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Cosa c’è da imparare dalle Olimpiadi di Rio

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Matteo Renzi Olimpiadi Rio2016 (5)

Si parte, ma quanti primati già raggiunti. Le prime Olimpiadi in Sudamerica, le prime nell’era del terrorismo globale, le prime con una rappresentanza di rifugiati, specchio del nostro tempo di paura e di speranza. Le Olimpiadi più blindate della storia.

Il mondo si è fermato a Rio, nell’immenso Brasile, per sognare con atleti che proveranno ad essere i “più veloci, più alti e più forti”, come dice il motto in latino dei Giochi moderni. Ma l’universo si ferma anche per un viaggio nella nostalgia, e forse un viatico: nell’antica Grecia, la patria dell’evento, quando i campioni gareggiavano, tutte le guerre venivano sospese. Che grande e purtroppo oggi inascoltata intuizione: le gare più importanti dei conflitti, l’amor di patria che si esalta nel festoso silenzio della pace, mai nell’odio urlante delle armi. E poi ogni nazione ha il suo bell’esercito di beniamini da sostenere con gli occhi incollati in mondovisione e da accompagnare col cuore che batte una disciplina dopo l’altra. Forza, allora, Federica Pellegrini, portabandiera degli Azzurri come il cielo di Maracanà.

L’Olimpiade arriva ogni quattro anni, ma dà una lezione di vita per i prossimi quattro. L’oro, l’argento e il bronzo premiano il merito, che è sempre e solo frutto del talento e del sacrificio dei singoli e della squadra. Ma vincitori e vinti alla fine s’abbracciano.

Più di cinquanta i presidenti presenti alla cerimonia d’apertura, compreso il nostro Renzi che ha, rispetto agli altri, una ragione in più: promuovere la candidatura dell’Italia per i Giochi 2024, dopo quelli organizzati a Roma nel 1960. Per ottenerli, basterebbe che la politica copiasse dallo sport.

E’ la caparbia capacità di credere in un progetto, e di saper tagliare il traguardo lontano ciò che ha reso così vincenti i nostri atleti. E’ l’unità delle loro differenze ad aver dato forza a una nazione, l’Italia, che è al quinto posto nel medagliere complessivo della storia olimpica. E che negli ultimi anni di Paesi prorompenti e imparagonabili per numero di cittadini e perciò di sportivi -basti un nome: la Cina-, è sempre rimasta nel G10, grande tra i grandi. E poi lo sport realizza la parità fra donne e uomini sconosciuta ai partiti. L’inefficienza non abita qui, nel pianeta olimpico, dove se non si è puliti, si è cacciati. Rigore negli allenamenti, voglia di sfidare il mondo per conoscere il proprio valore e riconoscere quello degli altri.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Olimpiadi, la doppia vittoria di Elisa Di Francisca a Rio

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SITO EXPO CONVEGNO FILENI

Quando Neil Armstrong metteva il piede sulla luna pronunciando una frase che sarebbe diventata celebre –“è un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità”-, il mondo comprese che a volte i gesti inaspettati possono essere più importanti delle imprese epiche, come lo fu quella dell’Apollo 11 il 21 luglio 1969. Forse oggi ci voleva un’italiana, e dal curriculum sportivo non meno brillante della carriera dell’astronauta americano, per trasformare, con una bella sorpresa, le trentunesime Olimpiadi di Rio nel messaggio universale più potente che sia stato finora diffuso per scuotere l’umanità a non avere paura del terrorismo.

Elisa Di Francisca, la schermitrice che per una stoccata soltanto non è riuscita a riconquistare l’oro che già aveva vinto ai precedenti Giochi di Londra, mettendo anche lei un piede ben fermo sul podio dell’argento appena ottenuto, ha sventolato con la stessa delicatezza del fioretto, che è la sua divina disciplina, la bandiera dell’Unione europea.

L’azzurra ha mostrato l’azzurro con le stelle in cerchio dell’emblema continentale, provocando un diluvio di consenso da ogni parte, e non soltanto dalle istituzioni europee e perfino da chi le avversa. “L’ho fatto per le vittime di Parigi e di Bruxelles, l’Isis non deve vincere”, ha spiegato l’atleta. “Non c’è un messaggio politico, ma solo di coscienza. Vogliono che abbiamo paura uno dell’altro, noi invece dobbiamo rispondere con l’amore. Ci teniamo alla vita, per chi crede è un dono di Dio da rispettare”.

Impossibile trovare parole più intense per un gesto leggero che vale più di mille discorsi “politici”, e che eccelle per la sua forza spontanea e comunicativa in confronto ai pianti, alle polemiche, alle recriminazioni e a tutto quanto fa, da sempre, competizione sportiva. Non c’è sconfitta, per quanto bruciante possa apparire – e per Elisa, a un passo dall’oro, si può immaginare l’ardente delusione -, che possa indurre chicchessia a perdere il grandioso senso della vita, e non solo la voglia della rivincita. E non c’è altro luogo del pianeta più adatto di un’Olimpiade, dove tutti gareggiano e solo pochi vincono, e subito dopo i vincitori abbracciano gli sconfitti, per dare vigore civile al piccolo gesto che invoca il grande salto oltre ogni paura. Nella società che vive di immagini, quella del sorriso della nostra schermitrice mentre fa vedere la bandiera europea come un selfie del comune destino, diventa una festa. Elisa Di Francisca, grande atleta che s’è comportata da atleta grande.

(Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché il dibattito sul burkini è folle

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Tra bikini e burkini l’Europa è all’ultima spiaggia. Dopo che alcuni sindaci francesi, spalleggiati dal primo ministro Valls, hanno deciso di vietare alle donne l’uso del costume che le copre dalla testa ai piedi “perché incompatibile con i nostri valori”, è esplosa la polemica su quali principi far valere anche in Italia. Può, dunque, l’Occidente ferito e minacciato dal terrorismo di matrice islamica proibire quel che agli occhi della Francia, il Paese che ha versato più sangue innocente, appare come l’”espressione di un’ideologia basata sull’asservimento delle donne”, secondo le parole di Valls?

Certo che può. Ed è sorprendente che il nostro ministro dell’Interno, Angelino Alfano, fra le ragioni per spiegare il suo disaccordo dica che l’eventuale divieto suonerebbe come una provocazione che potrebbe attirare attentati. Ma una Repubblica libera e sovrana, se ritiene giusta una misura per la sicurezza dei suoi cittadini, non rinuncia a farla per timore di reazioni. Uno Stato degno non si sottomette a nulla, fuorché alle sue leggi.

Ma difeso il pur opinabile diritto dei francesi di estendere il già vigente divieto di velo integrale in pubblico alle donne che vogliano farsi un bagno in mare, il quesito èun altro: ne vale la pena? E’ ragionevole impedire a pochissime donne, oltretutto, di indossare il burkini al sole dei quaranta gradi, roba da non augurare alla più antipatica vicina di casa? La strada contro le discriminazioni è punire la povera vittima che non si ribella al marito-padrone?Un marito due volte ottuso, perché nelle nostre spiagge nessuno noterebbe una donna in bikini, ma tutti guarderebbero con insistenza una donna super-vestita, proprio ciò che quell’uomo vorrebbe evitare. E poi: multare una donna che magari ha conquistato a fatica la felicità di nuotarerassicurando il marito d’altri tempi e fede che lo fa col burkini (e un giorno,chissà, anche senza), significa incoraggiare il cambiamento o interromperlo?

Per reprimere in tempo la violenza jihadista, lo Stato deve saper guardare all’invisibile, non al troppo ostentato. Perciò ascoltare certi sermoni in arabo di certi imam, un discreto numero dei quali è stato infatti già espulso dall’Italia. Capire dove e come il malessere sociale possa diventare l’alibi per reclutare e indottrinare giovani non integrati. E far imparare a tutti i principi del nostro Corano, che è scritto in italiano e si chiama Costituzione della Repubblica.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa insegnano gli occhi dei bambini

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omran aleppo bombardamenti siria

Si dice sempre che i bambini ci guardano. Ma in quest’estate del dolore e dell’orrore, che continua a sconvolgerci fra terremoto e terrorismo – quasi che natura e uomo si fossero messi d’accordo per mostrare di quanto male siano capaci -, sta succedendo il contrario: siamo noi a guardare gli occhi dei bambini, e a restare senza parole. Lo sguardo fisso del piccolo Omran salvato pochi giorni fa dalle rovine di Aleppo. Quel bimbo ha commosso il mondo col suo corpicino immobile seduto su una sedia più grande di lui e il volto insanguinato, eppure inespressivo. Un’immagine così potente da suscitare persino dubbi (non sarà stata costruita apposta?), ma soprattutto indignazione contro la guerra che offende prima di tutto loro, gli inermi.

E poi gli altri bambini, quelli travolti dal camion omicida sul lungomare a Nizza con tutti gli orsacchiotti e i pupazzetti rimasti malinconicamente a terra a giocare da soli. Bambini vittime, dunque, ma anche usati, abusati, strumentalizzati, come il dodicenne che nel Kurdistan iracheno indossava la maglietta di Messi, il numero 10 del Barcellona, sotto la quale aveva una cintura esplosiva. Fermato giusto in tempo, il ragazzino, disarmato, strattonato e subito è arrivato il suo pianto liberatore, forse la riscoperta all’improvviso di quell’innocenza che i grandi avevano cercato di violare per sempre.

Ma adesso ci si mette anche il terremoto a sfidare brutalmente il destino dei più piccoli. La piccola Giorgia, appena 8 anni, estratta viva dalle macerie di Pescara del Tronto dopo diciassette ore di sofferenza, e i suoi occhi si possono solo immaginare. Ma la sorellina di due anni più grande che era stesa accanto a lei, non ce l’ha fatta. E sembrano pure loro vittime di guerra, “come se ci fosse stato un bombardamento”, ha detto la presidente della Camera, Boldrini. Per questo gli occhi dei piccoli sopravvissuti al sisma ricordano quelli dei bimbi scampati ai conflitti. Occhi che implorano aiuto, senza più lacrime, persi nel vuoto dopo essere rimasti troppo a lungo nel buio della notte. Quanti crolli dovremo ancora contare prima di poter ritrovare il sorriso di bambini che volevano semplicemente fare una bella vacanza dai nonni? Quanti neonati, gemellini, figli e figlie a volte graziati dalla sorte, a volte trovati troppo tardi o impossibile da soccorrere dovremo ancora piangere e rimpiangere?

Il segreto dei loro occhi è quel che resta di questi giorni terribili.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco il vero compito della classe dirigente dopo il terremoto

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Agnese Renzi e Matteo Renzi

Con i funerali solenni eppur discreti, in una palestra spoglia e con il vescovo che ha chiesto a Dio, con disarmante semplicità, “ora che si fa?”, si è chiuso il primo e più doloroso capitolo. Tre giorni dopo il sisma che ha devastato il cuore del centro Italia, le massime autorità dello Stato, a cominciare dal presidente Mattarella, hanno voluto essere presenti accanto alle trentacinque bare allineate e ai familiari distrutti. Non per fare passerelle, le istituzioni, né per sgomitare sotto i riflettori, com’è d’uso fra i politici, ma per portare in silenzio e con onore l’abbraccio di un’Italia che si è dimostrata unita, commossa e generosa. Come sempre nel momento della verità.

Quanta dignità abbiamo visto negli abitanti delle zone colpite, e molti di loro colpiti negli affetti, gente che pur avrebbe il diritto di urlare la sua disperazione a fronte di scuole ricostruite con criteri anti-sismici, ma sbriciolatesi. Quanta capacità di soccorso e meravigliosa dedizione abbiamo ancora una volta sperimentato tra i volontari sul campo, la Protezione civile che si conferma un’eccellenza della nazione, e la catena di cittadini d’ogni parte della Penisola che dona tutto quel che può donare: la solidarietà in Italia è una cosa seria. E poi l’amore del mondo verso il nostro Paese, testimoniato persino con monumenti illuminati col verde, bianco e rosso della nostra bandiera. Siamo un grande Paese anche per popoli vicini o lontani, ma tutti amici.

Possiamo essere orgogliosi di noi stessi, e dobbiamo dircelo, perché anche nel modo di vivere un lutto nazionale si rivela la grandezza delle persone. Ma adesso si apre il dopo. Adesso la politica, che per una volta ha evitato polemiche e strumentalizzazioni, ha il dovere di far seguire i fatti alle parole espresse. “Non vi lasceremo soli”, hanno detto Mattarella e Renzi. “Ricostruiremo dov’era e com’era”, hanno assicurato in tanti, archiviando l’idea di spostare i residenti dalle loro radici verso anonime “città nuove”. Governo e opposizioni concordano sulla necessità che l’Italia preservi il suo incanto universale, e protegga i suoi cittadini, investendo nella prevenzione, anziché affidandosi solo allo Stato e ai volontari a catastrofe avvenuta. Ecco, la civiltà di un Paese si misura anche sulla capacità della sua gente e dei suoi amministratori di saper guardare lontano. Gli italiani hanno dimostrato di che pasta e di che cuore sono fatti. Ora tocca alla classe dirigente nazionale e locale: mettano al sicuro la nostra Italia.

(Articolo pubblicato su Bresciaoggi e Il Giornale di Vicenza e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Se non brillano a Roma, le Cinque Stelle non brilleranno più

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Beppe Grillo e Luigi Di Maio

Quando Virginia Raggi vinse a furor di popolo romano, la sfida che l’attendeva al Campidoglio era piuttosto chiara. Roma veniva da un disastro amministrativo dopo l’altro, culminato perfino in un’inchiesta giudiziaria il cui nome diceva tutto: mafia capitale. Per questo la giovane candidata dei Cinque Stelle fu eletta con un voto trasversale e anti-ideologico da parte di cittadini che volevano prima di tutto ritrovare il decoro della loro città ferita e degradata come mai era accaduto.

Ma il successo della Raggi era anche l’occasione perché il movimento fondato e ispirato da Beppe Grillo dimostrasse sul campo, e non più nelle piazze vere della gente o virtuali di internet, quanto fosse diverso rispetto al resto della screditata politica. Non, dunque, una ripicca civica di abitanti che non ne potevano più e si sarebbero accontentati di strade pulite e di conti in regola, ma anche una prova generale per l’Italia: oggi il Campidoglio e domani, chissà, Palazzo Chigi. Perché Roma non è soltanto il centro delle beghe politiche nazionali. Roma è anche la culla della Chiesa cattolica. E’ da sempre il luogo dove tutte le strade del mondo portano. E’ la città che ha ospitato le Olimpiadi del 1960 e potrebbe ospitare quelle del 2024. Qui non attecchisce la perenne lite da cortile tra guelfi e ghibellini. Qui il sindaco ha o dovrebbe avere l’autorevolezza e la credibilità di un’Istituzione fra le più alte, perché rappresenta la capitale d’Italia e si presenta con occhi particolari al mondo.

Perciò la polemica furente che è esplosa all’interno dell’amministrazione con ben cinque dimissioni fra membri della giunta e dirigenti delle municipalizzate -di fatto la prima seria crisi per la Raggi, e a poche settimane dall’insediamento- diventa una cartina di tornasole.

O la giunta grillina più rilevante d’Italia dimostra con nomi di rilievo e scelte rigorose che la musica è cambiata, oppure saranno gli elettori a cambiare presto spartito. I Cinque Stelle sono stati premiati perché molti italiani li hanno visti come l’ultima spiaggia di un impegno politico e amministrativo, gente lontana dal Palazzo che era giusto mettere alla prova: vediamo pure che sanno fare. Ma se alla prima controversia i Raggi del sole si rannuvolano, e tutto finisce come nella vecchia osteria della politica dove ognuno accusa l’altro di qualcosa e nessuno decide, e quando decide lo fa male (ogni riferimento all’indecoroso balletto sulle importanti Olimpiadi a Roma è voluto), il rischio non è d’assistere alla solita bega municipale. Se non brillano a Roma, le Cinque Stelle non brilleranno più.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Tumori, come difendersi dai ciarlatani

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salute

Da molti anni nessun oncologo usa più l’espressione senza speranza di “male incurabile” per definire il cancro. Termine che viene a sua volta impiegato senza sofismi. La medicina che ha allungato l’aspettativa di vita dell’umanità, ci ha anche insegnato a non avere paura delle parole. E a dire la verità ai pazienti e ai familiari, anche quando essa è terribile da accettare. Ma un malato informato e pronto a seguire i consigli di chi ha studiato l’intera gioventù per darglieli -e se è bravo e cosciente  continuerà a studiare per il resto dell’esistenza-, rappresenta l’alleato migliore contro ogni patologia, lieve o insidiosa che sia. Nel caso dei tumori, poi, i progressi degli ultimi tempi sono straordinari. La prevenzione ha salvato intere generazioni di donne dal cancro un tempo assai più temibile alla mammella.

Per questo il grido di dolore lanciato dal medico Domenico Samorani, responsabile della Chirurgia del seno all’ospedale di Santarcangelo in provincia di Rimini, va raccolto subito. “Fermiamo questa follia”, ha implorato riferendosi alla vicenda di una signora di trentaquattro anni madre di due bambini che proprio lui aveva operato quattro anni fa per un tumore al seno. La donna avrebbe rifiutato il necessario ciclo di chemioterapia per affidarsi, invece, a soluzioni fatte con impacchi di ricotta e decotti di ortica, pare ispirandosi alle teorie alternative di un guru tedesco, il cosiddetto metodo Hamer. Pochi giorni fa un’altra ragazza di Padova è morta di leucemia, diciottenne, dopo che i suoi genitori avevano respinto le cure classiche.

Questionare sulle libere scelte delle persone afflitte da mali che possono divorare la carne e lo spirito, non si deve e non si può. Ogni malato merita il massimo delle cure e del conforto del sistema pubblico e privato, ma anche un rispetto totale. Tuttavia, con l’allarme rivolto ai colleghi medici, alle aziende sanitarie, a chiunque voglia ascoltare e riflettere sugli ormai troppi casi di cittadini che in nome di presunte terapie con rimedi naturali in realtà buttano a mare il naturale e universale sviluppo della medicina, il dottor Samorani sta dicendo altro. Sta dicendo che è ora di smetterla con i trattamenti privi della più elementare validità scientifica, con le trovate che mettono così gravemente a repentaglio la vita propria e gli affetti altrui.

E qui tocca alle istituzioni, tocca allo Stato garantire e rassicurare i cittadini da chi alimenta false speranze.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa succederà ai Cinque Stelle sul caso di Paola Muraro

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Paola Muraro, Virginia Raggi

Il direttorio in riunione-fiume, Di Maio e Di Battista che annullano i loro impegni, la base divisa sul punto: deve dimettersi o no l’assessore Paola Muraro per l’indagine (presunti reati ambientali) a suo carico di cui non si capisce chi sapeva e chi non sapeva? La tempesta che sotto il cielo di Roma sta investendo la giunta di Virginia Raggi e i Cinque Stelle nell’insieme, con Beppe Grillo che cerca di rassicurare (“ce la faremo a ripartire col piede giusto”), può essere giudicata in due modi.

Il primo: ecco la conferma che, quando si entra nella stanza dei bottoni, chi vive di sola protesta non sa più che tasto pigiare. Tra il maledire e il fare, tra i popolari vaffa e l’impopolare governare nell’amministrazione della Capitale sta affondando anche l’illusione di tanti cittadini stufi della vecchia politica e ora delusi da quella nuova. Ma c’è un’altra possibile e opposta lettura: se affrontata col coraggio della verità, la caotica e imbarazzante vicenda potrebbe rivelarsi persino utile. Potrebbe segnare il passaggio dei pentastellati dall’età infantile delle invettive, della dipendenza per il Grillo parlante e oggi “di lato” e forse per il rimpianto di Casaleggio, alla maturità. Ormai sull’onda della Raggi c’è una classe dirigente che è chiamata a “fare politica” nel senso più nobile, senza servire il potere né servirsene, certo, ma pure senza più inciampare nelle ingenuità delle mezze bugie o nella credenza da creduloni che si possa fare a meno di partiti strutturati, di statuti chiari, di leader bravi a proporre e non solo a criticare. Dunque, il caos romano è la prova inattesa che fa subito gongolare le opposizioni (“ve l’avevamo detto: i grillini sono incapaci di governare”). Oppure è la tipica crisi di crescita, il ragazzo e in questo caso la ragazza, Virginia, che finalmente lascia la casa dei padri per cavarsela da sé. Ma con l’intelligenza di saper rispettare quei valori che ogni famiglia politica dovrebbe trasmettere, specie se cresciuta al di fuori del Palazzo: la trasparenza degli atti, l’amore per la verità -anche quando fa male-, la capacità, così rara tra gli avidi politici, di saper chiedere scusa quando si sbaglia.

Da come i pentastellati si lasceranno alle spalle quel “pasticciaccio brutto” del Campidoglio”, se travolti dall’insipienza e dall’incoerenza dei loro comportamenti da predicatori che poi agiscono male, o se capaci di imparare la lezione e non ripeterla più, capiremo se le Stelle saranno ancora raggianti o per sempre cadenti.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Appello urgente per salvare i nomi italiani in Alto Adige

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Federico Guiglia

Presidente del Consiglio Matteo Renzi: lei come reagirebbe, se le dicessero che da domani mattina la città italiana dov’è nato e cresciuto non si potrà più chiamare “Firenze”, bensì “Florenz”, solo e soltanto in tedesco? Che farebbe se le dicessero che tale novità sarà sancita con una norma d’attuazione costituzionale, e quindi per sempre? E che a farlo provvederà una semplice commissione di sei persone chiamata a dar seguito non a una impellente esigenza culturale, né storica e meno che mai di convivenza democratica, ma a una rivalsa mascherata da compromesso politico?

Che risposta darebbe, presidente Renzi, a chi le dicesse che nella sovrana Repubblica italiana che, grazie all’Accordo De Gasperi-Gruber del 1946, consentì alla popolazione di lingua tedesca dell’Alto Adige di riutilizzare – dal primo all’ultimo – tutti i nomi di luogo nella propria madrelingua (e perciò richiamare Bozen ciò che noi chiamiamo Bolzano), ora sia arrivato il momento dell’ingrata prepotenza? Ora di fatto saranno loro, i rappresentanti politici di lingua tedesca, ad arrogarsi il diritto di decidere se, quali e quanti nomi in italiano potranno ancora essere pronunciati dai cittadini italiani e stranieri.

E giusto per capire come finirà la partita, circa due nomi italiani su tre sono stati mediamente intanto cancellati dalla vigente versione bilingue italiano-tedesca dei sentieri di montagna. La scusa? Toponomastica minore o periferica. Tale lista e tale gravissimo precedente è frutto, di nuovo, solamente della volontà politica della Svp avallata, non si sa se per viltà o per insipienza, da rappresentanti politici “nazionali” di governi un tempo di Berlusconi, di Enrico Letta e oggi di Renzi. Incuranti tutti che persino questa lista degli aboliti “nomi minori” violi la Costituzione e lo Statuto speciale d’autonomia in Alto Adige, e violi soprattutto il buonsenso: perché vietare agli italiani di continuare a chiamare nella loro lingua i luoghi dove sono nati, i luoghi delle loro passeggiate, i luoghi del turismo estivo e invernale soprattutto italiano?

Ecco, nel silenzio generale e nell’indifferenza del giornalismo d’inchiesta il prossimo 23 settembre la sopracitata commissione dei sei si riunirà a Bolzano per completare l’opera, estendendo tali principi arbitrari e paradossali (impedire a me, italiano, di usare la mia lingua a casa mia) all’intera toponomastica della provincia. E blindando il tutto con la norma d’attuazione. Così la Corte Costituzionale, che sull’onda del ricorso dell’allora governo-Monti si appresta a esaminare, il 4 ottobre, e inevitabilmente bocciare l’abominio giuridico di una legge provinciale altoatesina già pronta per far strame della versione italiana della toponomastica bilingue, la Corte, dicevo, non potrà più fermare la pulizia linguistica. Perché la norma d’attuazione nel frattempo approvata avrà valore costituzionale e farà da apripista a un’altra legge provinciale che il governo di Roma a quel punto non potrà né vorrà più impugnare, avendo politicamente tollerato il marchingegno.

Attenzione, allora, alle bugie:

  • non è vero che “la maggior parte” dei nomi italiani è stata o sarà salvata. La comica concessione è di mantenere un bilinguismo di facciata, anziché di sostanza. Significa che in montagna “Alm” avrà sempre il corrispettivo di “malga” (quanta magnanimità…). Ma il nome a cui la malga si riferisce sarà monolingue, solo in tedesco in una enorme quantità dei casi: quelli considerati “storici” secondo il “loro” punto di vista. Come se i circa cent’anni di esistenza della versione italiana accanto ai nomi tedeschi non fosse già prova sufficiente e corroborata della “storicità” acquisita, la storicità dei nomi italiani! Esempio: La Vetta d’Italia in tedesco si chiama Glockenkarkopf. Scommettiamo che un domani avremo “Vetta Glockenkarkopf”? Ecco che vuol dire salvare l’apparenza bilingue, ma sradicare il contenuto italiano.
  • L’altra furbizia per confondere le carte è che tutti i grandi e più conosciuti nomi (Bolzano, Merano, Bressanone ecc.) resteranno bilingui, Meran-Merano, Brixen-Bressanone e così via. Mai Firenze diventerebbe solo “Florenz”, preciserebbero i tagliatori di nomi per rassicurarci. E’ ovvio: qui si parla di una strategia anacronistica ma raffinata, il revanscismo dal volto umano che da decenni sogna di cancellare gran parte dei nomi italiani dalla realtà bilingue. Se avessero pensato di abrogare pure “Bolzano” da “Bozen” perfino gli accondiscendenti governi di Roma se ne sarebbero accorti e si sarebbero arrabbiati. Sradicando, invece, due terzi del patrimonio linguistico italiano, e raccontando la favola che è tutta toponomastica piccina e lontana, l’operazione chirurgica risulterà perfetta: chi lo noterebbe?, chi oserebbe protestare “per quattro masi o tre cime lassù, che nessuno conosce”?
  • Terza astuzia. Il disagio che animerebbe i tagliatori di nomi per i presunti toponimi “fascisti”. Ma i primi 5.000 toponimi bilingui degli attuali e importanti 8.000 in vigore risalgono addirittura al 1916, quando neanche Mussolini era fascista. E comunque l’uso legale e popolare di decenni ha tolto a quei nomi qualunque connotazione ideologica avessero mai potuto avere nelle intenzioni del regime morto e sepolto da decenni.

Da settant’anni questi sono i toponimi di De Gasperi e della Repubblica italiana. Sono i toponimi di tutti gli italiani e di chiunque, da qualunque parte del mondo parta o arrivi, intenda pronunciarli e nominarli. Sono i toponimi che convivono in pace e in armonia con i nomi di luogo indicati in tedesco per chi è tedesco. Il bilinguismo è il felice matrimonio.

E allora serve un appello alto e forte a tutte le persone di buona volontà. Cominciando dai componenti della commissione dei sei, e partendo proprio dai membri di lingua tedesca, forse e paradossalmente più riflessivi perché più consapevoli dei colleghi “italiani” incredibilmente disposti ad abolire ciò che già c’è: usino la loro testa, ignorando la dominante e prevaricante volontà politica. Lascino che sia la Corte Costituzionale, nell’ormai prossima sentenza, a stabilire nel dettaglio i principi del bilinguismo paritario e assoluto, che è la feconda radice dell’autonomia altoatesina. Nessuna lingua venga buttata giù dai cartelli stradali. Non tagliare e impoverire, bensì arricchire: ne aggiungano piuttosto un’altra, di versione. In inglese, in arabo o in cinese, se proprio muoiono dalla voglia di ergersi a ciò che essi non sono, glottologi e linguisti.

E poi i partiti nazionali: Beppe Grillo e i Cinque Stelle, perché non vi mobilitate per una battaglia di elementare giustizia civile e decenza culturale? Sinistra di pensiero e di parole (Fassino e Fassina, D’Alema e Veltroni) avete ben capito che qui è in ballo anche la libertà d’espressione? Avete compreso che qui è in gioco il diritto di parlare ciascuno nella sua lingua, a fronte del diktat dei rappresentanti politici di lingua tedesca di dirci loro a noi come chiamare in italiano i luoghi condivisi? Eredi sparsi della destra che un tempo si riempiva la bocca di Alto Adige (Meloni, Frattini, lo stesso Berlusconi, il nuovo arrivato Parisi): dove siete, perché non parlate più? Istituzioni, Grasso, Boldrini, ministri da Alfano a Boschi: perché non difendete la lettera e lo spirito della Costituzione? E ancora giornalisti, intellettuali, professori di italianistica e dantisti anche del colto mondo tedesco, altoatesini d’ogni lingua capaci di andare oltre ogni frontiera: che aspettate a esigere rispetto, nient’altro che rispetto per la cultura e la tradizione italiane in Alto Adige? E infine giuristi della Corte Costituzionale, ultimo baluardo della legalità: perché non andate subito a sentenza, perché non vi sottraete al penoso minuetto politico di quanti vi implorano di aspettare, in attesa di cucinarsi loro la Costituzione della Repubblica italiana?

Quale Paese dell’universo accetterebbe mai di rinunciare alla propria lingua nazionale e ufficiale per accontentare un’incontentabile arroganza? Quale Repubblica delle banane subirebbe una simile sottomissione?

Presidente Mattarella, la prego di non consentire che la civiltà del bilinguismo paritario e assoluto di De Gasperi sia buttata dalla finestra per sempre, proprio nel settantesimo anniversario del suo accordo con Gruber (5 settembre 1946). La prego di non consentire questo sfregio così inutile e meschino all’Italia, che tanto ha fatto per la bellezza, il benessere e la convivenza di tutti in Alto Adige.

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Ecco su cosa bisticciano Germania, Francia e Italia

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Angela_Merkel_11

È sorprendente quanto la politica europea sia incapace di cogliere i problemi delle persone. Tutti i parametri economici indicano che nell’Unione dei ventotto (con Gran Bretagna tuttora dentro) soltanto un Paese sorrida, la Germania. Uno su ventotto. Ma di elezione in elezione la beata solitudine di Frau Merkel suscita solo ondate di populismo d’ogni lingua e latitudine. Se i cittadini perdono potere d’acquisto e posti di lavoro, se la gente non vede premiati i propri sacrifici e trema per il futuro dei propri figli, è grottesco dire che la ricetta per cambiare sia tirare ancor più la cinghia. Le grandi strategie di politica finanziaria si fanno a pancia piena, non quando milioni di persone vivono in crisi permanente. La stabilità dei conti non può prevalere sull’instabilità degli stipendi e la precarietà del lavoro. La Borsa di Francoforte non viene prima della borsa della spesa.

Per questo l’obiettivo dell’Italia all’Eurogruppo di Bratislava dev’essere allo stesso tempo rigoroso e pragmatico: ottenere flessibilità, nient’altro che flessibilità, tutta la flessibilità. Senza farsi scoraggiare da chi, come il commissario Pierre Moscovici, già avverte che il nostro Paese avrebbe goduto di molta elasticità e che “deve rispettare le regole”. Il solito e noioso ritornello, perché da tempo siamo gli ultimi mohicani: noi continuiamo a rispettare tutto il rispettabile, quasi che l’intero peso dell’Europa dovesse ricadere sulle nostre spalle, mentre gli altri non si fanno troppi scrupoli a forzare conteggi e parametri nel loro interesse. L’esempio più irritante è fresco ed eloquente: la Gran Bretagna ci ha dato il benservito, ma deciderà lei quando, come e dove comunicarcelo. Scelta in linea col proprio interesse, non però con quello del rimanente popolo europeo. Eppure, nessuno dice al Paese di Mrs May di “rispettare le regole”, così come nessuno ricorda alla nazione di Frau Merkel -o alla Repubblica di Hollande- d’averle platealmente ignorate in passato.

È ora di non avere più complessi europeistici, facendo valere il ruolo fondatore e la forza economica dell’Italia per ottenere non favori -come altri hanno ottenuto-, ma l’opportunità di poter finanziare investimenti. Per creare e dare lavoro, facendo ripartire consumi e fiducia. Non è più il tempo per l’Eurogruppo dei ragionieri. Renzi sia consapevole che l’Italia può sfidare quest’Europa dei paraocchi, che avanza solo pretese nei confronti dell’Italia.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Cosa insegna il caso di Tiziana Cantone

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Aveva chiesto, implorato d’essere dimenticata. Ma Tiziana Cantone, trentun anni, impotente prigioniera del web, non ce l’ha più fatta a rompere le catene. S’è uccisa dopo che aveva cambiato città e perfino nome, s’è uccisa perché non riusciva più ad accettare l’odiosa persecuzione che subiva dalla rete a causa di un video che la ritraeva durante un rapporto sessuale. Quel video forse per gioco, forse per ingenuità, era finito nel tritacarne di internet. Da allora Tiziana era stata tempestata dall’insulto di tanti e dal tormentone di molti, che ripetevano le sue parole riprese dalla telecamera, per irriderla e divertirsi alle sue spalle. Tiziana non sopportava più la gogna che soltanto una fogna può generare, come succede quando questo meraviglioso strumento della comunicazione universale diventa il patibolo dei frustrati, la ghigliottina del pregiudizio perfetto, l’alibi per la violenza virtuale, anonima e di massa. Se le parole sono pietre, i clic possono diventare un macigno.

Per far valere il suo diritto a essere rispettata, la donna aveva rivendicato, anche giuridicamente, il “diritto all’oblio”: togliere dai motori di ricerca quel video hard che la stava triturando, perché il video era nel frattempo diventato virale, il che significa espandersi a tutta velocità fra un utente e l’altro. Ma significa, soprattutto, passare dal mondo della provincia napoletana, dove la ragazza era nata e cresciuta, figlia di un barista, al mondo di chiunque, che ti fa a pezzi senza curarsi dei tuoi sentimenti e cambiamenti. Per questo esiste il “diritto all’oblio”: la gente cambia e non sempre o non più si riconosce in ciò che era. Invece la rete ti inchioda al passato che non passa, ti rinfaccia finché vivi ciò che non ti appartiene da anni. Il clic ferma il tempo, certo, ma lo rende, paradossalmente, eterno.

Tiziana ha provato a ribellarsi all’eterno presente, e la giustizia le stava dando ragione, sollecitando alcune società come Facebook a rimuovere i video personali della donna. Ma chiedendole ventunmila euro per spese legali pur da compensare. Questa nuova schiavitù di chi dipende dalla rete, può diventare incubo. Non si contano -ieri è successo a una ragazza di Rimini- le violenze fatte e filmate da amici per metterle in internet e riderci pure sopra. Abbeverarsi alla rete solo per avvelenarla, e morire per la gogna del web: dobbiamo far diventare virali i valori che contano, per non sprofondare nell’abisso.

(Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Il mio ricordo di Carlo Azeglio Ciampi, l’ultimo presidente risorgimentale

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CARLO AZEGLIO CIAMPI FRANCA CIAMPI

Ha avuto un solo grande amore nella vita, la moglie Franca di nome e di fatto, e un solo grande amore nei sogni, l’adorata Italia. Visto da vicino, Carlo Azeglio Ciampi, decimo presidente della Repubblica negli ultimi anni del Novecento, era ciò che appariva da lontano: una persona rigorosa, distante dai fanfaroni, estranea agli intrallazzi di un Palazzo mai frequentato, se non per dovere istituzionale.

Ma quando ho avuto il privilegio d’essere il primo giornalista ad averlo intervistato al Quirinale per la tv (Rai International), quest’uomo già governatore della Banca d’Italia e scelto dalla politica sempre nei momenti difficili – prima presidente del Consiglio, poi ministro del Bilancio, infine capo dello Stato – proprio perché non “apparteneva” ad alcuna fazione, si rivelò persona semplice. Uno dei tanti italiani che s’incontrano ovunque, privi di spocchia e carichi di buonsenso. Di folto aveva solo le sopracciglia sugli occhi azzurri e svegli. “Di che dobbiamo parlare?”, chiese quasi con ingenuità, ben sapendo che il tema concordato era a lui molto caro, l’imminente anniversario del 4 novembre.

Questa libertà di conversare senza rete era, in fondo, lo specchio e lo spirito dell’esistenza. Dalla parte della libertà il giovane Ciampi s’era schierato dopo l’8 settembre. L’umanista raffinato (nientemeno che alla Normale di Pisa), si sarebbe preso, di nuovo, la libertà di studiare e diventare esperto di economia. L’italiano appassionato – di Livorno, figurarsi – al sentimento della libertà repubblicana e popolare avrebbe dedicato l’intero settennato. Facendo riscoprire agli italiani il piacere di cantare l’inno di Mameli, di sventolare il Tricolore non solo ai Mondiali di calcio, e riaprendo l’Altare della Patria ai cittadini, e ripristinando la sfilata del 2 giugno ai Fori imperiali.

Alla libertà economica Ciampi avrebbe poi associato un destino europeo, naturale prosecuzione dell’italianità vissuta con orgoglio: il posto dell’Italia accanto ai grandi Paesi d’Europa, a costo di sacrifici che ancora pesano – si pensi all’introduzione dell’euro -, ma che si fanno per guardare e andare lontano. C’è in questo cammino l’impronta dell’ultimo presidente risorgimentale, convinto che pensiero e azione debbano essere testimonianze e non solo parole. Che passione e rigore siano bussola d’ogni governo. Che la lealtà verso i cittadini sia una missione: dire la verità, pane al pane. Amare perciò la Patria, basta chiamarla “Paese”. È il suo lascito più alto e generoso.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

Cosa succederà “Ai piedi della Piramide”

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Federico Guiglia

C’è un luogo, all’ombra della Piramide Cestia, dove le coppie si sdraiano sul prato per parlarsi con tenerezza. E i ragazzi navigano col computer seduti sulle panchine. E le scolaresche percorrono sentieri disordinati per scoprire versi d’amore e di morte scolpiti sulla pietra. E’ un luogo di vita, pieno di fiori e di sole. Eppure, è un cimitero. “E’ il cimitero di chi morì al di fuori della fede romana, ed è al tempo stesso, forse, il luogo più cattolico della città. Russi, danesi, tedeschi, francesi, inglesi, americani, italiani e uomini di non so quali altre lingue riposano qui tutti insieme nell’attesa della resurrezione. Sotto i suoi scuri cipressi e tra i suoi cespugli di rose vi sono circa milleduecento tombe. Un’assemblea silenziosa da tutto il mondo”. Così annotava sul suo taccuino un viaggiatore dell’Ottocento, il signor Nevin.

Con una mostra intitolata “Ai piedi della Piramide”, in programma dal 23 settembre al 13 novembre, i gestori del Cimitero Acattolico di Roma insieme con la Casa di Goethe daranno voce a quest’assemblea silenziosa. Per commemorare i trecento anni di quel che un tempo si conosceva come “Cimitero protestante”, uno tra i più antichi d’Europa. Attraverso una trentina di quadri, dipinti e immagini provenienti per la maggior parte da collezioni private, e firmate da pittori come William Turner o Edvard Munch, s’intende raccontare la storia del cimitero sorto nel 1716 per necessità e col permesso del Papa Clemente XI. Ai non cattolici era preclusa la sepoltura nella terra consacrata di Roma.

Dunque, sarà la pittura a narrare la poesia. Poeta celebre, infatti, era l’inglese Percy Bysshe Shelley, che nel 1818 aveva descritto le tombe visitate, soprattutto di giovani e donne, con parole struggenti, e che oggi è a sua volta mèta di pellegrinaggio. “Dov’è Shelley?”, chiedono, all’ingresso, ragazzi d’Inghilterra e dell’universo arrivati per deporre bigliettini di gratitudine. “Dov’è Keats?”, chiese Oscar Wilde nella visita del 1877 alla ricerca di uno dei maggiori poeti inglesi del Romanticismo. Il cui epitaffio dice: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”. “Dov’è Gramsci?”, chiese Pier Paolo Pasolini nel 1954, descrivendo poi un “vortice dei sentimenti”. Altrettanto appassionati sono i messaggi dei visitatori d’oggi, come lo scomparso e controverso già presidente del Venezuela, Hugo Chávez. Li lasciano scritti, qualcuno in rosso, su piccoli sassi sopra la tomba di Antonio Gramsci, qui sepolto in virtù della nazionalità russa della moglie.

Il cimitero a ridosso delle Mura Aureliane mescola il verde e la letteratura, l’amore per Roma e l’addio alla patria. Morire lontani da casa, specialmente nell’epoca del Grand Tour, quando i viaggi degli stranieri più colti, ricchi e curiosi erano lunghi e faticosi. Bastava una malattia per non poter più tornare indietro. Stranieri di religione non cattolica e residenti in Italia, ecco a chi è riservato il cimitero. Fra le oltre cinquemila sepolture figurano numerosi i nomi italiani. Dal romanziere Carlo Emilio Gadda al fisico Bruno Pontecorvo, dalla poetessa Amelia Rosselli alla giornalista Miriam Mafai, dal regista Gualtiero Jacopetti al politico Gianni Borgna, al musicista Paolo Di Modica che si è battuto contro la Sla fino alla fine, alla famiglia Bulgari di origine greca. Tante storie, anche di garibaldini, perché un italiano o un cattolico può riposare per sempre nel Cimitero Acattolico “se è partner, coniuge o figlio di una persona straniera qui sepolta”, spiega Amanda Thursfield, la direttrice che tutto ricorda, nominata dagli ambasciatori dei quindici Paesi, dal Regno Unito agli Stati Uniti, a cui spetta la gestione. Ma una regola vale per tutti: sono ammessi solo fiori e piante freschi. Più di quattrocento alberi e pini, e violette, e margherite testimoniano che in tre secoli di memorie la regola è stata rispettata.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Jihadisti, cosa spaventa davvero l’America e il mondo

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Federico Guiglia

Bello o brutto, quel che succede a New York presto o tardi succede nel resto del mondo. L’arresto di Ahamad Khan Rhami, un ventottenne d’origine afgana che era ricercato per le bombe a Manhattan e nel New Jersey, non riguarda i soli americani. Le esplosioni hanno ferito una trentina di persone e infiammato la campagna elettorale per la Casa Bianca, spingendo Donald Trump, lo sfidante di Hillary, a cavalcare subito il crescente bisogno di sicurezza dei cittadini. Adesso il terrorismo fa paura proprio perché incontrollato e imprevedibile: basta un risentito qualunque, come già descrivono la figura del giovane sospettato, e una bomba piazzata nel primo cestino trovato in una strada qualsiasi, per far vacillare milioni di persone. E per indurre il presidente Obama a proclamare che l’America “non si arrenderà”.

Ma questo vale contro le cellule organizzate, quando si possono coordinare forze dell’ordine, servizi di sicurezza e informazioni di tutti i Paesi in allarme per il terrorismo dell’Isis. Che si fa, invece, quando a colpire è un lupo solitario, sia pure abbeveratosi all’ideologia dell’odio anti-occidentale? Come si affronta il bombarolo fai-da-te, quel ragazzo della porta accanto che sembrava così gentile e carino, e invece…?

Per prevenire, oltre alle forze di polizia e alle intuizioni di qualche bravo investigatore, conta soprattutto la sensibilità della comunità. In un quartiere dove tutti più o meno si conoscono e dove nessuno finisce ai margini – perché, se vi finisse, sarebbe subito aiutato o segnalato all’assistenza sociale e istituzionale di chi è preposto a intervenire – , è difficile che s’impongano individui violenti all’insaputa dei più. Dove, invece, regna l’indifferenza ed è inesistente l’attenzione per gli altri, è chiaro che possano estendersi zone grigie d’ogni rischio. A una società consapevole e ancora carica di umanità non sfugge l’anomalia del tale che non si integra. Che vive da separato nel rione, che vive di espedienti. Non tutti costoro, intendiamoci, diventeranno lupi solitari. Ma i lupi solitari s’alimentano sempre nella penombra, covano rancore nell’oscurità di quartieri che si disinteressano dei propri abitanti. Ululano alla luna perché al sole tutti fanno finta di non vederli. Contro il terrorismo il primo antidoto è banale, ma efficace: riscoprire il valore delle cose importanti, senza lasciare nessuno fuori dal giardino. E credere nella forza tranquilla della legge, che tutti devono rispettare e far rispettare.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sitowww.federicoguiglia.com)


Ministro Costa, che cosa aspetta a intervenire in Alto Adige?

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Un caffè con... Enrico Costa

Ministro Enrico Costa, ma gliel’hanno detto che sotto il suo naso la cosiddetta Commissione dei Sei, commissione che dal suo dicastero pur dipende, oggi si riunisce a Bolzano per dare le indicazioni su come fare piazza pulita dei nomi italiani dell’Alto Adige?

L’hanno informata della colossale presa in giro, per cui un’altra commissione del Consiglio provinciale di Bolzano è già stata convocata in parallelo e in seduta a oltranza il 29 settembre, con un testo della Svp già depositato per fare la nuova legge che seppellirà per sempre il bilinguismo dei nomi italiano-tedeschi dell’Alto Adige? E che tale testo già depositato magari riporterà – guarda che coincidenza – proprio i criteri che la Commissione dei Sei oggi indicherà, e che diventeranno a stretto giro criteri di una norma d’attuazione costituzionale? Per cui la legge provinciale in ebollizione farà riferimento alla norma d’attuazione e con ciò il governo nazionale non potrà più impugnare, un domani, la violazione della Costituzione che si prospetta a Bolzano?

Per caso sa, ministro Costa, che il 4 ottobre la Corte Costituzionale si appresta a giudicare l’abominio giuridico di una legge provinciale sulla toponomastica che fa strame della storica dizione italiana, e che fu perciò impugnata dal governo-Monti?

Ecco l’operazione perfetta: Lorsignori ritirano il contenzioso dalla Consulta, per evitare, così, la bocciatura certa della legge anti-italiana. In cambio di ciò, già preparano una nuova legge per cancellare gran parte del patrimonio italiano in modo meno rude e rumoroso, blindandola coi riferimenti alla norma d’attuazione che proprio quest’oggi sforneranno alla Commissione dei Sei sotto il suo naso.
Rare volte capita di assistere “in diretta” a una così grave violazione della Costituzione e dell’obbligo del bilinguismo italiano-tedesco in Alto Adige all’insaputa (o nell’indifferenza) dei ministri che pur dovrebbero vigilare e difendere la nostra Carta e la nostra lingua italiana in tutto il territorio della Repubblica.

Ministro Costa, prenda esempio da suo padre, che è stato, come lei, ministro per gli Affari regionali, sempre consapevole e fermo nel salvaguardare la dizione italiana dei toponimi bilingui in Alto Adige. Dica “Nein, danke!”, dica dignitosamente di “no” a chi vuole sradicare il futuro italiano della memoria. Intervenga subito, rinviando i lavori della Commissione dei Sei finché la Corte Costituzionale non avrà deciso, il prossimo 4 ottobre, come si dovrà applicare il bilinguismo italiano-tedesco in Alto Adige.

Ministro, oggi lei è chiamato a scegliere: può far finta di niente, naturalmente. Oppure può frenare sul nascere il tentativo politico e pubblico, tante volte addirittura rivendicato, di calpestare e cancellare cent’anni di storia e di tradizione italiane che vivono anche attraverso i toponimi. E che rappresentano un intoccabile diritto alla libertà d’espressione: il diritto che gli italiani possano continuare a usare la secolare dizione italiana dei nomi di luogo bilingui, in Italia.



Dalla buona scuola alla scuola buonista

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buona scuola renzi

Passano gli anni, i governi e le legislature, ma non c’è niente da fare: l’abitudine dei politici di rifare la tela della scuola, disfacendola, è più forte di loro. Poco importa che si tratti dell’istituzione di tutti e più importante di tutte: forgia i cittadini di oggi e di domani. Soprattutto grazie all’impegno di autentici artigiani del mestiere, quali sono rimasti gli insegnanti con pochi soldi in tasca e strutture arcaiche davanti alla lavagna, ma molti di loro ancora con passione, capacità e volontà di fornire ai ragazzi le conoscenze apprese da altri. Di generazione in generazione va così di pari passo da una parte la trasmissione del sapere come una sostanza della grande tradizione italiana, dall’altra la riforma della scuola come un’apparenza della piccola rivoluzione politica.

Ma a leggere le novità contenute nella bozza delle legge-delega si scopre che dalle elementari alle medie spariscono -un’altra volta- i voti per far posto alle lettere dell’alfabeto e ai giudizi. Non più “cinque” -orrore!-, all’alunno pur insufficiente. Ora comparirà una “d”. Oppure una “u”, chissà, se per ironico dissenso un istituto decidesse di partire dalla fine, anziché dall’inizio. Niente più bocciature, per carità, previste “solamente in casi eccezionali”.

Le prove Invalsi, poi, quelle che si fanno per tastare il livello della scuola, saranno integrate con un questionario in inglese. Così, coi quiz, imparerà la lingua di Shakespeare chi non sempre conosce bene quella di Dante. Per evitare i sospetti che al Sud i cento e lode abbondino, mentre al Nord scarseggino, ecco che arriva un nuovo sistema di conteggio del voto di maturità. E commissioni d’esame a prevalenza membri interni, o forse no. Grande è la confusione sotto il cielo dell’Istruzione, ma chiaro l’obiettivo: trasformare la “buona scuola” in una scuola buona e buonista, dove l’impegno della classe, il merito dei più bravi, il talento dei singoli nelle materie da ciascuno preferite dipendano più dalla lotteria dei numeri che dal percorso formativo.

Ma sì, diamogli una bella “d”: suona meglio di “cinque”. Chi se ne importa che la scuola serva, al contrario, per aiutare tutti a crescere e migliorarsi. Per premiare chi s’impegna. Per non lasciare nessuno appeso alla “d”. Chi se ne importa se, adottando tali criteri, copiamo il peggio che viene dall’estero, noi che abbiamo una Scuola italiana eccellente dall’asilo alla laurea. Una Scuola da “a”, per farci capire dai nuovi filosofi dell’abbecedario.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco i meriti della denuncia di Raffaele Cantone sulla corruzione dei baroni delle università

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Raffaele Cantone

La riflessione è impietosa, ma inconfutabile: “C’è un grande collegamento, enorme, tra fuga di cervelli e corruzione”. Non sono le parole di uno dei tanti ragazzi in gamba costretti a scappare all’estero, perché privi di santi in paradiso per trovare lavoro in Italia.

Non è neppure il lamento di una delle molte ragazze in media perfino più brave dei maschi al momento degli studi e della laurea, e pure loro spinte a emigrare come i nostri nonni e bisnonni. Ma con un altro tipo di disperazione nell’animo: non più per la fame o la povertà di famiglie e territori, bensì per la chiusura di un sistema indifferente al merito altrui e insensibile al valore del curriculum. Posto che ancora oggi conta di più la telefonata del potente di turno, il favore richiesto dal e al politico, la segnalazione dell’amico giusto per il posto giusto.

A lanciare l’allarme sui giovani che se ne vanno disgustati, è Raffaele Cantone, proprio il presidente dell’Autorità nazionale nata per colpire la corruzione. Lui denuncia uno scandalo sottovalutato: stiamo perdendo le intelligenze della meglio gioventù. E da tempo, come se non bastasse, assistiamo al trasloco di giovani imprenditori altrove, dove burocrazia, fisco e opportunità di intraprendere non opprimono.

Intanto le pur bistrattate Scuola e Università d’Italia continuano a formare eccellenze. Ma quando gli studenti, per i quali istituzioni e famiglie hanno investito un mare di denaro, tirano le somme, e possono cominciare a restituire alla società quel che si sono guadagnati con sacrificio e talento, scatta la trappola. Scatta quell’approccio morale e materiale per cui il posto di lavoro non si conquista, ma si elemosina. E il diritto di chi ha le carte in regola, si trasforma in concessione elargita da qualcuno in cambio di qualcosa. E il dovere dello Stato di assicurare a tutti la possibilità di dimostrare ciò che hanno imparato negli studi, diventa il gioco dei furbetti e dei raccomandati a occupare posti in barba a concorsi, selezioni, esigenze vere e trasparenti.
“Corruzione”, dice Cantone: difficile trovare un riassunto migliore. E poi, a conferma di quel che stiamo perdendo, non c’è un caso al mondo di “cervello” italiano fuggito che il mondo ci abbia restituito per conclamata incapacità. L’Università li forma al meglio, il sistema li deforma al peggio. Fuggono perché si ribellano. Ribelliamoci alla corruzione, allora, perché non fuggano più.

(Articolo ubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché cancellare nomi italiani in Alto Adige è un attacco alla Costituzione

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Federico Guiglia

Come demolire l’Accordo De Gasperi-Gruber (5 settembre 1946), appena celebrato a Trento dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “L’uso, su di una base di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica bilingue”. Giovedì scorso a Bolzano è partita la prima picconata. Una commissione detta “dei Sei” s’è riunita per elaborare la norma d’attuazione di rango costituzionale voluta dalla Svp per sradicare gran parte delle dizioni italiane dei nomi di luogo bilingui italiano-tedeschi esistenti da cent’anni. Il repulisti sarà concentrato su picchi e sentieri, toponimi dell’Alto Adige profondo, risparmiando nomi troppo evidenti da eliminare, come Bolzano o Merano. Sarà un addio imponente: circa il sessanta per cento dei nomi italiani è a rischio.

C’è, però, un ostacolo per dar seguito a un atto di “pura prevaricazione politica, privo di qualsiasi serio appiglio storico e lesivo della Costituzione”, secondo l’appello lanciato anche dall’illustre linguista Carlo Alberto Mastrelli di Firenze. L’ostacolo è che pure lo speciale e costituzionale statuto di autonomia impone l’”obbligo della bilinguità nel territorio della Provincia di Bolzano”. Per questo la Corte Costituzionale era stata chiamata dal governo-Monti a giudicare, il prossimo 4 ottobre, una precedente legge provinciale che brutalmente aboliva le dizioni italiane. Tanto brutalmente, che la stessa Svp d’intesa coi governi-Letta e poi Renzi sta perorando il continuo rinvio del caso per evitarne la bocciatura. E i giudici della Corte stanno a guardare il balletto politico che pur si trascina dal 2012. Congelare tutto, ecco il piano, per consentire l’entrata in vigore della norma in ebollizione alla Commissione dei Sei. Norma che stravolge la lettera e lo spirito del bilinguismo e della Costituzione, ma che di fatto impedirà ai governi di ricorrere alla Consulta, un domani, per eccepire violazioni di leggi provinciali ispirate a questa norma di rango costituzionale nel frattempo cucinata.

La richiesta di fare piazza pulita di migliaia di nomi italiani protetti dalla Costituzione non è giusta o sbagliata: è irricevibile. Invece la distratta politica d’ogni colore, prima il ministro Raffaele Fitto, poi Graziano Delrio, ignorando la storia dell’Alto Adige e l’obbligo del bilinguismo che ne è alla radice della ricca convivenza, ha aperto, “contra legem”, la porta: cancellate pure, ma senza esagerare. “Bilinguismo non è binominalismo”, è stata, subito, la comica invenzione della Svp, già con le forbici in mano per il dono inatteso. Così una quantità di toponimi rilevanti -si ipotizza l’eliminazione addirittura della simbolica “La Vetta d’Italia”-, resterà nella sola versione in tedesco. Così agli italiani sarà impedito di pronunciare in italiano, che è la lingua ufficiale della Repubblica, i posti dove sono nati o cresciuti, i posti visitati dai turisti per il loro incanto. Lo fanno da cent’anni senza infastidire nessuno: i concittadini di lingua tedesca possono tranquillamente pronunciare in tedesco -grazie all’Accordo De Gasperi-Gruber- i nomi di luogo condivisi. Che la questione sia di inaudita gravità l’ha capito il ministro Enrico Costa, che ha chiesto di incontrare subito, giovedì prossimo, i commissari. Ma già si profila la furbizia di una “commissione di studiosi” nominati però dalla politica: in pratica dalla Svp. Senza voler lasciare agli italiani neppure la libertà e la dignità di decidere loro e soltanto loro come chiamare nella propria lingua nomi di luogo in Italia che già hanno un nome da cent’anni. Di fatto saranno gli studiosi tedeschi a certificare, avvalorando o no le scelte degli studiosi italiani, quali e quanti toponimi in italiano potranno sopravvivere alla morte annunciata.

(Articolo  pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Matteo Renzi e il Ponte sullo Stretto, solo un mare di parole?

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Matteo Renzi e Pietro Salini

Se inglesi e francesi sono riusciti a mettersi d’accordo per fare un tunnel sotto la Manica con la parte sottomarina più lunga al mondo (ben trentanove chilometri di galleria ferroviaria), figurarsi se l’ingegneria italiana, autentica eccellenza impegnata in quasi tutte le grandi opere del pianeta, non sarebbe in grado di costruire un ponte sullo Stretto: un capolavoro, l’unico a una sola campata dell’universo. E poi il ponte è il simbolo di apertura, della capacità di tendere la mano, “ponti e non muri” reclama sempre Papa Francesco.

Perché, allora, quando il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rilancia a sorpresa questo sogno che accomuna ingegneri, filosofi e perfino Papi una parte degli italiani, anche quelli aperti di testa e di cuore, storce subito il naso? Intanto, perché è da 140 anni che la politica promette d’unire la Sicilia al resto d’Italia e poi non lo fa. Poi perché Renzi, a differenza dell’impetuoso Berlusconi del quale pur sta riproponendo l’idea tale e quale, compresi i “centomila posti di lavoro”, era tiepido sull’opera. Infine per la curiosa coincidenza: Virginia Raggi, sindaco pentastellato di Roma, ha appena affondato un altro grande sogno, quello delle Olimpiadi e guardacaso lui, il premier fiorentino, risponde pan per focaccia, ovvero Ponte contro Giochi. Quanti sospetti, dunque, che la proposta di Renzi, lungi dall’essere la naturale aspirazione di un popolo che ama osare e sa farlo al meglio, sia o possa diventare solo un richiamo elettorale alla vigilia del referendum. Solo una mossa nella guerra fra i moderni guelfi e ghibellini di casa nostra, più aspra persino delle antipatie fra inglesi e francesi superate nel 1994 con l’inaugurazione del tunnel sotto la Manica.

Insomma, Renzi ci crede o ci fa? Ha sposato la causa perché sta portando a casa la Salerno-Reggio Calabria dopo decenni di ritardo, e perciò può ora rivendicare il coronamento della rete a Messina? Oppure è propaganda? Comprendere se è essenza o apparenza, è fondamentale anche per affrontare vecchie polemiche, come il rischio terremoti in quell’area (rischio superato da ponti e tecnologie all’avanguardia in altre e analoghe parti della Terra). E poi l’insidia di appalti in balìa dei mafiosi. Dovrà essere garantito il controllo dell’Autorità anti-corruzione con poteri da pugno di ferro. Alla fine il punto sul ponte è che possa crollare solo sotto un mare di parole.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa sta succedendo al Comune di Roma con Virginia Raggi

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CONFERENZA STAMPA RAGGI SU NO AD OLIMPIADI

Forse siamo arrivati al nocciolo della “questione romana”, come all’epoca del Risorgimento si invocava il ruolo della capitale d’Italia e non più sede temporale del Papa. Tramontati i grandi ideali di ieri e risolto da tempo il rapporto del Vaticano con la sovrana Repubblica italiana grazie ai Patti Lateranensi inseriti nella Costituzione, ora la città è nuda e cruda.

Roma, che per il mondo intero vuol dire Amor all’incontrario, non è mai stata così sporca, degradata, mal amministrata di giunta in giunta. E quando si tocca il fondo, emergono anche le verità più gravi. Il Ragioniere generale del Comune, Stefano Fermante, sarebbe pronto a gettare la spugna, dopo aver indicato ciò che tutti vedono, ma nessuno come lui, l’uomo chiamato a fare i conti per dovere istituzionale, aveva ancora denunciato. La città è sull’orlo del baratro economico e finanziario, è il suo allarme messo nero su bianco in venti pagine di cifre e di dolore.

Questo avviene mentre la Procura chiede tre anni di carcere per l’ex sindaco Ignazio Marino, accusato di peculato e falso per l’uso improprio della carta di credito che gli aveva assegnato l’amministrazione capitolina, e di concorso in truffa per una precedente e presunta vicenda di compensi destinati a collaboratori fittizi. “Mai fatto illeciti”, replica l’interessato. Ma al di là delle inchieste, delle polemiche per il no grillino alle Olimpiadi confermato dal Consiglio, della “perdita dei pezzi” della Giunta-Raggi ad appena tre mesi dall’insediamento, è l’immagine complessiva della città ad uscirne devastata. L’addio del Ragioniere Generale del Campidoglio (“ma noi non ne siamo informati”, frena o forse spera il governo capitolino), è il dito nella piaga. E’ la rappresentazione delle cause chiare e profonde della “questione romana”, oggi. Che non è solo questione politica e organizzativa -i servizi pubblici peggiori d’Europa per una capitale sono concentrati qui-, ma economica. E’ il dissesto la madre di tutte le inadempienze.

E’ la cronica incapacità di saper fare bilanci col rigore di una qualunque famiglia italiana, e nonostante il fiume di denaro che scorre nella città del Tevere, ad aver infettato Roma e alimentato la corruzione. “Mafia capitale” si chiama, non a caso, l’indagine che svela il sottobosco dell’illegalità. La rivolta morale e legale -sembra il monito del Ragioniere, pur Generale-, faccia sua l’unica utopia che in questo disastro ancora “conti”: i conti in regola.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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