “anime” grilline, perché Pizzarotti non rinuncia alla sua civica utopia, né Grillo pensa davvero che l’Italia si governi col cabaret. E’ invece la prova generale e di maturità che da Parma a Torino, passando soprattutto per Roma, ai grillini si richiede: di anteporre l’interesse dei loro amministrati agli ordini di scuderia di quattro gatti. Lo strappo è la fotografia di questo bivio inevitabile tra decisioni anche impopolari per il popolo grillino e litigiosa fragilità di governo così bene, cioè male, incarnata dal sindaco Raggi a Roma. Se non cambiano passo, a fare le battute non sarà più il Comico d’Italia, ma gli italiani sul Comico: “Polvere di Cinque Stelle”.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



I giovani cervelli italiani in fuga e il concerto stonato della politica

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Stefania Giannini

La brutta notizia è una buona notizia: anziché marcire in attesa di un lavoro degno che non arriva, e spesso di un lavoro purché sia, la generazione dei più giovani non se ne sta a guardare. Prende la valigia, che non è più quella di cartone dei nostri poveri, ma dignitosi nonni, e se ne va dall’Italia per far vedere al mondo quanto ha imparato in anni di grande, non di rado eccellente Scuola italiana. E’ ormai da primato la fuga dei cervelli, ma pure di ragazzi che s’impegnano con geniale perseveranza e decidono, quasi sempre col conforto delle loro famiglie, che non intendono più sottostare a un sistema marcio e irriconoscente verso chi vale.

Sono dati impietosi, quelli di “Migrantes”, eppur incoraggianti, perché testimoniano che tanti giovani reagiscono e non hanno paura di rischiare all’estero: dei centomila connazionali che l’anno scorso hanno lasciato il Paese, un terzo ha fra i 18 e i 34 anni d’età. E la metà di questi nuovi emigranti ha meno di cinquant’anni. Uno su due, perciò, se ne va negli anni più importanti per se stesso e per l’Italia.

Lo Stato e le famiglie hanno investito un fiume di denaro per istruire quel ragazzo che fugge, per dare a quella ragazza la marcia in più per farsi ovunque apprezzare. Li formiamo al meglio con enormi sacrifici e poi li costringiamo a volare via, come tante rondini che non faranno più primavera nella loro patria. E’ un delitto che ogni governo e ogni classe dirigente dovrebbero sentire sulla propria coscienza. Perché tutti giurano a turno che cambieranno musica.

Ma a vent’anni non si spreca il domani, aspettando il concerto della politica che non comincia mai. E così buttiamo al vento il futuro dell’Italia, perché in esilio vanno i più bravi e intraprendenti. Lo erano, spesso, anche quei milioni di italiani che da ogni parte e sempre dal Veneto – allora come oggi -, andavano nelle Americhe, in Australia e ovunque fra Ottocento e Novecento. Erano bravi, gli esuli della sofferenza. Erano umili, gli emigranti con studi elementari, talvolta nemmeno, ma determinati. Portavano nel sangue la cultura del lavoro. Portavano nel cuore l’amore della famiglia. Ora quell’addio pieno di nostalgia è diventato un arrivederci senza rimpianti. Se ne vanno delusi e soli.

Oggi non si va più via per sempre: prima o poi i nostri figli rivedranno e alcuni persino torneranno in questa Italia così bella e così mal sistemata, che ha fatto a meno di loro negli anni in cui loro più potevano e volevano fare per Lei.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa succederà nel Pd di Renzi dopo la riunione della direzione

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PORTA A PORTA

Non era ancora successo che il destino di un referendum, il più importante dei tanti finora promossi, fosse così legato al destino di un partito, che è stato il più votato alle ultime politiche ed europee. In più, come in una matrioska dove ogni pezzo che si scopre ne contiene un altro, il referendum e il partito sono a loro volta appesi alla sorte del segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E perciò sono vincolati anche al governo e alla durata della legislatura, un pezzo dopo l’altro.

Ma intervenendo ieri a una direzione del partito annunciata, non a torto, da “resa dei conti”, Renzi ha alzato la posta nei confronti della minoranza interna, che da mesi lo tormenta e si tormenta. Da una parte ha confermato che lui è pronto a cambiare la legge elettorale, dall’altra ha avvertito i suoi avversari che il Paese viene prima del Partito: “La riforma costituzionale non è un giocattolino, non ci fermeremo”.

Siamo al punto del non ritorno? Chissà, anche se in politica gli scontri più accesi, e questo nel Pd è ormai bollente, trovano sempre una “ricomposizione”, come adorano chiamarla quelli che se le suonano e se le cantano, ma poi restano tutti nel coro, magari solo per il piacere di stonare. Tuttavia, al di là dei toni e delle forzature, i contendenti dovrebbero rendersi conto che nessuna delle cinque cose in ballo – referendum, Pd, Renzi, governo e legislatura – dovrebbe essere affrontata alla stregua di un giudizio di Dio: si va soltanto verso il più modesto e tranquillo giudizio del popolo sovrano. Non ci sarà, perciò, alcun diluvio universale dopo il 4 dicembre, vinca il sì oppure vinca il no. E il Pd non finirà in alcuna arca di Noè. Dovrà, più mestamente, continuare a confrontarsi con altre forze politiche nel mare della democrazia italiana, imperfetta, ma insuperabile.

Lo stesso Renzi, poi, sarà leader finché avrà il consenso politico nel Pd e quello degli italiani al voto, quando sarà: nessuna scorciatoia, neppure referendaria o con un Italicum addolcito, potrà cambiare la realtà delle cose, che è molto meno agitata di quanto possa apparire. “Un accordo vero”, hanno chiesto i dissidenti al loro mai amato segretario, lasciando intendere che si è a un passo dalla rottura. E lui, più che tendere la mano ai vari Bersani, Cuperlo e Speranza orientati al “no” al referendum, sembra averli messi con le spalle al muro. La partita nel partito è durissima. Ma, comunque finirà, non dovrà e non potrà in alcun modo trascinare l’Italia.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sitowww.federicoguiglia.com)


Tutti gli effetti bislacchi della Brexit

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Theresa May, Brexit

In principio era la Brexit, l’addio della Gran Bretagna all’Unione europea senza tanti rimpianti (ma anche senza alcuna fretta, secondo i comodi loro). Poi arrivò l’idea di Amber Rudd, battagliera ministro dell’Interno, di proporre alle aziende del suo Paese la compilazione di liste dei lavoratori stranieri, giusto per favorire l’occupazione dei britannici per primi. E fu subito dietrofront sull’onda della bufera scatenata. Adesso s’è però scoperto che liste, effettivamente, già si facevano, ma di altra natura e destinazione: per iscrivere gli alunni italiani all’anno scolastico da poco cominciato. Questionario birichino, dunque, in Galles e in Inghilterra per capire quanto inglese c’era bisogno d’insegnare agli studenti. “Siete italiani oppure napoletani oppure siciliani?”, domandavano premurosi. E solo la reazione della nostra ambasciata a Londra ha prodotto la risposta del governo di Sua Maestà, che ha chiesto scusa e forse giurato, come i bambini sorpresi con le mani nella marmellata, che non lo faranno più.

Ma buttarla sulla xenofobia in una nazione che ospita, soprattutto nella capitale, mezzo milione di italiani, ossia la nostra più grande comunità all’estero a due ore di volo da casa, significa ingigantire un episodio probabilmente frutto solo di burocratica ignoranza. Pazienza se lassù ancora non lo sanno, nonostante abbiano all’epoca, metà dell’Ottocento, accolto l’esule Mazzini che apriva pure la prima scuola di italiano in Gran Bretagna: da almeno un secolo e mezzo l’Italia non è più un’espressione geografica. E non diciamolo ai sardi, a loro volta etichettati a parte in questa schedatura del solo profondo Sud che potrebbe far sorridere, e che invece fa arrabbiare. Perché nel suo piccolo è il brutto indice che l’amata terra della libertà e dell’opportunità per molte generazioni di italiani e di stranieri sta cambiando rotta. Dopo la porta in faccia sbattuta a un’Europa che pur aveva dato ai britannici più di quanto essi avessero restituito, è come se una certa pudicizia e una certa prudenza fossero venute meno di colpo: adesso che il tappo della Brexit è saltato, tana libera tutti.
A costo di rischiare il boomerang di una sterlina mai tanto debole, perché a forza di sognare liste e agitare fantasmi, poi i fantasmi si prendono la rivincita e magari non investono più oltre la Manica.
Non tutte le strade del populismo portano o partono da Londra. Ma quella della Brexit, attenzione, è già spalancata.

 

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sitowww.federicoguiglia.com)


Ecco chi e come traccheggia sui nomi italiani in Alto Adige

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MATTEO RENZI

L’Università dà lezioni alla Politica. Forse c’è ancora un futuro per i nomi italiani della toponomastica bilingue italiano-tedesco dell’Alto Adige che si vorrebbero eliminare. Il possibile ripensamento è frutto dell’”Appello dei 48”, com’è stata ribattezza la ferma e documentata presa di posizione del mondo accademico italiano e tedesco, dall’intera Accademia della Crusca alla presidenza dell’Associazione internazionale dei docenti di lingua tedesca. Italianisti e germanisti dei due Paesi, e tutti di grande peso, si sono dati la mano per esortare le Istituzioni, da Sergio Mattarella in giù, a intervenire subito contro il tentativo in corso per far sparire in silenzio lo straordinario patrimonio storico e linguistico che l’Italia ha coltivato per decenni nella terra plurilingue dell’Alto Adige.

La forza tranquilla dei professori italiani e tedeschi che hanno alzato la voce in difesa del diritto e della cultura messi così brutalmente a repentaglio in Alto Adige, sta provocando imbarazzi e nuove riflessioni nei Palazzi ministeriali. Dove erano tutti convinti d’aver già portato a casa nella cosiddetta “Commissione paritetica Stato/Provincia dei Sei”, un “compromesso accettabile” con la Svp, il partito che esige l’estirpazione. All’insegna di una sorta di “ghigliottina intelligente”: niente taglio di nomi importanti come Bolzano o Merano, per carità, ma “solo” di toponimi periferici, vette e sentieri lontani. Una strategia innocua soltanto all’apparenza.

Di fatto verrebbe sradicato il sessanta per cento dei nomi italiani esistenti da cent’anni, cioè migliaia di toponimi, nonostante essi siano protetti dalla Costituzione e dall’obbligo del bilinguismo sancito da leggi e sentenze costituzionali. Sul come aggirare l’ostacolo – ossia sorvolare sul fatto che l’italiano è la lingua ufficiale dello Stato -, la Commissione dei Sei è incerta. Indicare oppure no i criteri coi quali consentire una pulizia linguistica dal volto umano, ossia su toponimi all’apparenza minori? Ma cancellare anche un solo nome italiano – e qui sarebbero migliaia -, violerebbe la Costituzione. Perciò si pensa di lasciare l’ingrato compito a un’inventata commissione di studiosi nominata dalla Provincia, cioè dalla Svp, nella quale, va da sé, i prof di lingua italiana sarebbero condizionati da quelli di lingua tedesca nelle scelte dei nomi italiani. Seconda ipotesi al lavoro: allegare a titolo di esempio un elenco già fatto (detto “elenco A”) di nomi sradicabili indicati da un’intesa “faccia a faccia”, ma priva di qualsiasi fondamento costituzionale, fra gli allora ministro Raffaele Fitto e presidente della Giunta altoatesina Luis Durnwalder.

Oppure portare a esempio il molto peggiorativo “elenco B”, fatto successivamente col ministro Graziano Delrio e che ignora, anch’esso, gli stessi principi dello Statuto altoatesino. Secondo il quale, è bene ricordarlo sempre, la Provincia di Bolzano può dare ufficialità e “accertare la dizione” dei toponimi tedeschi o ladini, non già arrogarsi il diritto di eliminare i toponimi italiani esistenti e in vigore da quasi cent’anni. Tutto fatto, dunque? Non più. Ora che l’”Appello dei 48” è finito sul tavolo del Quirinale e in tutti i dicasteri che contano (Esteri per l’Accordo bilingue De Gasperi-Gruber del 1946, Beni Culturali perché il toponimo è anche un bene culturale, Interno, Difesa e Regioni, da cui la Commissione dei Sei dipende), nel Palazzo s’è capito che bisogna avere molta accortezza. Anche perché alla Corte Costituzionale ancora pende (dal 2012) un giudizio di legittimità su una precedente legge altoatesina che faceva a pezzi i nomi italiani. Governo e Provincia di Bolzano continuano a implorare i giudici di rinviare la loro sicura bocciatura. Ma pure alla Corte hanno ormai capito che la richiesta non è innocente.

Si vuole solo guadagnare tempo per consentire alla Commissione dei Sei di approvare la citata norma d’attuazione all’esame, e che sarà di valenza costituzionale. Di fatto agirebbe al posto della Corte Costituzionale! E a quel punto sarà addio per sempre ai nomi italiani. O meglio, sarebbe stato: perché l’inatteso “Appello dei 48” ha suonato un forte campanello d’allarme.

Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Perché è folle cancellare i nomi italiani in Alto Adige. Parla la prof. Arcamone

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MATTEO RENZI

Ma le sembra normale che a fronte dell’impegno per difendere e valorizzare la lingua italiana nel mondo preso dal governo proprio in queste ore nella mia Firenze, lo stesso governo consenta l’eliminazione e l’umiliazione della lingua italiana in casa? Si può essere lungimiranti nell’universo e miopi in Alto Adige?”. La professoressa Maria Giovanna Arcamone, già docente ordinario di Filologia germanica a Pisa e presidente dell’Icos (acronimo inglese per Congresso internazionale di Scienze onomastiche), è oggi la coordinatrice dell’ “Appello dei 48“. Si tratta della lettera aperta che il mondo accademico italiano e tedesco ha inviato alle massime istituzioni per sollecitarle a intervenire contro il tentativo politico della Svp di sradicare gran parte dei nomi italiani esistenti da un secolo nella plurilingue provincia di Bolzano. “Noi non siamo politici, non ci siamo rivolti a questo o a quel partito”, sottolinea la professoressa con orgoglio. “Siamo solo studiosi e buoni conoscitori della scienza toponomastica. Ci siamo mossi per un atto di elementare e civica sensibilità, per chi ha fatto della cultura e del diritto la ragione stessa della sua vita, e non solo della sua professione: impedire che in barba alla Costituzione e all’obbligo del bilinguismo italiano-tedesco in Alto Adige, si possa cancellare il diritto che un cittadino italiano o del mondo possa continuare a pronunciare e indicare in italiano -come ha fatto per cent’anni- nomi di luogo bilingui”.

Come avete convinto il mondo accademico tedesco ad aderire?

Sa la verità? I più meravigliati erano loro. Ma sei sicura che hai capito bene, mi dicevano i professori Kremer, Hepp, Bremer o Kolheim? Sei sicura che l’Italia voglia rinunciare a una parte del proprio patrimonio storico-linguistico? “Das ist nicht möglich”, non è possibile, commentavano increduli. E’ così che ho capito che dovevamo agire e agire insieme: il buonsenso non ha confini. L’appello nasce dalla dolorosa meraviglia che l’impensabile possa invece accadere.

Che cosa chiedete al Quirinale e al governo?

Che si facciano valere subito i principi della civiltà del bilinguismo paritario e inderogabile presso la Commissione Stato-Provincia detta dei Sei, dove invece si vorrebbe con norma d’attuazione costituzionale indicare i criteri e pare persino allegare liste di esempi di già ipotizzata proscrizione. Migliaia di nomi italiani sono a rischio! E chiediamo che la Corte Costituzionale si pronunci al più presto sul ricorso che riguarda proprio la toponomastica in Alto Adige”.
Obiezione dei tagliatori di nomi: nessuno toccherà i grandi toponimi, spariranno solo nomi minori o di periferia.
“Obiezione ridicola. Nessuno può giuridicamente toccare la dizione italiana in vigore da cent’anni. Lo Statuto altoatesino prevede tale facoltà solo per i nomi tedeschi e ladini. Semmai possono legiferare per la nuova toponomastica, quella sorta in tempi recenti, ma sempre “fermo restando l’obbligo della bilinguità”. I principi costituzionali non sono carta straccia. E ancor più grave sarebbe accanirsi su nomi minori o lontani.

(Intervista pubblicata su Il Messaggero e tratta dal sito www.federicoguiglia.com)


Tutte le tristi polemichette su Obama pro Renzi

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Già era successo. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, era volato l’anno scorso a New York per assistere alla finale di tennis tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci. E i suoi avversari subito protestarono: eccolo lì, si fa bello a nostre spalle e spese. Incuranti di una circostanza unica e di cui essere fieri: nell’intera storia di quello sport, mai era capitato che due italiane si giocassero la vittoria in uno dei (quattro) massimi tornei internazionali.

Figurarsi, perciò, che cosa potranno ora dire dopo che, dal giardino della Casa Bianca, nientemeno, il presidente Barack Obama ha elogiato la riforma costituzionale per la quale Renzi tutto si gioca – altro che tennis -, il prossimo 4 dicembre. Di più, l’amico americano ha detto chiaro e tondo “sì al referendum”. S’arrabbieranno in molti, dunque, ma tutti sorvolando, di nuovo, sul fatto principale dell’evento: l’ultima cena ufficiale del presidente che guida la più grande potenza dell’universo, è stata riservata all’Italia. Che per l’occasione era rappresentata anche da una piccola squadra dell’eccellenza, tra cui Armani a Fabiola Gianotti, Benigni e Sorrentino.

Diciamo la verità: c’è qualche elettore che voterà “sì” perché gliel’ha suggerito Obama? Il presidente americano, oltretutto, fa parte dello stesso fronte politico e “democratico” di Renzi: sarebbe stato sorprendente il contrario. Soprattutto se si pensa che già l’ambasciatore degli Usa in Italia s’era – lui sì – indebitamente espresso a favore della riforma. Siamo, tuttavia, maturi e grandicelli abbastanza non solo per capire che Renzi potrà di sicuro gongolare per il sostegno trasparente e dichiarato di Obama oltre ogni protocollo, ma anche che il verdetto lo deciderà soltanto il sovrano e tranquillo popolo italiano.

Ecco perché, essendo del tutto ininfluente l’”aiutino” d’Oltreoceano, bisognerebbe invece imparare a cogliere non già il riconoscimento al Renzi di turno, ma all’Italia di sempre e di tutti.

Lo stesso pregiudizio a parti invertite gli avversari avevano riversato contro Silvio Berlusconi, quando fu tra i pochissimi presidenti di un altro Stato a parlare al Congresso nella storia americana. “Eccolo lì, il favore dell’amico Bush”, subito s’infuriò chi non voleva vedere la luna, cioè il privilegio riservato al nostro Paese, ma il ditino del Cavaliere che la indicava. Saper distinguere: l’Italia vale ben più di chi a turno rappresenta la nazione, e di chi a turno polemizza per fazione.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Gli stipendi dei parlamentari e il regalo a Beppe Grillo

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I deputati sbaglierebbero a non considerare il taglio dei loro stipendi una priorità per gli italiani. E, a giudicare da come alla Camera è stato accolto il testo dei Cinque Stelle per dimezzare gli onorevoli stipendi, stanno proprio sbagliando: centinaia di emendamenti già presentati, nessun relatore del provvedimento ormai in aula e tante belle parole “di principio”, cioè quasi tutti d’accordo sull’idea che una sforbiciata andrebbe data, salvo poi ognuno dissentire sul come, sul quando e persino sul quanto.

Renzi, per dire, vorrebbe agganciare i soldi alle presenze dei singoli ai lavori parlamentari. Ma a forza di cavillare (già si prevede l’immediato ritorno della proposta in commissione Affari Costituzionali per un “vizio di forma”: figurarsi…), il rischio è che alla fine non se ne farà niente. Sarebbe un bel regalo al movimento di Grillo, che potrà ricordare non soltanto d’aver compiuto l’ottavo e vano tentativo della legislatura per ridurre i compensi, ma pure d’averli da tempo tagliati ai propri legislatori. E’ la madre di tutte le loro battaglie, si sa, e non per caso Grillo s’annuncia a Roma con insolite parole d’amore per il Pd, “se votate con noi, vi abbraccerò”.

Ma questa vicenda rispecchia bene una delle ragioni più acute e facili da comunicare dell’indignazione di tanti cittadini per i “privilegi della casta”: lavorano poco e guadagnano tanto, ripete la gente, confrontando l’attività dei parlamentari con quanto lavorano gli italiani – o vorrebbero poter lavorare – e quanto poco resta nelle loro tasche dopo la tassazione più alta praticata in Europa.

Il taglia-stipendi è forse la bacchetta magica per abbassare il terzo debito pubblico più elevato al mondo, il debito del nostro Stato? Ovviamente no. Ma è un segnale fortissimo, e i simboli contano. L’ipotizzato risparmio di 87 milioni di euro dopo una forte riduzione alle indennità e alle spese sarebbe solo una goccia nel mare della dissipazione. Tuttavia, diventerebbe l’esempio che la classe dirigente dà alla nazione: abbiamo invertito la rotta. Abbiamo compreso che gli enormi sacrifici a cui da tempo siete stati costretti, ora devono essere anche i nostri sacrifici. Insieme ce la faremo.

Ecco, se così dicessero e agissero, ne guadagnerebbe la credibilità della politica. E poi nessuno vuole affamare i rappresentanti del popolo sovrano: solo che stringano un po’ la cinghia. I tempi sono cambiati. Anche la legge del rigore dev’essere uguale per tutti.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Vi racconto le botte da Orban fra Ungheria e Italia

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viktor orban

Mancavano solo le “botte da Orban”, come viene da chiamare l’inedito scontro nell’Unione europea fra il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, appunto, politico aduso alle parole e maniere forti, e il nostro Matteo Renzi, che certo non se le manda a dire, e ama a sua volta il pan per focaccia. Forse non potendosi più sfidare a duello come nell’Ottocento, i rappresentanti dei due Paesi lo fanno a colpi di veto minacciato il giorno delle grandi decisioni a Bruxelles. Il contrasto riguarda l’emergenza che coinvolge e divide le popolazioni europee: che fare con l’immigrazione incessante, inarrestabile, insidiosa.

Orban, si sa, sta dalla parte della paura. Rappresenta al meglio il peggio di quella fetta non piccola di opinione pubblica e di governi che vedono il migrante come un pericolo e basta. Che passano le giornate a immaginare in che modo confinarli ai propri confini. Che indicono referendum pur di solleticare la gente, già esasperata per l’incapacità dell’Unione di gestire il fenomeno, a cavalcare la tigre.

L’Italia, al contrario, è percepita come il Paese-simbolo della tesi opposta, e Renzi non perde occasione per sottolinearlo: bisogna organizzarsi per aiutare i rifugiati veri che fuggono dall’inferno di guerre e persecuzioni e per rendere possibile con rigore e umanità l’integrazione dei migranti fra le ventisette nazioni (dopo Brexit). In pratica, però, questa linea frutto dell’umanesimo italiano e dei richiami del Papa che non ci lasciano insensibili, ha fatto dell’Italia, e non solo di Lampedusa, un’isola. Continuiamo solo o soprattutto noi a prenderci carico del dolore del mondo, mentre il resto del Continente fa spallucce o, peggio, alza muri.

Renzi è al bivio: deve pretendere dai suoi indifferenti interlocutori non la solidarietà, che gli italiani sanno fare benissimo da soli, ma la condivisione del problema. Altrimenti a che serve l’Unione? Da ciò il ventilato veto sul bilancio europeo. A sua volta Orban e non soltanto lui scambiano l’approccio italiano per una politica-colabrodo (non sempre a torto). L’ungherese vuole più soldi sul tema e preannuncia il veto sull’ipotesi di quote di immigranti obbligatorie per tutti i Paesi. La guerra non dei voti, ma dei veti è l’emblema di un continente alla deriva come i suoi stessi immigrati. Ma se Roma e Budapest sono ai materassi, la colpa è di Bruxelles che sui materassi continua a dormire, mentre molti arrivano, molti accolgono e molti hanno paura tra orgoglio e pregiudizio.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa sta succedendo davvero a Mosul

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Mosul-ISIS-2

Sconvolti dalle devastazioni di un terremoto che si è sentito in tutta Italia – e perciò ancor meglio ciascuno di noi ha potuto cogliere la disperazione delle popolazioni colpite -, e con lo sguardo rivolto, al massimo, alle lontane elezioni in America pur in arrivo, rischiamo di sottovalutare un’importante notizia “sul campo”: Mosul, la città principale a Nord dell’Iraq nelle mani dell’autoproclamatosi Stato islamico da due anni, starebbe per essere riconquistata e liberata.

“Arrendetevi o morirete”, è l’ultimatum che ha lanciato il premier iracheno Haidar al Abadi all’Isis. Traballa, dunque, la roccaforte dei terroristi e del suo Califfo, a conferma di una sconfitta via militare che sta riducendo, di giorno in giorno e di settimana in settimana, il territorio da loro controllato e il potere criminale da loro esercitato. Ma, a parte che la vittoria sul terreno non è ancora completa e rischia, specie in queste ore da battaglia finale, di travolgere anche un gran numero di civili incolpevoli e inermi, ma “imprigionati” nelle loro stesse case dagli jihadisti resistenti e pronti a qualunque infamia nell’ultima difesa, guai a cantare vittoria. E’ vero, certo, che la ripresa del territorio su cui s’era insediato questa oligarchia del male era la premessa necessaria per estirparla. Ma troppe e recenti stragi, non solo in Europa, invitano a non illudersi, né ad abbassare il dovere istituzionale della tranquilla, ma puntuale sorveglianza. La bestia ferita può essere capace di reazioni della stessa inaudita violenza, ma ancor più inaspettate rispetto a quand’era in salute e, baldanzosa, proclamava in anticipo i suoi delitti, o li rivendicava subito dopo.

Troppo odio è stato ovunque seminato per poter sognare che con la presa di Mosul, più tutto ciò che ne conseguirà, la nuova barbarie del nostro tempo sia stata debellata. Troppi fanatici si sono abbeverati alla disumanità dell’Isis per immaginare che, deposto il Califfo, essi torneranno alla convivenza del vivere civile. Troppo intensa è la sete di vendetta che è stata diffusa contro il mondo libero e occidentale per pensare che le armi avranno la meglio anche sul pensiero folle e radicalmente fondato sul pregiudizio. L’esperienza delle cosiddette cellule dormienti, l’orrore che in Francia – il simbolo europeo più insanguinato, non però l’unico – hanno provocato singoli esaltati, ammoniscono: lo scontro va ben oltre la “riconquista”. Mosul non è la fine, è l’inizio di una liberazione che sarà ancora lunga e tormentata.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Vi racconto uno storia ordinaria di ingiustizia fiscale

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Federico Guiglia

Dopo sei anni, il giudice gli ha dato ragione: quella cartella da settecentomila euro che Equitalia gli aveva notificato, è stata annullata. Ma sei anni per un imprenditore alla ricerca della giustizia perduta, sono l’equivalente del corso di laurea in medicina, che si comincia da ragazzi e si finisce da uomini e da donne. E, nel frattempo, Fabio Bressanelli, che uomo lo era diventato da tempo nel campo dei servizi informatici, ha perso i clienti che aveva. Ha dovuto lasciare a casa dipendenti. Nel frattempo le sue notti non erano piene di sogni, come quelle di chi intraprende, bensì di incubi: ma i miei familiari, i miei amici, mi crederanno nell’attesa che un tribunale accerti -forse, e chissà come, e chissà quando – i fatti contestati?

Sei anni di odissea nella vita di un imprenditore che non è Rockefeller, né vive nell’anonima metropoli che non ti giudica, perché neppure ti conosce, sono un’eternità. E lo sono per i molti casi simili in tutta Italia: imprenditori, artigiani, lavoratori in proprio costretti ad affrontare procedure da quinto mondo, ma pagando avvocati del primo, per far valere le proprie ragioni. Poi le ragioni arrivano, perché c’è sempre un giudice a Berlino, come si sa. Ma arrivano al passo della tartaruga nell’era supersonica di internet.

E allora queste tragiche vicende (“tragiche”, certo: c’è pure chi non resiste e si uccide per disperazione, come tanta cronaca ricorda), impongono alcune considerazioni. E’ davvero “equo”, a proposito dell’appena defunta Equitalia, ingaggiare una lotta impari fra lo Stato e il suddito, non potendosi chiamare cittadino chi deve attendere sei anni per vedersi annullare una cartella? E’ chiedere molto, a chi decide la politica fiscale e previdenziale del nostro Paese, di trovare un sistema rigoroso e giusto, implacabile con gli evasori, ma consentendo a chiunque di difendersi subito e bene nelle cause? E’ consentito esigere tolleranza zero per i furbetti del quartierino, ma anche la civiltà di un confronto rapido e definitivo con chi si proclama, e spesso è, innocente? E poi: mentre si consuma il braccio di ferro fra Stato e persona “notificata”, perché non salvaguardare almeno la sua azienda, specie se impiega -qualunque sarà l’esito della controversia-, del tutto incolpevoli lavoratori? L’Agenzia delle Entrate-Riscossioni, nata dalle ceneri di Equitalia, colga il dovere della svolta: impietosi con chi non paga le tasse, ma rispettosi sempre dei cittadini.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Storia di Garibaldi, l’amore più grande fra l’Italia e l’Uruguay

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Garibaldi Ministerio

Es un honor para mi hablar de Garibaldi en el Anfiteatro del Ministerio de Relaciones Exteriores, el puente entre Montevideo y Roma. Quiero agradecer a la Dirección General para Asuntos Culturales y al Instituto Artigas de la Academia Diplomática por la invitación que no es una invitación personal. Es una invitación a una idea de patria y de libertad, de integridad y de humanidad, de alegría y amor que nace entre “Sabremos cumplir” y “Fratelli d’Italia”, entre el tango de Gardel y la ópera de Verdi, entre la Celeste de Suárez y los Azzurri de Buffon, entre chivitos y spaghetti, mate y cappuccino, dulce de leche y nutella, Punta del Este y Capri, Dante y Cervantes, entre la garra, que es la palabra más uruguaya del mundo, y el corazón, il cuore, que es la palabra más italiana del mundo.

Yo nací dos veces, tuve ese privilegio y esa suerte, pues nací y viví en Montevideo hasta mis trece años -como los trece años del exilio de Garibaldi en América latina- y seguí naciendo y viviendo hasta hoy en Italia. Mi madre es uruguaya, mi padre era italiano. Mis dos hijos son italianos, pero ya les saqué la documentación de ciudadanos uruguayos nacidos en el exterior: me gustaría que también ellos nacieran y crecieran dos veces.

El libro que acabo de escribir, “Garibaldi el libertador, vita e leggenda di un italiano che ha fatto la storia: i suoi sette anni in Uruguay (1841-1848)”, es un cuento de historia, pero es también un canto de mi alma uruguaya y de mi corazón italiano, de mis viajes con la cabeza y con el avión de Roma a Montevideo, el puente más largo y más bello sobre el Océano. Yo no les voy a decir una sola palabra del libro, y no sólo porque deseo reservar la sorpresa para el domingo que viene en el Latu, “a la cinco de la tarde”, decía el Poeta. Y ya están todos invitados. Yo les voy a contar el viaje de mi libro, que también nació y vivió dos veces: está escrito en italiano, y ojalá salga pronto en castellano, pero el que lo lee no se va a dar cuenta si lo escribió un italiano o un uruguayo. La geografía es mentirosa: el Río de la Plata no termina en el Atlántico, termina en el Mediterráneo.

En los años Cuarenta del Ochocientos, es decir los años de nuestros bisabuelos, la historia de Italia cumplía 2.000 años de acontecimientos, la lengua de Italia 900 años de palabras tan musicales que nunca se entiende, de aquel entonces, si un italiano está hablando o cantando, y el arte de Italia festejaba más de 300 años de belleza universal. Italia ya tenía a César, a Dante Alighieri y a Miguel Ángel (Cesare, Dante e Michelangelo) en su memoria, pero aún no tenía un Estado libre y unido. Con su historia de Roma antigua y del Renacimiento, Italia tenía una patria en el mundo, pero le faltaba una patria en su misma patria.

Giuseppe José Garibaldi fue, entonces, el primer diplómatico, el primer embajador de grandes ideales en aquellos tiempos huérfanos de libertad y de igualdad, pues entendió junto con otros, pero antes y mejor que otros, la importancia del futuro de la memoria. César, Dante y Miguel Ángel, padres sin patria, merecían que sus hijos realizaran el sueño que faltaba, decirle al mundo que Italia no era sólo Coliseo, Divina Comedia y Capilla Sixtina: era un país de ciudadanos que querían vivir felices sin obedecer a leyes y costumbres de un Reino extranjero y austríaco en el norte, que sabía bailar el vals y organizar la administración pública, pero que oprimía, fusilaba y ahorcaba a los italianos que querían vivir como italianos, finalmente. Y sin más obedecer al Reino del mal gobierno de los Borbones en el sur. Corrupción y bandidaje, como bien sabía y relata Alexandre Dumas en sus obras.“La patria en tinieblas”, diría Pablo Neruda, que a su tierra chilena dedicó versos inolvidables y universales: “De aquellas tierras, de aquel barro, de aquel silencio, he salido yo a andar, a cantar por el mundo”.

El primer acto de su canto diplomático Garibaldi no lo hace tratando con los enemigos austríacos, sino sacudiendo a los amigos italianos, diciéndoles que hay que pelear para echar al verdugo de tu casa, pues la verdadera libertad no se pide al que ya te la sacó: se conquista. Dicho con otras y más conocidas palabras: “Con libertad ni ofendo ni temo”.

La liberación nacional es un tratado de fuerza y de corazón entre dos partes, en nuestro caso Garibaldi y los italianos, que no desean ponerse de acuerdo con nadie. Porque ya están de acuerdo entre ellos que hay principios que no se pueden negociar. Hay que vencer, simplemente, y esto puede valer hasta el sacrificio de la vida tuya y de tus queridos. En algunos momentos de la historia la diplomacia es sacrificio. Hoy en día pasa con los pueblos sin paz como en el Ochocientos pasaba con los pueblos sin patria. Patria y paz son hermanas gemelas a veces separadas de la cuna: Garibaldi fue el padre que quizo buscarlas y unirlas para siempre.

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Pero como sucede con los personajes que miran tan lejos que sus contemporáneos no los entienden, la monarquía italiana había condenado Garibaldi a muerte. El hombre era un marinero inteligente y generoso, hijo de una familia de clase media de la Liguria. Estaba acostumbrado desde muchacho a navegar con su padre entre olas y polémicas. En público el joven Garibaldi hablaba mal del rey de Sardinia y del Piamonte Carlo Alberto (Italia todavía no existía como Estado libre y unido). Y sobretodo –por eso lo condenaron- participaba a conspiraciones a favor de dos cosas que para él eran una sola: la República en lugar de la Monarquía, e Italia en lugar de Austria, que se había comido el norte del país.

La República italiana en realidad nace el 2 de junio de 1946. Eso quiere decir que Garibaldi tenía razón un siglo antes. Pero cuidado con la fuerza del destino. Garibaldi, nacido en Niza hoy Francia el 4 de julio de 1807, se muere en 1882 justo el 2 de junio, día del nacimiento, 64 años después, de la República italiana.

Sus contemporáneos no lo entendieron y tuvo que escaparse de su amada y no todavía realizada Italia institucional. Pero acabamos de descubrir otra característica de aquel diplomático que no sabía ser diplomático ni siquiera con su mismo rey, burlándose de él en público: la capacidad de imaginar y construir el futuro en el presente. Diplomacia es también intuición y perseverancia de caminar para adelante sin volver la vista atrás, para no ver la senda que nunca se ha de volver a pisar, como canta Joan Manuel Serrat. En uno de sus libros más importantes, Galeano nos ayuda a entrar en el futuro con la siguiente escultura de imágenes que dice lo mismo de Serrat, aunque parezca que no: “La historia es un profeta con la mirada vuelta hacia atrás: por lo que fue, y contra lo que fue, anuncia lo que será”.

El profeta Garibaldi deja su patria en 1835 y viaja hacia las venas abiertas de América latina. Latina: lo dice la misma palabra que estamos hablando de un continente que con Italia y con los italianos Américo Vespucio y Cristóbal Colón tiene algo que ver. El idioma español y el idioma portugués siempre de la lengua de César y Virgilio, como el italiano, son frutos jugosos. El latín fue la uva de nuestros vinos de palabras.

Garibaldi no llega, entonces, como extranjero en Brasil, Rio de Janeiro, en un barco francés y con falsa identidad -Giuseppe Pane- para esconderse de la policía italiana que lo está increíblemente buscando y persiguiendo como “enemigo de la patria”. Enemigo de la patria él, Garibaldi, el más patriota de los italianos. A veces de la historia no hay que preguntarse mucho: hay que reírse un poco.

En Brasil la colectividad de sus compatriotas es fuerte y muchos de ellos persiguen los ideales republicanos de otro italiano importante, Mazzini, también de nombre Giuseppe.

Si cada nación de hecho podría reducirse a la historia de un hombre, como Borges decía de Italia indicando a Dante, para Garibaldi la historia de Brasil se resume en una mujer: Anita. Desde la goleta anclada en el puerto de Laguna, Garibaldi mira la colina y entre tantas “casas pintorescas” ve una mujer, jovencísima. Era la vista más hermosa que jamás hubiesen capturados sus prismáticos. “Tu tienes que ser mía”, tu devi essere mia, le dice en italiano, yendo a buscarla enseguida. Garibaldi escribirá en sus Memorias: “Yo fui magnético en mi insolencia. ¡Había estrechado un nudo, dictado una sentencia que sólo la muerte podía romper!”.

En Brasil Garibaldi lucha con los insurgentes de Río Grande del Sur, gente rica y autonomista. La revolución de los “farrapos”, de los miserables como los llaman con desprecio los enemigos del Imperio central. Pero la revolución más victoriosa de su vida brasileña es conocer a Ana María de Jesús Ribeiro da Silva, Anita para siempre.

Por muchas razones, tal vez la principal, es que en la vida y no sólo en las batallas hay veces que uno desea cambiar todo y de golpe por el gusto y la apuesta de cambiar, Garibaldi decide de irse otra vez. Es un soñador a la búsqueda de un nuevo horizonte.

Deja el Brasil para encontrar las estrellas del cielo uruguayo, el cielo blanco y celeste como la bandera. Llega a Montevideo después de una marcha infernal con la novia Anita, el recién nacido Menotti y cabezas de un ganado cansado y robado día tras día por los mercenarios que los acompañaban. Cincuenta días de tiempo horrible para ese caminante que no hay camino. La familia entra por primera vez a Montevideo el 17 de junio de 1841. Garibaldi tiene 35 años. Se quedará hasta el 15 de abril de 1848. Siete años de vida y de leyenda.

Es la época de la Guerra Grande y de la lucha entre Blancos y Colorados. Hoy en día no tiene mucho sentido volver a pelearse sobre la decisión de Garibaldi de estar con Rivera y contra Oribe, defendiendo la capital en el período del largo y segundo sitio de Montevideo, entre 1843 y 1851.

La historia no se cambia: se cuenta solamente. Pero cuando pasan los años la historia se puede tratar de interpretar con los nuevos puntos de vista de las nuevas generaciones. Y entonces lo que queda indeleble de Garibaldi, 170 años depués, no es tanto su participación colorada en el conflicto con los blancos. Fue un historiador y ministro del Partido Nacional, Juan Pivel Devoto, el que quizo transformar la Casa de Garibaldi en Museo histórico nacional. Es la prueba que la inteligencia de hombres y mujeres siempre gana sobre el rencor de los ideólogos. Es la prueba que Garibaldi es un patrimonio que pertenece a todos los uruguayos, y no es solamente de todos los italianos.

Lo que queda grabado de esa historia tan lejana y tan cercana es que, si el tirano argentino Juan Manuel de Rosas estaba de una parte, Garibaldi el libertador estaba de la parte opuesta.

Queda grabado que en la épica batalla de San Antonio, en Salto, y justo estamos en los 170 años del evento que fue el 8 de febrero de 1846, el primero que arriesgaba su vida con la Legión Italiana y los uruguayos que lo seguían era Garibaldi.

Queda grabado que el anticlerical Garibaldi se casó con Anita en Montevideo en una iglesia que ya no existe más, la iglesia de San Francisco en la Ciudad Vieja. El viento se la llevó, quizás, para que nunca más la gente se olvidara de ese matrimonio del siglo.

Queda indeleble que el único italiano de la familia más italiana del mundo, la familia Garibaldi, era él, pues Anita y Menotti eran brasileros, y Rosita, Teresita y Ricciotti eran uruguayos, los tres nacidos en Montevideo y una de ellos, la pobre Rosita, se muere a los dos años y medio en Montevideo.

Queda indeleble que Garibaldi, el comandante de las Fuerzas Navales de la República, como recuerda el monumento en frente al puerto, vivía como todos los uruguayos: sin privilegios, pues su riqueza era “el honor de compartir el pan y el peligro con los hijos de esta tierra”, como escribió en una carta a Rivera, rechazando los campos y las casas que aquel ex presidente había ofrecido a Garibaldi y a la Legión Italiana como agradecimiento por el heroísmo tantas veces demostrado. El mismo regalo o muy parecido Rivera ya lo había hecho a la Legión Francesa, que lo había aceptado. Garibaldi no, Garibaldi contestó “no, grazie”.

Queda, entonces, grabado que las hazañas de Garibaldi, su manera de vivir como el último de los soldados y no como el primero de los generales, aunque de hecho y de derecho lo era, la camisa roja inventada en Uruguay y símbolo de la sangre de los italianos y uruguayos caídos por la libertad, “sus ojos azules y vivaces, la barba espesa pero no larga, y el pelo se muestra más claro que la barba”, según las crónicas de la época, Garibaldi, en una palabra, es el diplomático más moderno entre Italia y Uruguay. Es el diplomático de las cuatro erres de Italia: Roma antigua, Renacimiento, Resurgimiento, República. El valor de lo que hizo y que dejó como embajador sin tiempo en los siete años más intensos de su vida, su ejemplo honesto, el amor italiano y por Italia que Garibaldi difundió en el universo y hasta en el universo de su misma familia uruguaya y brasilera, su idea de pueblos y hombres libres para siempre -el primer esclavo liberado en América latina, “el negro Antonio”, como la historia lo recuerda, fue liberado por Garibaldi en su período brasileño-, todo eso, quiero decir, se concentró sobretodo en Montevideo desde el 1841 hasta 1848. En el río de la Plata el humanismo italiano conoce su nueva primavera.

El mensaje de Garibaldi, entonces, es la evocación italiana del mensaje uruguayo de Artigas: sólo las patillas del prócer y la barba de Giuseppe no tenían nada que ver. José y Giuseppe nunca se conocieron, y es una lástima, porque hubieran sido buenos compañeros. Fueron hombres libres los dos, líderes de pueblo y de carisma. Su ética fue el desinterés, su fuerza la defensa de principios, su destino el exilio: Artigas en Paraguay, Garibaldi en Uruguay, donde llegaba veinte años después del “adiós, pueblo mío” de Artigas. El hilo republicano que une José a Giuseppe, a pesar del tiempo distinto y distante de sus luchas, es la independencia. Tenían una visión, vivían con coraje, estaban dispuestos a pagar de persona el precio de sus ideales. “En el camino del honor, del cual jamás me he separado, me encontré delante de los derechos sagrados de mi patria que he defendido y defenderé hasta el último soplo de mi vida”. Lo dijo Artigas, parecen palabras de Garibaldi.

El 15 de abril de 1848 Giuseppe José Garibaldi se iba de Montevideo, desde aquel día considerando y llamando a Uruguay “mi segunda patria”. El héroe de los dos mundos volvía a Europa. Lo esperaba la liberación y la unidad de Italia, por las cuales combatió y que obtuvo, finalmente, el 17 de marzo de 1861. Y ahora ustedes me van a tener que perdonar estas últimas palabras que me van a salir con mucha emoción: culpa de mi alma uruguaya y de mi corazón italiano, mezcla más explosiva del Maracanazo. Pero tengo que decirlo.

El barco que llevaba Garibaldi de vuelta a su patria italiana después de trece años de destierro en América latina, izaba la bandera uruguaya. Y no se sabe si esa circunstancia fue el regalo más lindo que el Uruguay le dio a Garibaldi o que Garibaldi le dio al Uruguay.


Il doppio cognome è una cosa giusta

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Federico Guiglia

Che si tratti di una sentenza “storica”, come già si commenta con enfasi, è sicuro: per la prima volta la Corte Costituzionale ha deciso che anche il cognome materno può essere anagraficamente attribuito ai figli nati in un matrimonio, se i genitori intendono fare una scelta diversa rispetto all’automatismo che finora assegnava d’ufficio soltanto il cognome paterno. Ma per capire quanto rivoluzionaria potrà essere la novità introdotta dalla Consulta, che ha dichiarato incostituzionale e perciò cancellato la norma dell’automatica attribuzione, bisogna seguire il caso che era stato sollevato.

Il caso, in sostanza, di una coppia italo-brasiliana residente a Genova che aveva richiesto di registrare la nascita del proprio bambino col doppio cognome. Niente di clamoroso, in tutta l’America latina così si fa da decenni: nome del figlio seguito dal cognome paterno e poi da quello materno. Gabriel García Márquez, per intenderci, era figlio di papà García e di mamma Márquez. Se invece fosse nato in Italia, l’autore di “Cent’anni di solitudine” si sarebbe chiamato Gabriel García solamente. Ecco, la coppia italo-brasiliana chiedeva di poter seguire l’usanza sudamericana per il proprio figlio anche qui da noi.

Ma nel nostro Paese, e non l’unico nell’universo, per la verità, prevaleva da sempre una tradizione diversa, da “Autunno del Patriarca”, per citare ancora quel grande scrittore. Patriarcale era la concezione che trasmetteva, di generazione in generazione, le storie delle nostre famiglie. Ma forse – ecco l’intervento della Consulta nelle veci del dormiente Parlamento -, tale tradizione era diventata troppo rigida per il tempo che passa e la società che cambia. Se i genitori concordano nell’aggiungere il cognome materno al loro bimbo, che male c’è? Perché non lasciare scolpito anche il cognome di mamma nell’albero genealogico e soprattutto nel vivere quotidiano? È una decisione di buonsenso, che c’entra poco perfino con la battaglia sacrosanta per la parità fra uomo e donna in ogni campo: qui si tratta solo di prendere atto di ciò che la vita ha già sentenziato da secoli, e cioè che la figura materna è incancellabile. In realtà la tradizione patriarcale questo non escludeva affatto: non c’è Paese al mondo in cui le madri abbiano un ruolo decisivo in famiglia e nella comunità come in Italia. Ma ora lo si potrà certificare anche all’anagrafe. Non è una svolta: è, semplicemente, una cosa giusta.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Obama, Trump e il mirabile senso delle istituzioni negli Stati Uniti

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US-VOTE-DEMOCRATS-CONVENTION

Difficile immaginare due personaggi più agli antipodi di Barack Obama, il presidente uscente, e Donald Trump, il presidente entrante. Eppure, a ventiquattr’ore dall’elezione più clamorosa nella storia degli Stati Uniti, che ha anche dimostrato il fallimento di un giornalismo salottiero e schierato incapace di capire come va il mondo e perciò di raccontarlo, i due carissimi nemici erano già uno a fianco dell’altro alla Casa Bianca. E Hillary Clinton, la sconfitta per sempre, è stata la prima a telefonare al suo acerrimo avversario per riconoscergli la vittoria. E il vincitore inatteso, Trump, ha elogiato Hillary “la combattente”, e definito “un grande onore” aver incontrato Obama.

Che invidia. Che invidia assistere a tanta dimostrazione di intelligenza non solo politica: finito il botta e risposta (e che botte Donald e Hillary si sono scambiati), l’interesse dell’America e dei suoi contrapposti cittadini viene prima di qualunque altra contesa. Questo significa avere il senso delle istituzioni. Le differenze tra i due restano, ma nessun odio può sopravvivere dopo che s’è pronunciato il popolo sovrano, ecco la più grande lezione di democrazia che viene dalla più grande democrazia del mondo.

Se noi invece pensiamo a come fu a lungo da molti trattato Silvio Berlusconi, un intruso appestato anziché il presidente del Consiglio scelto più di una volta dalla parte prevalente degli italiani, se noi pensiamo a come viene da molti considerato Matteo Renzi, un bullo abusivo invece che il premier scelto alle primarie del principale partito, e poi “ratificato” da un indiretto ma chiarissimo voto europeo, c’è di che riflettere. Paragonare è sempre azzardare. Ma il gelido scambio di consegne tra Letta e Renzi a Palazzo Chigi – stesso partito, oltretutto -, fa rabbrividire a fronte del reciproco riconoscimento fra Obama e Trump, gli opposti che più opposti non si può.

La politica italiana dovrebbe impararlo: nell’ora della verità – cioè dopo il voto degli elettori -, la nazione cancella la fazione. Berlusconi e Renzi potranno suscitare orrori contrapposti. Ma dopo il voto degli italiani, e previo via libera del Quirinale e del Parlamento, essi sono i “nostri” presidenti del Consiglio. Li continueremo naturalmente a criticare e contrastare con tutte le forze. Ma non a considerare dei marziani approdati per caso o per sbaglio all’Istituzione. Rispettare il verdetto della sovranità popolare, soprattutto quando non piace, è il più maturo atto di democrazia.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Piccoli insegnamenti per combattere la violenza contro le donne

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Federico Guiglia

La cronaca e la statistica non lasciano dubbi: il 31,5 per cento delle donne in Italia tra i sedici e i settant’anni ha subìto nel corso della propria vita un atto di violenza fisica o sessuale. Quasi sette milioni di persone. Un dato impressionante e solo appena più basso dei riscontri dell’Onu in tutto il mondo (il 35 per cento) a conferma della tendenza all’abuso della donna da parte del proprio partner o di un uomo in un caso, mediamente, su tre. Che questa sia la proporzione del nostro tempo lo ribadisce, poi, la tragedia del femminicidio. Nuovo, ma opportuno vocabolo italiano per definire l’omicidio di una donna da parte di un uomo: un delitto ogni tre giorni in Italia.

Non per caso, dunque, fervono iniziative d’ogni genere, e dei due generi, per riempire di contenuto e di futuro il prossimo 25 novembre, quando cadrà la ricorrenza internazionale contro la violenza alle donne in ricordo dell’assassinio dopo torture di tre delle quattro sorelle, Mirabal di cognome, avvenuto nel 1960 nella Repubblica Dominicana del dittatore Trujillo.

Ma, cinquantasei anni dopo, le cose sono persino peggiorate. La violenza alle donne ha toccato tutta la scala della prepotenza, dalla molestia sull’autobus all’abuso domestico, dall’aggressione con l’acido allo stupro, dalle botte anche davanti ai bambini ai crimini con decine di coltellate dopo che il compagno o marito ha attratto la vittima -“ex” o in procinto di separarsi-, per l’ultimo incontro. Mai si ripeterà abbastanza, specie alle ragazze, di non accettare inviti per dirsi addio.

Pene severe non mancano: basterebbe applicarle, magari. La repressione della violenza contro le donne è una priorità sociale. Ma la prevenzione è ancor più importante. Le famiglie e la scuola devono saper parlare un nuovo linguaggio ai maschi, in particolare, abituandoli subito alla naturale cultura della parità. Insegnamenti opportuni, gesti giusti e la condivisione dei problemi che ogni generazione coltiva fin dai banchi di scuola, ecco come si fa.

Se rispetti la tua compagna di classe e la sua personalità. Se non sei prigioniero del mondo virtuale del bullismo digitale e violento a colpi di “mi piace”. Se fai valere il tuo giudizio anziché affidarti per viltà o quieto vivere al pregiudizio del branco di amici. Se, insomma, ti comporti da uomo già da ragazzo, sarà più facile per tutti combattere la violenza contro le donne. Farlo prima: prima che sia troppo tardi.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Istat, gli italiani sono felici?

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Istat

Chiedimi se sono felice. Ma non è un sondaggio e perciò possiamo crederci. Per la prima volta dopo cinque anni -rivela un’indagine dell’Istat-, gli italiani sono di nuovo soddisfatti della propria vita. Soprattutto i giovani, ed è la cosa più incoraggiante. Altissimo è il giudizio positivo degli interpellati sui buoni rapporti familiari (nove persone su dieci, addirittura), e anche questo vale molto: conferma la nostra capacità di condividere affetti, amori e amicizie come pochi altri popoli sulla Terra.

Che si tratti di una ricerca attendibile, fatta di belle luci e vecchie ombre, lo testimoniano anche le ragioni che, al contrario, più preoccupano i cittadini. A cominciare dalle condizioni economiche, che risultano meno appaganti di altri ambiti presi in considerazione come la professione, la salute e il tempo libero. E’ una fotografia a colori nell’epoca in bianco e nero della crisi perdurante, delle paure -anch’esse svelate- per la criminalità, per il traffico e lo smog, per la sporcizia nelle strade: tutte cose che i nostri occhi e sensi percepiscono da tempo e che contribuiscono a un’alta percentuale di diffidenza verso gli altri. Siamo, dunque, più felici di noi stessi e del nostro ambiente, ma ancora sul chi va là rispetto ai non pochi né piccoli problemi quotidiani.

Come in ogni ricerca, c’è una scala di intensità e di età registrate nelle risposte. C’è un “alto, medio o basso” grado di soddisfazione. Così come il picco di gioia emerge fra i ragazzi dai 14 e ai 19 anni, e tra adulti quarantenni e oltre sessantacinquenni. Ma quel che conta è l’orientamento di una popolazione che, nonostante le avversità, non si demoralizza. Trova in se stessa e nei propri cari, oltre che nel meraviglioso quanto maltrattato Paese in cui vive, quella fonte di individuale contentezza che dà speranza collettiva.

È la prova che l’auto-denigrazione, esercizio che gli italiani adorano, resta confinata al bar-sport. Quando devi raccontare all’Istat come consideri la tua vita reale, ecco la verità: è perfino bello vivere in Italia.
Questa radiografia andrebbe studiata dal ceto dirigente, perché mostra le potenzialità degli intraprendenti italiani che non temono di dirsi felici. Ma indica pure che fare per rendere tale condizione duratura nel tempo e non frutto di una stagione. Dalla primavera italiana ora la politica ha molto di che imparare.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Black Friday, come è andato in Italia

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Federico Guiglia

Non tutte le usanze americane vengono per nuocere. L’ultima trovata importata dagli Stati Uniti, detta del “venerdì nero”, cioè il tradizionale “black friday” che negli Usa segue il “giorno del ringraziamento” del quarto giovedì di novembre, e spinge la gente agli acquisti perché i prezzi sono festosamente bassi, avrebbe fatto impazzire di gioia e di compere anche i consumatori italiani. La nuova moda ha viaggiato in particolare su internet, dove le offerte, appunto, impazzavano. Ma pure nei negozi che si sono attrezzati per la novità. Una sorta di saldi di fine stagione anticipati e in sole ventiquattr’ore, visto che al Natale manca ancora un mese e i Re Magi si sono appena messi in cammino.

Noi, si sa, siamo abituati a spendere, quando possiamo farlo, per i regali sotto l’albero. Ma anche ad attendere con fiducia che la più importante festa familiare dell’anno e il successivo capodanno con gli amici passino, per poi precipitarci ad approfittare degli sconti che tutto si portano via.

Ora lo sconto a sorpresa del venerdì nero gioca in anticipo sull’italica abitudine. Ma male non fa, se si pensa che già si quantifica in zero virgola qualcosa l’incremento in percentuale degli acquisti appena fatti rispetto agli altri e più parsimoniosi giorni di novembre. Far ripartire i consumi è la ricetta elementare che, da sempre, tutti gli esperti e i governi indicano per rilanciare l’economia. Un Paese nel quale i cittadini muovono i loro soldi, mette in moto il circuito virtuoso della crescita. Se a lungo gli italiani poco hanno consumato e speso in confronto alle attese, e spesso alle necessità, è proprio perché imprigionati dalla crisi. Una crisi anche psicologica che questo venerdì nero ma -a dispetto del nome- spensierato, potrebbe aver in parte alleviato: anche un piccolo acquisto “fuori programma” testimonia, chissà, che abbiamo voglia di rivedere le stelle. E non soltanto quelle di Natale.

E’ presto per dire se la rondine ha fatto primavera, e poi all’inverno, e con drammatiche piogge e alluvioni in tante parti d’Italia, siamo ora destinati. Ma quest’incursione in una tradizione lontana e che, come le zucche vuote di Halloween, potrebbe essere vista come roba aliena, va giudicata senza severità. E’ solo un’opportunità che può scuotere l’albero dell’economia senza intaccare quello del nostro santo Natale.

A volte eventi insignificanti o perfino irritanti diventano termometro di un cambiamento. Felici del venerdì nero: chi l’avrebbe detto.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Chi festeggia a Miami per la morte di Fidel Castro

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Federico Guiglia

Il Nelson Mandela di Cuba si chiamava Mario Chanes de Armas. Era al fianco di Fidel sia nell’assalto della caserma Moncada il 26 luglio 1953, sia nel viaggio del “Granma”, la nave che salpava dal Messico per sbarcare nell’isola il 2 dicembre 1956. L’evento che tre anni dopo avrebbe portato alla cacciata di Fulgencio Batista, il precedente dittatore.

Come molti combattenti che si erano battuti per la libertà della patria, ma non per il comunismo in salsa cubana, Mario Chanes sarà arrestato il 17 luglio 1961. E la sua storia di uomo giusto e irriducibile, che voleva la liberazione della sua gente da ogni tirannia, buttata con lui in galera. Trent’anni di prigione per aver “attentato alla rivoluzione”. Lui, che la rivoluzione aveva fatto due volte a costo della vita.

Mario Chanes, il detenuto politico più detenuto al mondo, è stata la leggenda degli oppositori incarcerati a fiumi in quasi sessant’anni di regime, e molti di loro, migliaia, fucilati a Fortaleza de la Cabaña.
Anche un altro Mario, ma di appena ventiquattro anni, ha rappresentato un simbolo per i cubani che sono scappati dall’inferno politico ed economico nell’isola per rifarsi una vita altrove, soprattutto nella vicina Miami. Quasi un milione di cittadini nati a Cuba e fuggiti nel tempo e altrettanti figli e nipoti ormai americani. Mario de la Peña, ragazzo-simbolo dell’esilio, fu abbattuto in acque internazionali dall’aviazione militare castrista, mentre pilotava, il 24 febbraio 1996, un piccolo e disarmato aereo da turismo per segnalare alla guardia costiera americana, e poter salvare, i fuggiaschi dall’Avana sulle zattere.

“Mi assumo la responsabilità per quanto accaduto”, fu la rivendicazione del crimine che Fidel fece l’11 marzo 1996 a Time Magazine. Si voleva dare una lezione ai “Fratelli di soccorso”, l’organizzazione di giovani che, quando potevano, sorvolavano in fretta anche su Cuba per lanciare volantini che inneggiavano alla libertà. Ammazzare Mario per “avvertirli” tutti.
Troppa sofferenza hanno vissuto, gli esuli, i dissidenti, gli oppositori che in queste ore fanno festa di liberazione a Miami. E scrivono “finalmente”, come la dissidente Yoani Sánchez sul suo blog. E ricordano, dopo quasi sessant’anni di regime che ha privato il suo popolo del libero diritto di voto, che “è morto un tiranno”.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa succederà dopo il voto del 4 dicembre

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4 dicembre

Alzi la mano chi non ha mai sognato da adulto il suo esame di maturità da giovane. Con le stesse angosce, gli stessi quesiti, le stesse votazioni. È quel che dovrà accadere già domani a tutta la classe politica dopo la prova del referendum all’esame, oggi 4 dicembre, degli italiani: far vedere quanto varrà la sua “maturità”. Dimostrare subito di saper sognare, ma ad occhi bene aperti, per far ripartire tutti insieme, governo e opposizione, ciascuno con le sue responsabilità, il Paese, a prescindere dal giudizio sovrano che i cittadini avranno nel frattempo dato sulla riforma della Costituzione.

Non è solo un invito anticipato alla riconciliazione degli opposti che si sono combattuti fino all’ultima virgola del testo. E che, comunque sarà finita la contesa, hanno il dovere istituzionale e morale di rimettersi in cammino: nessuna guerra è “per sempre”. Nessuna sfida tra italiani in campo per dire la loro può andare oltre il novantesimo. C’è il tempo per decidere, la giornata di oggi. E c’è il tempo della responsabilità, quando i problemi di sempre torneranno a bussare alla porta delle nostre case.

Com’è noto, il sole continuerà a sorgere già all’alba di lunedì mattina. E la sera le famiglie si racconteranno, di nuovo, le difficoltà e le gioie vissute. Diranno della nonna che ha telefonato e dei figli fuori con gli amici. Del bel film da vedere in tv, dei regali di Natale e di che fare a Capodanno, dell’autobus -maledetto- sempre pieno e in ritardo. Sogneranno, anche loro, come migliorare il proprio lavoro o finalmente trovarlo. Si chiederanno, chissà se quest’anno riusciremo a fare le vacanze al mare.

Ecco, che la politica torni a sintonizzarsi in fretta con l’Italia vera, che non è fatta di vincitori e vinti, bensì di gente che pedala, ciascuno con la sua bicicletta, ma tutti nella stessa direzione.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito ww.federicoguiglia.com


Vi racconto la miccia che genera la rivolta sociale

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E’ come se la locomotiva, che va piano ma almeno è ripartita, non riuscisse più a trainare tutti i vagoni con sé. Da una parte gli esperti prevedono che la produzione di ricchezza in Italia sarà modesta, ma ci sarà: il famoso pil (prodotto interno lordo) dovrebbe registrare una crescita intorno allo 0,8 per cento alla fine del 2016. Poco, ma meglio che niente, e incoraggiante: forse torniamo a crescere. Dall’altra parte, però, l’Istat mette in guardia: poco più di un italiano su quattro, il 28,7 per cento della popolazione – ben diciassette milioni e mezzo di persone nel 2015 -, è “a rischio povertà ed esclusione sociale”. Formula che nell’opulenta società occidentale non significa morire di fame, come capita nell’indifferenza dei più al dimenticato Sud del mondo. Significa, tuttavia, entrare nel tunnel di una crisi economica e interiore devastante: non riuscire a pagare le bollette alla scadenza, né a riscaldare a dovere le proprie case. Non poter sostenere importanti spese impreviste, né un pasto degno almeno una volta ogni due giorni. Niente vacanze, automobile, elettrodomestici. Significa campare, dunque, non vivere. E il peggio succede alle coppie con tre o più figli.

Non sono favole statistiche. Al contrario, è la fotografia di famiglie che ciascuno di noi conosce e può incontrare ogni giorno, perché orbitano intorno a un ceto medio sempre più tartassato e diviso, specie fra Nord e Sud. E’ il ritratto di chi si trova ai margini del benessere, aggrappato all’ultimo vagone che sempre più si stacca dal treno Italia.

La paradossale novità, che peraltro non è solo nostra come conferma il vento della protesta in tutta Europa e in America, è che la ripresa non è più garanzia di occupazione per tutti. Se l’Italia si rimette in cammino, come sembra, un cittadino su quattro non riuscirà comunque a tenerne il passo. E’ un disagio troppo diffuso e profondo perché la classe dirigente pensi di poterlo sottovalutare. L’esclusione sociale è un’ingiustizia di per sé, in una nazione che resta pur sempre fra le più ricche del pianeta. Ma è anche una miccia che alimenta ogni genere di rivolta. Quando il lavoro manca, oppure è saltuario, sottopagato, senza prospettive, si perdono la serenità familiare e la speranza di cambiare. Regna la paura di non farcela, la paura verso gli altri, italiani o stranieri. Il rischio povertà è inammissibile in un Paese dove aumenta realmente solo il divario fra chi ha moltissimo e chi ha pochissimo, mentre l’indebolito ceto medio sta a guardare.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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