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Cosa penso delle intercettazioni

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Federica Guidi

Prima o poi ogni governo sempre lì va a finire: alla voglia di fare una nuova legge per regolamentare le intercettazioni telefoniche. Era il nervo scoperto di Silvio Berlusconi quando stava a palazzo Chigi, ed è oggi la spina nel fianco di Matteo Renzi, che contesta la cattiva abitudine -“cattiva” a sentir la politica-, di rendere pubblico ciò che spesso non ha rilievo neanche penale.

Con ogni evidenza hanno lasciato il segno le fresche dimissioni del ministro, Federica Guidi, per quello che si è letto di quanto lei avesse detto al telefono parlando col compagno, Gianluca Gemelli, nell’ambito dell’inchiesta promossa dalla Procura di Potenza sul giacimento petrolifero Tempa Rossa. Un addio dettato da squisite ragioni di opportunità politica e comportamentale. Che ha però innescato l’ennesimo conflitto irrisolto fra magistratura e politica col solito terzo incomodo della stampa che pubblica e divulga conversazioni private o irrilevanti, secondo i governi e i presidenti del Consiglio che si alternano, ma che sul punto curiosamente concordano: occorre intervenire per riaffermare il diritto costituzionale alla riservatezza anche per chi esercita funzioni istituzionali o incarichi pubblici.

Ma qui sono in ballo un paio di principi entrambi importanti. Il primo riguarda la tutela di chiunque, non solo di un politico, che magari si vede sbattuto in prima pagina senza aver commesso nulla di male. Inaccettabile. Il secondo concerne il diritto del cittadino di venire a conoscenza in modo corretto di fatti e retroscena che, a prescindere dagli effetti penali -di cui, peraltro, sono spesso intrisi-, aiutano a ben comprendere il mondo che li circonda. Emblematico fu il caso del presidente americano Richard Nixon, il cui linguaggio volgare quando parlava al telefono con i collaboratori, e che fu reso pubblico, si rivelò un pugno nello stomaco per tutti, al di là della vicenda del celebre caso-Watergate che ne provocò le dimissioni quarantadue anni fa.

Piaccia o no alla politica, il personaggio pubblico ha una sfera attenuata della propria riservatezza. E a differenza dell’indifeso cittadino qualsiasi, non può lamentarsi se, pizzicato per intercettazioni legittime e riguardanti un suo interlocutore, ne viene fuori malconcio. Il protervo diritto all’onnipotenza tipico di ogni potere qui non vale. E allora: basta coi mostri in prima pagina. Ma niente museruola alla cornetta per celare scomode verità.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Le italianissime renzate di Matteo Renzi

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Matteo Renzi (15)

Finalmente si dice ad alta voce ciò che gli italiani sapevano, ma che per timidezza o per sciocco istinto all’autodenigrazione preferivano tacere: che il nostro vino è migliore di quello francese. Pertanto è il più buono del mondo (oltre che il più venduto).

Ma quando a dirlo è il presidente del Consiglio mentre partecipa al Vinitaly – evento, a sua volta, di valenza universale – il concetto va al di là della battuta pronunciata. Anche col sorriso si possono comunicare cose molto serie. Eppure, per troppo tempo nelle istituzioni è mancato il pubblico elogio della creatività e del lavoro italiani con quello che rappresentano in ogni ambito, dall’industria alla cultura, dalla moda allo sport, dal belcanto al cibo e a tutto ciò che nel pianeta si identifica col nostro stile di vita. Ben venga, allora, un premier che rivendica d’indossare le mutande di Intimissimi, se con questa boutade si vuole trasmettere il tranquillo orgoglio di essere italiani.

Certo, un presidente del Consiglio non ha il dovere d’essere simpatico. Renzi non può presumere di piacere ai cittadini cavandosela sempre con frasi ad effetto: a un premier gli italiani chiedono ben altro. Ma questo non significa che chi rappresenta il governo non possa cogliere ogni occasione per sostenere anche con la goliardia di una battuta il made in Italy (oltre che con atti e fatti, si spera).

La questione delle mutande del premier arriva in una giornata politica particolare: la controversa riforma della Costituzione voluta da Renzi e dalla maggioranza, e osteggiata da tutte le opposizioni, s’avvia alla definitiva approvazione. L’ultimo braccio di ferro va in scena alla Camera, dove le opposizioni hanno scelto d’abbandonare l’aula al momento del discorso del presidente del Consiglio. Ma qui le mosse e le battute contano poco, perché lo scontro fra le parti avrà comunque uno sbocco obbligato: saranno i cittadini a decidere con un referendum non solo se confermare le modifiche della Costituzione, ma anche se lasciare Renzi a Palazzo Chigi. Se gli italiani non saranno d’accordo, lui ne “trarrà le conseguenze”, come ha ribadito. Non potrebbe essere altrimenti, visto che il premier ha legato il suo destino politico alla volontà di cambiare l’Italia. Obiettivo che mai potrebbe conseguire senza il consenso dei diretti interessati, che saranno chiamati a dire la loro su un altro modo, e non meno rilevante, di intendere il made in Italy: quale architettura per la Repubblica.

(commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché il Muro del Brennero è una paurosa follia

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MILANO STAZIONE MIGRANTI (1)

Sembra tutto piccolo e irrilevante in confronto alla grande realtà dell’Unione dei ventotto Paesi. Piccola è l’Austria coi suoi otto milioni e mezzo d’abitanti, appena l’1,7 per cento dell’intera popolazione europea. Piccoli appaiono i duecentocinquanta metri di effettivo passaggio alla frontiera che Vienna intende blindare.

Piccolo è pure il flusso dei migranti che vanno di là e soprattutto vengono di qua dal Brennero. Eppure, i lavori in corso del governo austriaco per trasformare la porta d’Italia verso l’Europa in un muretto coi poliziotti di guardia, aree per detenere i profughi e, si può immaginarlo, tanti cani lupo pronti a inseguire i fuggiaschi, rappresenta al meglio il peggio dell’Europa: l’addio alla libera circolazione delle persone e delle merci. La fine dei ponti e dei sogni. L’illusione che chiudendosi a chiave, il fortino austriaco non potrà essere espugnato. Espugnato, oltretutto, non da armate bellicose, ma da un modesto esercito di povera gente che nella maggior parte dei casi cerca solo un destino migliore e altrove. Sergio Mattarella, un presidente che non ama le parole forti, stavolta ha bollato come “zavorra” la barriera che si sta costruendo al Brennero trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, e cent’anni dopo la fine di quella Grande Guerra che ha dato all’Italia il suo confine settentrionale, naturale e strategico.

Un confine sempre più aperto col trascorrere del tempo e lo sviluppo di una nuova coscienza europea frutto della pace, dei viaggi, degli incontri fra popoli oltre ogni frontiera. Ma se per andare in Europa bisognerà prima bussare alla porta del Brennero, significa rompere tutto. Se per venire in Italia i turisti, i trasportatori e chiunque dovranno prima chiedere permesso agli austriaci, di quale “Unione” parliamo? L’Unione delle scatole cinesi dove ogni Paese contorce i suoi confini. Un’attrazione fatale che s’insinua nel Nord Europa, nei Balcani, nei Paesi dell’ex Est. Chiudere il Brennero è il concreto esempio di quanto tale pregiudizio abbia fatto strada.

Nelle ore in cui Papa Francesco annuncia il viaggio all’isola greca di Lesbo “per esprimere vicinanza ai profughi”, il confine italiano ed europeo diventa il simbolo mondiale della paura e della miopia. È un’evidente violazione del Trattato di Schengen, che ha abolito i controlli alle frontiere. È un danno anche all’economia, che si nutre di viaggi, di scambi, di libertà. È un pugno nello stomaco per tutti.

(Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)

(Foto d’archivio)


Referendum, cronaca e storia

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Referendum 2

A volte il referendum ha cambiato l’Italia, a volte di lui s’è abusato. Sempre ha costretto il Parlamento a modificare le leggi, ma spesso è stato tradito. Comunque ha unito e diviso l’opinione pubblica in modo trasversale, sia nell’epoca in cui prevalevano i “no” all’abolizione delle leggi – soprattutto all’inizio della sua istituzione –, sia nell’era dei “sì” o delle astensioni. Quanta storia può raccontare il referendum abrogativo che oggi, alla giovane età di quarantadue anni (primo compleanno il 12 e 13 maggio 1974 sul divorzio), potrebbe andare in pensione. La riforma costituzionale che sarà a sua volta sottoposta a un referendum confermativo in autunno, ha infatti modificato le attuali regole, alzando il numero delle firme richieste per promuoverlo e rivedendo i criteri per la validità del quorum. Se gli italiani approveranno la nuova Costituzione, sarà anche l’addio al referendum così come l’abbiamo finora conosciuto e arriverà la novità del referendum non solo abrogativo, ma anche propositivo.
Eppure, la Repubblica nata proprio sull’onda di un altro referendum che il 2 giugno 1946 archiviò per sempre l’istituzione della monarchia, ci mise ventidue anni e cinque legislature per dare corso a quanto era ed è previsto all’articolo 75 della nostra Carta: il referendum popolare.
Ma dal giorno del pionieristico quesito sul divorzio che mobilitò ben l’87,7 per cento del popolo sovrano, i cittadini ne hanno viste di tutti i colori. Dai referendum sulle grandi questioni come l’aborto, la scala mobile o il nucleare alle consultazioni di dettaglio come i pesticidi o la separazione delle carriere dei magistrati. Dai quesiti sulla giustizia giusta a quello sulle tv, passando per i referendum elettorali che, pur abrogativi, hanno di fatto introdotto il principio maggioritario. E poi le consultazioni per abolire il finanziamento pubblico ai partiti, ben due in tempi diversi, ma il cui esito fu ignorato dal ceto politico.
La lunga marcia dei cinquantatré referendum ha dimostrato quanto possa essere potente e impotente questo strumento di democrazia diretta. Ha mostrato anche quanto saliva la febbre degli italiani, che talvolta si pronunciavano in un modo o nell’altro soprattutto per “farsi sentire” dal governo e dal Parlamento. E poi ha dato fama a diversi dei suoi artefici, dai radicali a Mariotto Segni.
Con alti e bassi, con i suoi scontri epici e i suoi quesiti spesso indecifrabili, il referendum è ormai autobiografia degli italiani.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Legittima difesa, ecco i nodi del contendere

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CAMERA, DISCUSSIONE RIFORME COSTITUZIONALI

Se il tema non fosse molto serio, verrebbe da sorridere sulle ragioni del braccio di ferro in Parlamento tra chi vuole una riforma “morbida” della legittima difesa e chi la reclama “dura”. Come se un diritto elementare delle persone aggredite, non per caso previsto in tutti i codici del mondo, potesse essere interpretato in modo tenero oppure arcigno. Nel dubbio dei contendenti, che sono soprattutto il Pd da una parte e la Lega dall’altra con in mezzo l’Ncd che tira un po’ di qua e un po’ di là, il testo è tornato in commissione dall’aula della Camera dove si trovava. Ma così si rischia il peggio per tutti: che il necessario aggiornamento della legge a tutela delle vittime colpite e rapinate in casa, al lavoro o dove sia, venga rinviato fino a quando gli Azzeccagarbugli delle contrapposte parti si saranno accordati.

Intanto, però, la Procura di Vicenza riporta Lorsignori coi piedi per terra, chiedendo l’archiviazione per Graziano Stacchio, il benzinaio di Ponte di Nanto accusato di eccesso colposo di legittima difesa. In una sera di febbraio del 2015 l’uomo prese un fucile e sparò per difendere la commessa di un negozio di preziosi assaltato da criminali. Il malcapitato ne uccise uno, schivando raffiche di mitra. Da qui la richiesta della magistratura, che con ogni evidenza considera proporzionata al drammatico evento quella difesa della donna.

Nient’altro che analoga attenzione ora si pretende dal legislatore. Perché qui non è in ballo alcuna par condicio né presunzione d’innocenza: chi entra illegalmente in casa altrui, spesso armato e disposto a ogni violenza pur di rubare e devastare, già di per sé si mette sul banco degli imputati. Delinquenti e derubati hanno in comune soltanto la prima sillaba. Immaginare di trattare con lo stesso anelito garantista il colpevole e la vittima, entrambi acclarati, significa non capire il disgusto profondo che tanti italiani colpiti nei loro beni e nei loro affetti provano per una legislazione oggi ingiusta, insufficiente e troppo “interpretabile”.

Il pericolo maggiore non è che tranquilli e disarmati cittadini ambiscano a diventare giustizieri. E comunque reazioni da Far West si possono accertare con facilità e punire con severità. Il pericolo è che l’assalto dei delinquenti non venga percepito come uno dei crimini più odiosi. E che le vittime siano lasciate sole non soltanto nel buio della notte, ma anche il giorno dopo di fronte alla Legge.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa penso delle parole di Piercamillo Davigo

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Piercamillo Davigo

È l’ora dei pompieri. Provano tutti a buttare acqua per spegnere la polemica incandescente del presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e soprattutto simbolo di Mani Pulite, Piercamillo Davigo, che parlando a Pisa ha lanciato l’allarme contro la corruzione dilagante. Precisando che i politici di oggi “rubano più di prima, solo che ora c’è meno vergogna”. Sia da parte del Consiglio superiore delle toghe, sia da parte del ministro della Giustizia, Orlando – oltre che del presidente del Consiglio, Renzi -, si è levato un coro trasversale per reclamare toni più bassi e reciproco rispetto.

Lo stesso Davigo ha poi puntualizzato che il suo grido di denuncia non era rivolto contro tutti i politici. Ma al di là degli inviti al “senso di responsabilità” fatti da ogni parte, e alle richieste dei partiti che i magistrati parlino solo con le sentenze, il fuoco cova sotto la cenere.

L’opposizione, in particolare quella di Beppe Grillo, condivide in pieno la requisitoria di Davigo: segno che lo scontro in atto ha già le sue ricadute elettorali in vista delle prossime amministrative.

D’altra parte, ventiquattro anni dopo l’esplosione di Tangentopoli nel 1992 a Milano, sarebbe arduo per chiunque affermare che la lotta alla corruzione stia andando alla grande, se proprio a Roma c’è un inchiesta denominata, nientemeno, che “mafia capitale”. Oppure dire che il furto sia estraneo alla politica, se perfino un esercito di consiglieri regionali – più di cinquecento – d’ogni parte d’Italia è stato indagato per l’uso “disinvolto” dei fondi per l’attività politica. Quella frase di Davigo può risultare inopportuna per alcuni o ingiustamente generica. Però è inutile fare gli ipocriti: contiene una verità innegabile e amara. Una verità che qualunque cittadino italiano è in grado di cogliere non solamente leggendo la cronaca, mai così nera, dei giornali, ma anche vedendo quanta inefficienza, incompetenza, inconcludenza dominino nel settore pubblico e nella politica. L’ideale terreno di coltura per la disonestà, piccola o grande.

Se le parole di Davigo fossero infondate, a indignarsi non sarebbero stati i partiti, ma la gente. Invece oggi rubano e neppure se ne vergognano: chi osa contestare che in troppi casi non sia proprio così?

E’ vero, i politici non sono tutti uguali, e i cittadini sanno distinguere perfettamente. Ma la denuncia contro la corruzione non è un capriccio di Davigo: è la società che non ne può più.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché occorre fare muro contro il muro del Brennero

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Norbert Hofer

Nelle stesse ore in cui l’Austria faceva i conti con la volontà dei suoi elettori, che hanno appena assegnato il primo posto della corsa presidenziale all’ingegner Norbert Hofer, leader del partito più favorevole alla costruzione della barriera anti-immigrati al Brennero, il presidente americano Obama citava Papa Francesco: “I muri non servono”. Lo faceva dall’incontro di Hannover, accompagnato e sostenuto dai leader dei quattro principali Paesi d’Europa, Germania, Francia, Gran Bretagna e ovviamente Italia. Il voto di Vienna da una parte, il vertice del G5 dall’altra: due facce dello stesso Occidente. Due modi e mondi opposti di affrontare il dramma di quanti lasciano la loro terra richiamati dalla prosperità, dalla protezione, dalla suggestione della vecchia Europa.

Il muro o il ponte, la chiusura delle frontiere -come sull’onda della destra austriaca più radicale reclamano anche altri Stati e movimenti populisti dell’Unione-, oppure un’accoglienza civile e rigorosa, cioè controllata e concordata. La paura che respinge e rinchiude oppure la lungimiranza di una politica coraggiosa, capace di regolare il fenomeno e di risolvere il problema: perché l’immigrazione è oggi percepita come l’insidia maggiore dai cittadini, e i governi devono dare una risposta convincente e duratura.

Tuttavia, una cosa è salvare la gente e distribuirla fra tutti i ventotto Paesi con programmi mirati all’insegna di una solidarietà condivisa. Altra è sbattere la porta di casa sul naso dei disperati che arrivano, quasi fossero il nemico alle porte, anziché un povero esercito spesso di senza patria, affamato e sconvolto da guerre. Che chiede solo conforto.

Ma la Merkel, Hollande, Cameron e il nostro Renzi rappresentano le nazioni più potenti, ricche e popolate dell’Unione. Non possono limitarsi a citare il Papa, sia pure per interposto Obama. Non possono “deprecare” a parole il miope anacronismo degli austriaci o di chiunque, nel continente, pensi di affrontare le migrazioni coi poliziotti di guardia e i cani lupo al confine. Essere forti coi deboli, che tristezza. L’Europa di Schengen, dell’Erasmus e dell’euro, l’Europa che s’è costruita su un ideale di libertà e su un’idea di pace, non può accettare che una parte di sé, oltretutto la più piccola, remi nella direzione opposta. È ora di fare muro contro il muro. È il momento di un’iniziativa politica inequivocabile contro chi sta dimenticando l’essenza dell’umanesimo: le nostre radici.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Leicester, il miracolo italiano di Claudio Ranieri

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ranieri

A Leicester, la città al centro dell’Inghilterra salita al centro del mondo da quando la sua squadra di calcio per la prima volta in 132 anni di storia ha vinto il campionato nazionale, non hanno ancora deciso se dedicargli una strada oppure una statua. Intanto, il nome che va per la maggiore tra i bambini che nascono è Claudio. E l’alimento più amato del luogo, la salsiccia, è stato ribattezzato “salsiccia Ranieri”. E i cori allo stadio lo invocano sempre sulle note indimenticabili di Modugno, “Nel blu dipinto di blu”. E il sindaco adesso evoca la forza del destino: la città fondata dai Romani, ricorda con orgoglio Peter Soulsby, oggi ritorna all’attenzione dell’universo proprio grazie a un romano.

Quanto grande è diventato il piccolo miracolo di Claudio Ranieri, l’allenatore del quartiere Testaccio di sessantaquattro anni portati con elegante umiltà che sta facendo sognare la Gran Bretagna e oltre. “Mamma mia!”, hanno titolato i compiaciuti giornali inglesi, dopo aver scoperto che Ranieri era volato in Italia dalla mamma novantaseienne, prima di godersi la vittoria più bella della sua vita e in parte anche della nostra. Nostra, nel senso di tutti quelli che si appassionano e persino commuovono a un pensiero meraviglioso: in quest’Europa così triste e miope, tutta intenta a immaginare muri e conflitti, è toccato a un italiano restio alle telecamere e che non si monta la testa dimostrare la bellezza delle frontiere aperte. Forte solamente del suo lavoro tanto bistrattato in patria (“l’eterno secondo”, lo chiamavano con ironia, come se essere secondi non fosse già dimostrazione di primeggiare), Ranieri ha rovesciato pronostici e pregiudizi. Ha dato fiducia a ciascuno dei suoi giocatori d’ogni lingua e nazionalità: la felice mescolanza. Un’allegra brigata che Ranieri ha trasformato in principi del pallone. Snobbati e pagati meno degli altri. Ma ora tutti li cercano, i ragazzi del Leicester. Come le favole diverse, ma suggestive del Crotone di oggi o del Verona di trentun anni fa.

Quale miglior ambasciatore di italianità di Ranieri, il nostro “King Claudio”, il loro “imperatore Claudio”. Un signore dalla vita semplice e lineare, sposato da quarant’anni con la stessa moglie. Un’esistenza come quella di tanti italiani che valgono perché sono bravi. Che vincono senza sgomitare: col sorriso sulle labbra. Che si fanno ben volere per la loro tenera e mai giovanilistica simpatia. Ranieri insegna: i sogni sono blu, come “Volare”. E non muoiono all’alba.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Chi gongola per i Black bloc al Brennero

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CONFERENZA STAMPA DEL MINISTRO DELL'INTERNO AUSTRIACO

Ci hanno pensato loro a chiudere la frontiera. Non, però, gli austriaci, come avevano più volte annunciato e che, per la prima volta, al contrario, oggi rassicurano l’Italia: “Al Brennero non ci sarà alcun muro e il confine non verrà chiuso”, secondo le parole del nuovo ministro dell’Interno, Wolfgang Sobotka (nella foto). Segno che forse le autorità di Vienna cominciano a rendersi conto che sbarrare uno dei principali passaggi del continente sarebbe “una catastrofe politica”, per dirla con la Commissione Europea.

Quelli che invece per diverse ore hanno bloccato tutto lassù, al valico, occupando strade, binari e autostrade, sono stati centinaia di cosiddetti black bloc, in gran parte ma non solo italiani per protestare contro la chiusura annunciata. Con i soliti caschi e passamontagna ben calati per non essere riconosciuti, si sono dedicati a ciò che li rende riconoscibili: la violenza. Lancio di pietre e di molotov contro la polizia, uso di mazze e di bastoni. Il solito “linguaggio” da professionisti della guerriglia che s’inebriano di scontri, lasciando sul terreno devastazioni e feriti. Stavolta ben diciotto agenti feriti, a fronte di pochi arresti e fermati tra i manifestanti vestiti di nero. Che vorrebbero trasformare anche il Brennero in una lotta continua e distruttiva, stile scontri già visti in Val di Susa o contro l’Expo. Uno spettro che s’aggira per l’Europa.

Ma l’uso della violenza al valico può avere anche risvolti politici negativi. Perché dà agli austriaci un alibi per giustificare l’ingiustificabile muro in nome della sicurezza. Perché trasforma il pacifico dilemma di come accogliere e controllare poveri migranti -dilemma che divide Roma e Vienna-, in atto di aggressione contro persone (pure i giornalisti) e cose. Perché dà l’idea che le nostre autorità sottovalutino i facinorosi: se avessero manifestato sul versante austriaco non avrebbero goduto delle stesse libertà di violenza di cui hanno beneficiato sul suolo italiano.

L’Italia non può rischiare, a causa di pochi eppur organizzati provocatori, di passare dalla parte del torto, avendo ragione piena: giù le mani dal Brennero, il nostro crocevia più europeo che ci sia. Ora gli austriaci ci chiedono “di fare i compiti” per evitare i loro controlli al valico. Ciò che gli italiani stanno facendo a fronte del dramma delle migrazioni è ben più di un compitino. E comunque, chi pensa a un muro, non può dare né chiedere lezioni a nessuno.

(Articolo pubblicato sul Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Addio a Paolo Granzotto, un signor giornalista

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fotogramma - mascheroni - INDRO MONTANELLI

“Per vent’anni ho vissuto a fianco di Montanelli e non parlo solo della vita professionale, delle giornate passate in redazione. Non saprei dire se per me fosse un padre, un fratello maggiore, uno zio o un amico. Montanelli manca un po’ a tutti. A me moltissimo”. Così scriveva, dodici anni fa, Paolo Granzotto nel suo libro Montanelli, titolo essenziale e senza fronzoli, com’erano entrambi nella vita e nella scrittura.

Perché Granzotto, romano, morto ieri a Milano a 76 anni, era uno dei pochi giornalisti autenticamente montanelliani non soltanto per aver condiviso con lui la sfida de Il Giornale nel 1974. Di Montanelli, Granzotto aveva lo stile cristallino e sarcastico del racconto, l’amore colto e libero per la storia, la vocazione a stare sempre dall’altra parte della barricata. E poi la dedizione per i lettori dei suoi articoli e libri: per anni ha curato, come prima di lui Montanelli, la rubrica l’”angolo di Granzotto” sul Giornale.

Figlio d’arte di Gianni Granzotto, nella gavetta di Paolo ci fu, oltre a Il Messaggero, anche “un quotidiano di provincia che voleva mostrarsi all’avanguardia: pur di scrivere, m’ero adattato a firmare con uno pseudonimo al femminile, Emma Conti. Montanelli mi disse: se sei così bischero d’avere accettato, vuol dire che il giornalismo lo hai nel sangue. Auguri. Compivo i diciott’anni”. Paolo Granzotto, un signor giornalista.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Come stanare i jihadisti fai da te

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terrorismo

Loro non mollano mai. Quando meno te l’aspetti, ecco il fermo di tre insospettabili (ma non, per fortuna, per gli investigatori) accusati di far parte di una cellula terroristica legata all’autoproclamatosi Stato islamico e ad Al Qaeda. Due di loro, di nazionalità afgana, sono stati presi a Bari, il terzo, cittadino pakistano, a Milano. E altri due sarebbero fuggiti per Kabul giusto in tempo. Ma secondo carabinieri e magistrati, nell’insieme il quintetto sarebbe stato pronto a compiere attentati in luoghi pubblici scelti con cura: aeroporti e porti, centri commerciali e alberghi non solo in Italia, ma anche in Francia, in Belgio e in Gran Bretagna. Pure i simboli delle capitali nel mirino, come il Colosseo e il Circo Massimo a Roma.

L’inchiesta accerterà le presunte responsabilità e il livello di pericolo concreto del progetto. Ma già risulta chiara una piccola, grande novità: non si parla di cinque cani sciolti o “lupi solitari”, come vengono spesso bollati i singoli terroristi disposti a tutto, anche se apparentemente poco coordinati fra loro. Si tratterebbe, stavolta, di uomini che “facevano rete”. Gente organizzata, dunque, persone che potevano disporre, secondo gli inquirenti, di armi, denaro, piani fotografici, video e quant’altro potesse servire per l’eventualità prevenuta dopo mesi di indagini. Dalle quali indagini non manca nemmeno un selfie: quello trovato a uno dei tre fermati, che aveva preteso di farsi la sua bella foto con l’ovviamente ignaro sindaco di Bari, Antonio Decaro, durante la cosiddetta “Marcia degli Scalzi”.
Fu una manifestazione promossa in varie città d’Italia nel settembre dell’anno scorso per dare solidarietà e infondere spirito d’integrazione verso e da parte degli immigrati. Paradossalmente quell’autoscatto oggi acquista un valore importante: testimonia quanto le buone cause possano essere strumentalizzate dai malintenzionati. Dimostra quanto sia difficile, eppur doveroso, distinguere l’azione di pochi, ma pericolosissimi pseudo-migranti dalla massa di rifugiati autentici. Come individuare in tempo estremisti che decidono persino di sottolineare con un “clic” la loro finta vicinanza a un mondo, libero e occidentale, che invece odiano e vogliono abbattere con la violenza.
E’ la conferma che nessun Paese d’Europa può chiamarsi fuori. E che senza una forte e continua attività investigativa di prevenzione, anche l’Italia rischia di diventare una sorta di base per terroristi multi-uso.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Che cosa ha detto davvero Papa Francesco sulle donne diacono

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UDIENZA GENERALE DEL MERCOLEDI

Non sorprende che Papa Francesco, l’uomo venuto “quasi dalla fine del mondo” che non perde occasione per esortare popoli e nazioni ad aprire ponti, abbia appena proposto una piccola grande novità per la Chiesa cattolica, apostolica e romana: l’istituzione di una commissione di studi per valutare la possibilità che anche le donne possano amministrare alcuni sacramenti come il battesimo e il matrimonio. Il diaconato al femminile, dunque. Un ruolo nuovo da attribuire alle donne nel primo grado dell’ordine sacro che precede il sacerdozio e l’episcopato. Ruolo nuovo, eppure antico, perché nei primi secoli della Chiesa già esistevano le diaconesse, pur esercitando una funzione “rimasta un po’ oscura”, come ha ricordato il Pontefice annunciando la decisione durante un incontro con quasi novecento rappresentanti delle comunità religiose femminili e dell’organismo internazionale delle Superiore Generali. E’ un’iniziativa che potrebbe domani diventare svolta storica per una Chiesa da duemila anni in mano agli uomini nella sua organizzazione e predicazione.

L’idea che le donne-diacono “siano una possibilità per l’oggi“, secondo le parole di Francesco, arriva nel bel mezzo della polemica rovente, promossa soprattutto dagli ambienti politici cattolici, contro la legge sulle unioni civili approvata dal Parlamento. Una parte di questo fronte ha dichiarato lotta dura e senza paura: promessa di un referendum contro il provvedimento, petizioni al Quirinale per non promulgare il testo e invito ai sindaci all’obiezione di coscienza, cioè a non applicare una legge della Repubblica.

Rispettando la legalità, ogni dissenso è legittimo e benvenuto. Specie su una materia che riguarda non l’astratta ideologia, bensì la vita concreta e i diritti delle persone. Ma proprio questo rende così diverso l’approccio di un Papa che coglie il senso comune delle cose (ha ancora significato, nel 2016, escludere le donne dall’amministrare sacramenti?), in confronto alla politica che rivendica valori cattolici, ma fatica a vedere, sentire e parlare alla società che cambia. Anche i credenti, a maggior ragione quelli che fanno politica, dovrebbero decidere se limitarsi a contemplare il mondo, oppure se cercare di interpretarlo e perfino di cambiarlo. Nessuno può più restare alla finestra. Né reagire in modo spesso strumentale e talvolta ipocrita al tentativo di capire e di camminare al passo del proprio tempo.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Marco Pannella, le intuizioni e le follie

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Marco Pannella

Nessun italiano può dire d’aver condiviso tutte le battaglie di Giacinto Pannella detto Marco. Ma tutti gli italiani possono dire d’avere condiviso, durante il suo lungo pellegrinare in politica, almeno una delle tante e controverse sfide che lo storico leader dei radicali proponeva col candore dei suoi grandi occhi blu e l’irriverenza della chioma bianca, ormai, che lo rendeva un po’ guru e un po’ guerriero. Il guerriero della non violenza, pronto a sacrificare non la vita degli altri, ma la sua per obiettivi spesso impopolari. Sempre, però, ispirati dalla buona fede e da principi, come succede con quei navigatori solitari e controcorrente che fanno dell’altrui incomprensione, o addirittura indignazione, la forza per farsi ancor più valere e contestare.

E’ impossibile, allora, e forse anche ingiusto, fare la classifica, adesso che Marco Pannella non c’è più, delle sue intuizioni e delle sue follie. Stabilire, per esempio, se l’impegno nazionale per i diritti civili, a cominciare dal divorzio nel 1974, meriti d’essere ricordato prima delle mobilitazioni internazionali per la fame nel mondo o contro la pena di morte, bandiere di un italiano fuori dal comune che poi sventolavano nell’universo. Oppure se il rispetto che s’è guadagnato da tutti i Papi – proprio lui, l’anti-clericale – dipendesse da un senso di misericordia che Pannella dimostrava per gli ultimi, fossero essi carcerati o emarginati, i poveri e non i ricchi, Caino anziché Abele.

O decidere, ancora, se l’uso e l’abuso che ha fatto dei referendum in un’Italia troppo sottomessa ai partiti per poter ascoltare la voce della gente, siano stati più importanti delle iniziative contro un potere che mai servì. E di cui mai si è servito. Un combattente delle cause perse, e non solo né sempre di quelle giuste, morto senza incarichi politici o istituzionali, nonostante l’intero Palazzo ora lo santifichi.

Ma se “Marco” viene già rivalutato nonostante i mal di testa causati ai suoi tardivi elogiatori, è perché appare, paradossalmente, come un cittadino normale e perciò esemplare per una classe politica che così poco gli somiglia. “Pannella odora di bucato”, diceva Montanelli per rimarcare la probità di un leader discusso solo per quello che diceva e faceva, liberamente. E molto ha fatto infuriare gli italiani: in pochi, alla fine, votavano per lui. Ma oggi tutti hanno il diritto al rimpianto. Perché sanno d’aver perso un rompiscatole che talvolta ha dimostrato la visione di uno scomodo profeta in patria.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Vi racconto l’ultima nefandezza anti italiana in Tirolo

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Tirolo

Neanche la terribile Margarethe Maultasch, l’ultima principessa del Tirolo che, non avendo successori, cedette il suo feudo al duca Rodolfo IV degli Asburgo il 26 gennaio 1363, plauderebbe alla grottesca decisione dei suoi eredi contemporanei. I quali hanno deciso, nel Tirolo che oggi è solo un Comune, di cancellare i nomi italiani dai cartelli bilingui che indicano i sentieri di montagna. E il fatto che tale scelta contraria al buonsenso comune, ma anche alla lettera e allo spirito della Costituzione, delle sentenze della Corte Costituzionale e dello stesso Statuto speciale d’Autonomia alto-atesino, sia stata presa dalla locale Associazione turistica, la dice lunga su come lassù immaginino l’informazione tra monti e passeggiate sia per gli italiani residenti, sia per i numerosi connazionali vacanzieri, compresi moltissimi romani, che ogni anno visitano quel luogo incantevole a due passi da Merano. Incantevole e ricco di memorie senza frontiere, come testimoniano due dei suoi castelli: Castel Tirolo, dove ogni estate si organizzano concerti e manifestazioni rievocative, e Castel Fontana o Brunnenburg che dir si voglia, dove Ezra Pound, il più grande poeta del Novecento – come lo definì Pier Paolo Pasolini – trascorse gli ultimi anni della sua vita italiana.

Ecco, in questo luogo da favola, dove sembra che dai castelli possano uscire le tre fatine della Bella Addormentata nel Bosco, i cittadini italiani non troveranno più “Caines”, “Masi della Muta” o “Scena” bensì la sola dizione in tedesco di “Kuens”, “Muthöfe” o “Schenna”. Un inutile atto di prepotenza storica e linguistica nei giorni in cui l’Europa s’è schierata contro l’annunciato muro al Brennero da parte degli austriaci (con loro successiva retromarcia) in nome di quei principi di libertà e di cultura universale di cui l’Italia ha dato prova esemplare proprio in Alto Adige. Dove da oltre settant’anni la minoranza di lingua tedesca può giustamente indicare nella sua lingua la toponomastica centenaria dell’Alto Adige, che è bilingue italiano-tedesca per dare a ciascuno il suo. Come tutti i grandi tesori della storia, che sono sempre il frutto di luoghi e di comunità incrociate e incontrate alternando conflitti e pacificazioni, torti e ragioni, momenti bui e splendidi: lo splendore di una convivenza fra italiani, tedeschi, ladini e ora molti stranieri maturata col passare del tempo.

Ma eliminare i toponimi italiani da un luogo-simbolo come Tirolo, e con gli applausi della parte politica più oltranzista del mondo tirolese, non è poca cosa. Rischia di diventare, se ignorato dalle istituzioni, quel precedente “di fatto” con cui da tempo il Consiglio provinciale di Bolzano dominato dalla Svp tenta di piegare “di diritto” la pur chiarissima legislazione sulla toponomastica in Alto Adige. Così chiara, che il governo Monti aveva impugnato davanti alla Corte Costituzionale una legge provinciale che mirava a smantellare l’obbligo costituzionale della toponomastica bilingue italiano-tedesca. Quel ricorso avrebbe indotto i giudici a riaffermare la giurisprudenza di sempre: nella Repubblica italiana l’italiano è insopprimibile lingua ufficiale in ogni ambito pubblico. Ma tale ricorso è stato “congelato” presso la Corte dai governi successivi su richiesta della Provincia di Bolzano, che punta a un’intesa politica attraverso un’insidiosa norma d’attuazione. Insidiosa, perché l’obiettivo plateale è quello di vanificare quanto scritto nello Statuto speciale alto-atesino del 1972, che è già andato molto al di là di quanto disponesse l’Accordo De Gasperi-Gruber del 1946, fonte primaria di quella tutela linguistica, la più estesa in Europa, poi accordata dal Parlamento. Una tutela prevista per rinvigorire l’identità della comunità di lingua tedesca, non già per mortificare quella degli italiani, né per rivangare il revanscismo segnaletico. Andare alla caccia di quale sia il nome più “storico” fra le versioni di uno stesso toponimo in italiano e in tedesco, eliminandone l’italiana ormai secolare, significa vivere su Marte. Quasi due terzi dei nomi italiani oggi usati in Alto Adige risalgono a studi ed elenchi pubblicati tra il 1906 e il 1916, quando neanche Mussolini era fascista. Circostanza che ridicolizza anche la volontà di eliminare i centenari toponimi italiani col pretesto che sarebbero “fascisti”: in realtà dà fastidio che siano un consolidato patrimonio italiano.

Oggi indicando la stessa frontiera gli italiani dicono “Brennero”, i tedeschi “Brenner”. E’ l’importanza di rispettare sempre la verità dei fatti e la libertà di parola per tutti ciò che dovrebbe indurre il governo a dire: “Signori, non si può fare”.

(Articolo pubblicato su Il Messaggero di Roma e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Benvenuti nel caos Europa

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BANDIERA EUROPA EUROPEA

Una cosa è tirare un sospiro di sollievo, altra è parlare di pericolo scampato. Lo spettro che s’aggira per l’Europa non avrà la sua prima fermata a Vienna, è vero. Ma tra un mese esatto, il 23 giugno, il Regno Unito va al referendum per decidere se restare o andarsene dall’Unione dei ventotto Paesi nel continente. E la minaccia di uscire, già soprannominata Brexit, avrebbe conseguenze diverse, ma non meno pesanti per i rimanenti rispetto a quelle appena evitate col voto austriaco.

Quello zero virgola – virgola tre, per la precisione – grazie al quale l’Austria avrà un presidente della Repubblica europeista e favorevole a costruire ponti, il severo economista verde Alexander van der Bellen, può adesso consolare chi paventava lo scenario peggiore e senza precedenti nella storia del secondo dopoguerra. Il rischio, svanito per un soffio, che al vertice delle istituzioni salisse l’ormai noto Norbert Hofer, ossia il rappresentante di una destra che accarezza ogni estremismo: dal populismo anti-europeo al muro anti-immigranti al Brennero, perfino alla rivendicazione pan-tirolese dell’Alto Adige. L’Austria s’è divisa a metà e se, nell’ora del ballottaggio, gli elettori hanno scelto per il rotto della cuffia l’uomo del ponte anziché quello del muro c’è poco da festeggiare e molto da capire. Capire che la sveglia è suonata per la penultima volta, in attesa di ascoltare la voce dei cittadini di Sua Maestà Elisabetta II.

Ma tra il valzer di Vienna e Buckingham Palace, fra il terremoto finito e l’annunciato l’Europa intera deve reagire in tempo. Dalla Spagna senza governo in cui veleggiano gli oppositori del bipolarismo di sempre Popolari-Socialisti alla Francia dove aleggia Marine Le Pen, ai Paesi del Nord Europa e dell’ex Est nei quali attrae la sirena anti-europea di destra, di sinistra o con nuove etichette ovunque è la politica del continente a essere “radicalmente” contestata. Ma il paradosso è che neppure di una politica riconoscibile si possa parlare, perché dall’immigrazione all’economia, dalla politica estera a quella di difesa il fronte comune vacilla.

L’esito di tale debolezza è che il primo Hofer che si alza e grida al lupo, solleticando paure e pregiudizi, rischia di diventare presidente della Repubblica. Per chi suona la campana, allora? Per chi crede che l’Europa non sia politica dell’indifferenza, fortino di Bruxelles o vacua retorica, ma la porta aperta del nostro migliore destino.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com



Ecco il vero significato degli Europei di calcio in Francia

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Chievo - Milan

Per gli amanti del calcio, che è pur sempre lo sport più popolare del pianeta, il conto alla rovescia è già cominciato: fra sedici giorni, il prossimo venerdì 10 giugno alle 21, Francia e Romania inaugureranno a Parigi il campionato europeo a cui partecipano, per la prima volta, ben ventiquattro Nazionali. Compresa, naturalmente, la nostra.

Ma c’è un prima e c’è un dopo questo grande evento in arrivo. E a segnarlo è una data fatidica: il 13 novembre 2015, quando proprio a Parigi una serie di attentati di matrice islamica provocò la morte di 137 persone e il ferimento di altre 368. Fu il giorno con più morti in Francia dall’ultima guerra mondiale. Prima di quest’attacco, dell’imminente torneo sul suolo francese, una specie di Mondiale per europei, si parlava solo per raccontare dei calciatori che vi saranno protagonisti, delle squadre più belle da vedere, del gioco a cui ci si prepara ad assistere con passione, con curiosità o con indifferenza per un mese intero. Ma dopo il 13 novembre Euro-France rappresenta anche altro, e molto importante: la capacità degli europei di non farsi intimidire al ricordo, drammatico, del Bataclan, il teatro dove furono ammazzati quasi cento giovani “colpevoli” solamente della gioia vitale con cui partecipavano a un concerto. Adesso l’appuntamento di calcio significa come continuare a fare le cose che l’Europa faceva prima del 13 novembre, garantendo a tutti -sportivi, tifosi, cittadini- sicurezza e protezione. “Saremo pronti a tutte le evenienze, dall’attacco chimico alla presa di ostaggi”, ha detto il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve, annunciando l’impiego di 72 mila agenti per vigilare gli stadi, allertare la popolazione all’occorrenza con applicazioni per telefonini, evitare qualunque fenomeno di panico. Ecco il nemico più insidioso: la paura. La paura determinata dai precedenti o dalle minacce, dall’ipotesi che possa accadere ciò che non deve accadere. La Francia si sta organizzando perché nessuno provi a rovinare la festa. E lo fa non nascondendo o rinchiudendo le gare ma, al contrario, esibendole e proteggendole. Non il buio, ma la luce.

È questa la strada per battere il terrorismo dei vili che amano la morte: dimostrare che la vita e le partite di calcio continuano come sempre. Accompagnando, così, la coscienza di quei milioni di europei che inseguiranno con gli occhi e col cuore un pallone sul campo come i bambini l’aquilone nel cielo: per far volare la loro felicità.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco la lezione del caso Girone e Latorre

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INDIA: MARO'

Ci sono voluti più di quattro anni, ma alla fine il marò Salvatore Girone è tornato a casa. Dove già era rientrato, sia pure per urgente bisogno di cure, l’altro fuciliere di Marina trattenuto in India, Massimiliano Latorre.

Tutto è bene quel che continua bene, perché in realtà il braccio di ferro politico-diplomatico va avanti al tribunale arbitrale dell’Aja, chiamato a stabilire se spetti all’Italia o all’India giudicare la controversia. Ma nell’attesa della decisione, che forse arriverà nel 2018, la sofferenza dei due militari e delle loro famiglie è intanto finita. Resta in piedi tutta la cavillosa diatriba su una vicenda tragica e piena di errori politici. A partire da quelli compiuti dal governo Monti, il primo che si trovò a doverla fronteggiare: come rispondere alle accuse delle autorità indiane, mai formulate con un’imputazione in un’aula di tribunale, secondo cui i marò, mentre si trovavano imbarcati in missione anti-pirateria sulla petroliera italiana Enrica Lexie, avrebbero ucciso per sbaglio due pescatori del Kerala, Valentine e Ajeesh Pink. Accadeva in acque internazionali il 15 febbraio 2012. Ma con uno stratagemma la nave italiana fu indotta dalla guardia costiera ad attraccare al porto di Kochi. E qui comincia la brutta avventura, col primo errore “italiano” – aver abboccato alla falsa richiesta d’informazioni – all’origine della storia infinita con i fucilieri di fatto prigionieri presso la nostra ambasciata. E poi l’indecisione in questi quattro anni se battere il pugno sul tavolo con Nuova Delhi o trattare sottobanco. Perfino se dare l’ordine e poi il contrordine ai marò di non rientrare in India, anzi sì, mentre erano “in permesso” in Italia. Sullo sfondo lo spettro di uno Stato come l’India dove vige la pena di morte (“ma non l’applicheremo”, dicevano e si contraddicevano), il risarcimento economico accordato dall’Italia come atto di umanità alle povere famiglie dei pescatori e la versione dei marò, che negavano ogni accusa.

Un gran brutto pasticcio che ora – meglio tardi che mai – prende una piega serena lungo la via maestra di due Paesi in disaccordo: sia la giustizia dell’Aja a decidere il campo delle regole. Le nostre istituzioni hanno compreso che con un atto giuridico forte si poteva risolvere quel che la strada politica aveva fallito. Serva la lezione: quando l’Italia si muove con credibilità e con onore i risultati arrivano. Forse arriverà anche la verità.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Italia e Uruguay, un mosaico sull’Oceano

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Garibaldi e Artigas si chiamavano con lo stesso nome: José o Giuseppe che dir si voglia. Il primo arrivò in Uruguay vent’anni dopo l’esilio del secondo in Paraguay e ne preservò il sogno di indipendenza. Garibaldi “el libertador” raccolse, senza saperlo, la fiaccola di Artigas, “el prócer”: il liberatore e l’illustrissimo. L’Uruguay italiano e l’Italia uruguaya nascono in quel preciso momento, negli anni Quaranta dell’Ottocento, per mai più dividersi, nonostante l’Atlantico di mezzo. Nascono, l’un Paese mescolato nell’altro, nella straordinaria continuità di José G. Artigas e Giuseppe Garibaldi, due uomini che non si sono mai incontrati, ma che si sarebbero piaciuti. Disinteressati entrambi, carismatici, popolari. Pronti a sacrificare la loro vita per gli altri, perché credevano. Credevano che le persone e i popoli hanno il diritto alla felicità. Significa non avere padroni in casa propria e vivere con la dignità che solo la legge può assicurare a tutti e a ciascuno. “Con libertad ni ofendo ni temo”, diceva il preveggente Artigas. E Garibaldi, vent’anni dopo, lo prendeva alla lettera, guidando la Legione Italiana a Salto nella battaglia di San Antonio che salvò l’indipendenza dell’allora conteso Uruguay dalle mire di un tiranno argentino, Juan Manuel de Rosas. Accadeva il 6 febbraio 1846, esattamente 170 anni fa. Ed esattamente 70 anni compie il 2 giugno 2016 la Repubblica italiana: persino negli anniversari che contano, uruguaiani e italiani sono incastrati fra loro, come se la storia cominciasse da una parte e finisse nell’altra. Un mosaico sull’Oceano.

Anche la storia sportiva è un fiume tra due ponti, Roma e Montevideo. L’Italia vinse il suo primo Mondiale di calcio nel 1934. Ma il primo Mondiale di tutti si svolse nel 1930 in Uruguay, che lo vinse. E la circostanza che la maggior parte dei calciatori uruguaiani in Europa giochi soprattutto in Italia oppure che la più grande squadra dell’Uruguay, il Peñarol campeón del siglo, discenda da un’italianissima tradizione venuta dal lontano Pinerolo, è solo la conferma che il destino non mente: gli italiani che si specchiano sul Río de la Plata, dalla parte di qua, della meravigliosa Punta del Este, diventano degli uruguaiani particolari. Gli uruguaiani che si riflettono sul Mediterraneo, sempre dalla parte di qua, del lungo e magnifico Stivale calzato nel mare, diventano degli italiani speciali.

Né vale la pena ricordare del tango, che tracima di musica, poesia e arte italiane. L’opera lirica, che è la musica italiana per eccellenza nel mondo, ha partorito melodie nuove e moderne, per quel tempo, anche in Sudamerica. Sempre a partire dalla voce, dalla voce del più bravo e acclamato di tutti, Carlos Gardel. Se Gardel era uruguaiano -e lo era, di Tacuarembó-, allora nelle sue vene scorreva non sangue rosso, ma rosso, bianco e verde: Oliva-Sghirla era l’inconfondibile cognome della mamma. Inconfondibile, ma impronunciabile, perché all’epoca e per molti anni la misteriosa vicenda della nascita di Gardel non si poteva né si doveva raccontare. Silenzio, qui si canta: la voce universale di Carlos Gardel.

Serve, dunque, riferire che quasi la metà degli uruguaiani ha ascendenze italiane da qualche ramo familiare? Bisogna forse ripetere che Alcides Ghiggia e Pepe Schiaffino furono idoli della Celeste e degli Azzurri negli anni Cinquanta, perfetti prototipi degli uruguaiani-italiani con due cuori e due Nazionali capaci di far sognare la gente?

E’ proprio necessario ribadire che la pasta italiana e la carne uruguaya sono il primo e secondo più buoni del mondo? (di nuovo l’un piatto che s’accompagna all’altro e insieme danno il piacere dello stare a tavola, altra tradizione italico-uruguaiana).

Si farebbe prima a citare in che cosa l’Italia e l’Uruguay non si somiglino, in che cosa siano radicalmente diversi. Ma non riesco a trovare l’eccezione, perché financo la bella lingua italiana e l’incisiva lingua spagnola derivano dalla stessa madre latina. Dante e Cervantes, che nipoti ci ha donato Virgilio.

Eppure, una cosa c’è, ho trovato ciò che le nazioni-sorelle non condividono: il dulce de leche. Agli italiani non piace. Agli italiani piace la nutella, che invece agli uruguaiani piace di meno.

Ma la dolce vita, cioè la consapevolezza che la vita sia il bene più prezioso sulla Terra, e perciò da difendere a ogni costo -rieccoli, Artigas e Garibaldi-, la dolce vita quella sì che è uguale per tutti.

Articolo pubblicato su La Gente d’Italia, quotidiano delle Americhe, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com in occasione dei settant’anni della Repubblica Italiana celebrati nel Parlamento dell’Uruguay convocato in seduta straordinaria. 

 

Qual è il valore più grande della Repubblica italiana?

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Frecce-Tricolori-Alba-Adriatica

Settant’anni sono pochi nella vita di una nazione antica come l’Italia. Eppure, l’anniversario che oggi si celebra non solo da noi (si pensi che il Parlamento del lontano Uruguay ha convocato una seduta straordinaria dei suoi deputati e senatori per omaggiare la nostra Repubblica), è pieno di novità che hanno cambiato, nel tempo, la storia del Paese.

Intanto, il 2 giugno 1946 gli italiani hanno archiviato la secolare istituzione monarchica e le donne hanno esercitato il diritto di voto per la prima volta. La Repubblica ha partorito la Costituzione e ha accompagnato il miracolo economico a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ha dato un ruolo internazionale all’Italia fra i grandi del G5 e poi del G7. Ha consentito lo sviluppo del made in Italy in tutti i campi della nostra identità, dalla moda al bel canto, dalla cultura del cibo alla cultura in senso artistico e universale, dallo sport all’industria dell’automobile, del manufatto, dell’artigianato. Nei suoi primi settant’anni repubblicani l’Italia, un tempo solo agricola, è diventata un amato punto di riferimento nel mondo.

Certo, tutto ciò è avvenuto spesso non grazie ma a dispetto delle classi dirigenti che si sono alternate alla guida del Paese fra prima e seconda Repubblica, fra il vecchio e quasi dimenticato pentapartito coi suoi oppositori comunisti, missini e radicali, e il bipolarismo nato nel 1994 sull’onda di Mani pulite e del nuovo sistema elettorale in prevalenza maggioritario. Quante occasioni perse ci ha purtroppo offerto il Palazzo. Quanti conflitti inutili tra i guelfi e ghibellini dell’attualità, quali si sono rivelate le fazioni e le coalizioni che si sono succedute. Quanta indignazione i cittadini hanno dovuto provare contro la corruzione dilagante, la verbosità inconcludente dei politici, il loro cambio di casacca permanente e tutti quei vizi che hanno trasversalmente indebolito i governi, mortificato le opposizioni e troppe volte colpito le istituzioni. Ma se la società italiana è cresciuta: se neppure i momenti più bui della criminalità mafiosa e delle stragi, del terrorismo e di Tangentopoli ci hanno scoraggiato, è per la capacità collettiva e istituzionale di rinascere e di risorgere.

In ottobre saranno un’altra volta i cittadini, come il 2 giugno 1946, a decidere il destino della riforma costituzionale da poco approvata dal Parlamento. Ecco, l’ultima parola è quella degli italiani: forse è il valore più grande della Repubblica, settant’anni dopo.

(Commento pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicogiuglia.com)  


Perché le elezioni comunali sono un primo allarme per Renzi

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70 ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE DELLA REPUBBLICA FESTA DELLA REPUBBLICA

Dalle prime indicazioni del voto amministrativo – pur da prendere tutte con le pinze, perché si parla di proiezioni su piccoli campioni -, almeno una tendenza politica si può ricavare: gli elettori hanno votato, certo, per candidati chiamati soltanto a governare le loro e molto diverse città. Non erano in ballo né Palazzo Chigi né il prossimo referendum sulla Costituzione. Eppure, da Milano a Napoli, passando naturalmente e soprattutto per Roma, già suona un campanello d’allarme per il governo e per il suo maggiore partito, il Pd. Per ascoltarlo, bastano le percentuali e il possibile ordine d’arrivo dei candidati per i ballottaggi, in attesa delle conferme dei numeri, e salvo capovolgimenti che solo il conteggio definitivo potrebbe determinare. Intanto, però, sembra profilarsi Virginia Raggi, candidata dei 5 Stelle, in primissima fila per il secondo turno del Campidoglio. Seguita a distanza da un testa a testa fra Roberto Giachetti, Pd, e Giorgia Meloni, leader dei Fratelli d’Italia.

Anche da Napoli non tira aria buona per la maggioranza, se si pensa che il sindaco uscente, Luigi de Magistris, si presenta come possibile rientrante. E che a inseguirlo, da lontano, non sarebbe -stando, ripetiamolo, alle prime proiezioni- neppure il candidato del Pd, ma quello del centro-destra, Gianni Lettieri. Milano, che era amministrata dal centro-sinistra, vedrebbe in vantaggio Giuseppe Sala. Ma la continuità politica non è ancora assicurata, perché Stefano Parisi, l’antagonista del centro-destra, si trova percentualmente nelle vicinanze. Così come la maggioranza non riesce a riconquistare subito, al primo colpo, né Bologna né Torino. I sindaci uscenti dovranno vedersela al ballottaggio, verso il quale partono da favoriti, ma non da vincenti a occhi chiusi, dovendosela battere o con il candidato dei 5 Stelle o con quello del centro-destra a trazione leghista.

Quasi ovunque le prime indicazioni del voto amministrativo danno un risultato aperto e comunque tutt’altro che scontato per il principale partito nel Paese, il Pd, lontano dalle riconferme immediate dove amministra o amministrava. E ai ballottaggi il partito di Matteo Renzi arriverebbe talvolta in prima posizione ma tallonato, talvolta con difficoltà e perfino col rischio d’esclusione.

E’ ovvio: bisogna attendere lo spoglio per capire le dimensioni vere e il senso della protesta. Testimoniata anche da un calo di elettori.

(commento pubblicato oggi sull’onda delle prime proiezioni di ieri notte su L’Arena di Verona e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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