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Vite sfregiate con l’acido, ecco la punizione che serve

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CHE FORZA LE DONNE

Mai più colpire con l’acido. Con una sentenza severa per i criteri del buonismo legislativo e della misericordia giuridica che imperano nel nostro Paese, la magistratura di Milano ha stabilito un principio importante: sfigurare chicchessia – ma le vittime di solito sono giovani e in particolare donne – è un reato così abominevole per chi lo commette e devastante per chi lo subisce, da meritare una condanna esemplare. Non si spiegano altrimenti i sedici anni di carcere con rito abbreviato che il gup Roberto Arnaldi ha inflitto a Martina Levato per una serie di aggressioni con l’acido (e nove anni e quattro mesi al presunto complice Andrea Magnani). L’ex studentessa bocconiana era già stata condannata ad altri quattordici anni per aver sfigurato, ancora con l’acido, Pietro Barbini.

Naturalmente la giustizia seguirà il suo corso e ogni parte, a cominciare da quella degli imputati che parlano di “accanimento”, potrà far valere le sue ragioni.
Ma in un mondo dove ormai i comportamenti violenti tollerati o redarguiti con una tiratina d’orecchie sono di gran lunga superiori a quelli puniti, distinguere nell’illecito è fondamentale. La legge non può mostrare indulgenza alcuna quando si rovinano la faccia e la vita di una persona, minandone l’animo e costringendola a una serie di interventi chirurgici interminabili, e purtroppo neppure risolutivi in diversi casi. È una forma di violenza inaudita, perché totale: colpisce sia il fisico che lo spirito, sfregia la presenza e l’essenza di una persona. Ma nessuno deve permettersi di attentare a quello che siamo.

Nessuno deve poter pensare di ferirci vita natural durante. Proprio in queste ore Laxmi Agarwal, una ragazza indiana di ventisei anni sfigurata con l’acido, è diventata testimonial di una campagna a difesa delle migliaia di vittime tra India, Pakistan e Bangladesh assalite ogni anno con l’acido per aver detto di “no” a un uomo. Purtroppo l’orribile pratica è sbarcata anche da noi, come ricorda la drammatica vicenda di Lucia Annibali, avvocatessa trentacinquenne di Pesaro colpita, quando aprì la porta di casa, da due uomini per volontà di un ex che era stato lasciato.

Oggi anche Lucia Annibali racconta la tragedia subìta ovunque può, mostrando il volto sfigurato “per non dimenticare mai quanto male può fare il male”, come scrisse in un tweet amaro due anni e mezzo e ben sedici operazioni dopo il barbaro episodio. Ecco, il male ha bisogno di una sanzione inequivocabile.

(articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)



Unioni civili tra Family Day e Family Gay

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FAMILY DAY

Quando le piazze si riempiono di gente e di colori, e per ragioni diametralmente opposte, non ha molto senso fare classifiche su torti e ragioni. Stabilire, per esempio, se siano stati più convincenti i moltissimi italiani che ieri hanno manifestato ovunque per chiedere non la Luna né posti di lavoro, ma diritti civili, semplicemente. Oppure se saranno più ragionevoli gli altri e moltissimi italiani che, fra sette giorni, a loro volta si mobiliteranno non per andare su Marte o pretendere privilegi, ma per difendere i principi della Costituzione sulla famiglia e il matrimonio. Ma fra un sabato e l’altro, fra la “sveglia, Italia!” appena suonata da cittadini miti anche se arrabbiati, e l’ ”attenzione, Italia!” che presto risuonerà per conto di cittadini moderati anche se preoccupati, è cambiato il mondo.

L’ormai celebre testo-Cirinnà che giovedì comincerà la sua ardua navigazione al Senato per introdurre, prima volta in Italia, le unioni civili comunque saranno denominate, segna uno spartiacque simile a quello del referendum sul divorzio nel 1974. Anche allora, come oggi, la gente si divise e contrappose con focosa onestà, le piazze si riempirono, i partiti furono costretti a prendere posizione perché la società lo esigeva. Quel che i nostri nonni mai avevano conosciuto è così diventato pratica da decenni: chi non si ama più, può, se lo desidera, separarsi e rifarsi una nuova vita. Il che non significa che per molti italiani il matrimonio sia e resti uno solo per sempre. I diritti degli uni non hanno scalfito quelli degli altri. Ciascuno ha potuto beneficiare della tutela che lo Stato ha il dovere d’assicurare. L’approccio sulle unioni civili non è troppo diverso: come salvaguardare il matrimonio fra uomo e donna e l’importanza dei figli ad avere un padre e una madre con il diritto a vivere insieme e a esercitare i doveri dell’essere genitori di due donne o due uomini che si vogliono bene. Non astrazione futura, ma storie di vita quotidiana.

Rinunciando al reciproco pregiudizio, non sarà difficile trovare un’intesa sensata in Parlamento, visto che nella società è stata trovata da tempo. Le coppie convivono già, spesso con la responsabilità di bambini, a prescindere da come siano formate. Usando le parole giuste e affrontando la priorità della contesa, che è sul come assicurare la crescita amorevole dei bambini, anche questa divisione alla fine avrà aiutato l’Italia a voltare pagina e tutti gli italiani a sentirsi figli della stessa patria.

(Articolo pubblicato oggi su L’Arena di Verona e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


L’Italia, l’Iran e le stupide sudditanze

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Renzi riceve Hassan Rouhani1

Non a Berlino, Parigi o Londra. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha deciso di cominciare a Roma il suo primo viaggio europeo dopo lo storico accordo sul nucleare raggiunto a Vienna sei mesi fa: il mondo occidentale e Teheran si davano la mano e giuravano reciproca fiducia, nonostante la crisi politico-diplomatica che li aveva visti pericolosamente contrapposti per dodici anni.

Il nuovo corso, come tutti s’augurano che sarà, s’è dunque inaugurato in Italia. E il fatto che il disgelo sia stato accompagnato da importanti accordi economici fra le due nazioni che già da tempo vantavano un rapporto privilegiato negli scambi, frutto anche dell’attrazione dei rispettivi popoli per due civiltà del mondo così antiche come l’italiana e l’iraniana, non può che incoraggiare chi crede nelle riconciliazioni e nelle svolte.

La circolazione delle merci e delle persone, come proprio l’Unione europea insegna, finisce sempre per aprire le menti e per diventare un ponte di opportunità, di ricchezza, di imprenditori, lavoratori e studenti che viaggiano di qua e di là, cioè che portano e acquisiscono conoscenza e amicizia. Spingere in ogni modo possibile il cambiamento non significa, naturalmente, sorvolare sulla radicale diversità che c’è tra chi vive in democrazia e libertà -noi europei-, e uno Stato islamico che viola i diritti umani, come hanno ricordato e denunciato i radicali in queste ore.

Tuttavia, non si capisce che cosa c’entri il buonsenso storico e politico che ha indotto il mondo libero ad aprirsi verso Teheran affinché Teheran si apra verso di noi, con la ridicola copertura dei nudi ai Musei Capitolini disposta per non turbare il presidente iraniano. Non realismo politico, in questo secondo e grottesco caso, ma il voler essere più realisti del Re: un eccesso che papa Francesco, la cui sede è piena di capolavori senza veli, s’è ben guardato dal compiere, quando ha ricevuto Rouhani in Vaticano. “Preghi per me”, ha chiesto il presidente al Papa, a conferma che Rouhani non ha poi tanta paura di possibili equivoci.

Ma comunque: chi può mai fraintendere la bellezza che infonde la “succinta” Venere capitolina? Il patrimonio artistico e culturale dell’Italia contempla anche le nudità, che nessun paravento in legno può o deve nascondere dallo sguardo di chicchessia. Tant’è che la notizia ha già fatto il comico giro del mondo. È stato un atto di non richiesta e stupida sudditanza: l’esatto contrario dell’orgoglioso rispetto di sé e degli altri.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Ecco le vere sfide per la famiglia oltre il ddl Cirinnà

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MONICA CIRINNA'

Fortunato è il Paese in cui la gente, tanta e festosa gente come la manifestazione al Circo Massimo ha dimostrato sabato scorso, manifesta per la famiglia. Vuol dire che si comprende il valore di questa secolare istituzione, d’antica e italianissima tradizione. L’amore che un padre e una madre sanno sempre coltivare per i figli qualunque cosa succeda, l’affetto e la solidarietà che sorelle e fratelli, ma anche cugini, zii e soprattutto nonni sanno assicurare nei momenti belli oppure bui della vita di ciascuno di noi, sono radice feconda di generazione in generazione. La famiglia è l’unica ricchezza dei popoli che nessun potere potrà mai depredare. È la spina dorsale di uno Stato che pur la ignora. Altrimenti le istituzioni sarebbero intervenute da tempo per affrontare la calamità della denatalità in Italia (1,2 figli per coppia). Per detassare sul serio i nuclei con più bambini o per incoraggiare quelli appena costituiti. Per costruire una rete di asili-nido che consenta alle madri di fare le madri senza rinunciare o avvilire il proprio lavoro. Investire nella famiglia dovrebbe essere la priorità dei governi e dei partiti. Ma proprio perché è indiscutibile che la famiglia siamo noi, non si può non vedere come essa sia cambiata nel corso del tempo. Fermo restando il dovere di valorizzare tale insostituibile istituto, non si può disconoscere l’esigenza altrettanto importante delle coppie dello stesso sesso che reclamano diritti. Coppie che si vogliono bene con la stessa libertà e lealtà. Che sanno trasmettere amore ai figli e ai familiari. Che sono cittadini e contribuenti italiani. Niente la famiglia della grande tradizione può perdere, se il legislatore trova il modo sensato e giusto per garantire alle coppie omosessuali il diritto a non sentirsi più stranieri in patria. Per stabilire come risolvere la questione, molto complessa, dei bambini di queste coppie. Il cui interesse a vivere felici deve prevalere su qualunque altra considerazione. Ma nessuno, purtroppo, ha la bacchetta magica: come tirare su i bambini possono saperlo soprattutto o soltanto coloro che lo fanno in coppia e con amore ogni giorno della loro vita. Ecco perché bisogna imparare a rispettare le piazze. Non sono retrogradi i manifestanti di sabato, non erano trasgressivi quelli che sette giorni fa gridavano “sveglia, Italia!”. Il Parlamento, che è la casa degli italiani, adesso dica: ho ascoltato tutti. Ma deciderò io solo.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Molestie sessuali, quanto conta la parola delle donne?

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violenza-donne

Già si sapeva che la certezza della pena fosse una favola nel Paese che pur rappresenta la culla del diritto. Ma nessuno aveva finora immaginato che anche le molestie sessuali, un reato fortemente voluto -assieme ad altri- per proteggere le donne dalla furia quotidiana di piccole o grandi violenze maschiliste, potesse essere interpretato in due modi opposti: quello odioso e sanzionabile che chiunque può comprendere, riassumibile con un chiaro e netto “giù le mani!”. Oppure quello sempre deprecabile, per carità, “inopportuno e prevaricatore” -com’è stato del resto scritto in sentenza-, però in fondo innocente, perché fondato sullo scherzo e sull’immaturità dell’uomo che molestava. Pardon, che faceva lo spiritoso. Se poi quest’uomo, giudicato infantile alla bellezza di 65 anni, è un capo ufficio e le due colleghe con cui scherzava invece lamentavano d’aver subito una (lieve?) pacca sul sedere l’una, e il di lui ditino posto sul bottoncino della camicetta proprio all’altezza del seno l’altra, allora s’avranno le motivazioni della decisione con cui un tribunale di Palermo ha assolto un ex direttore delle Agenzie delle Entrate.

Una vicenda che appare grottesca, pur essendo tremendamente seria. Perché pone un interrogativo di principio, a prescindere dalla libera e sempre da rispettare opinione dei giudici: chi è che deve stabilire se il palpeggiamento è da considerare goliardico oppure vergognoso, l’uomo che lo fa o la donna che lo riceve? Quanto conta, insomma, la “percezione” della presunta molestata, che forse mai come in un caso simile dovrebbe essere la sola a poter stabilire se il gesto era solo “inopportuno” o anche, magari, indecente? La parola della donna, dunque, quanto vale?

Non è un interrogativo inutile, visto ciò che è accaduto da poco in Germania, con la “molestia di massa” a Colonia subìta da decine di donne da parte di profughi presunti molestatori, con dimissioni del capo della polizia per non aver impedito il misfatto. Ovunque non è il sentimento della controparte a decidere se il divertimento fa ridere o no: lo decide la vittima, spettando poi alla magistratura di accertare fatti e ragioni di tutti. Forse non per caso da noi è stato introdotto anche il reato degli atti persecutori: cercare di contrastare fin dall’inizio il drammatico “femminicidio”. Donne picchiate, ammazzate, ustionate. Ma anche donne molestate. Da prendere sul serio, mentre ci si divide invece su famiglie e unioni civili.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Cosa succede a Storie Maledette di Franca Leosini

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Si dirà che già il nome, “Storie Maledette”, indicava con chiarezza che il pubblico era avvertito dei racconti previsti nel programma. Si dirà anche che i telespettatori, minorenni compresi, sono da tempo vaccinati, perciò avvezzi a non sorprendersi più di nulla: basta un giretto in internet per trovare ben di peggio. E si dirà, ancora, che la libertà d’espressione e di visione si esercita soprattutto sui temi che scottano. Troppo facile informare sull’ultimo gol di Icardi, che non segnava da un mese, o sull’ultima gaffe del principe Carlo.

Ma quando il servizio pubblico trasmette in prima serata l’intervista a un condannato a vent’anni di carcere perché la magistratura d’appello (non il bar-sport o la rivista di cronaca rosa), l’ha riconosciuto colpevole come mandante dell’aggressione con l’acido che ha sfigurato la sua ex fidanzata, il tipo di trasmissione, la maturità del pubblico e la libertà di tutti noi c’entrano poco: sta, invece, andando in onda il mondo alla rovescia dell’imputato che “dichiara” non in tribunale, ma in telecamera. Del telespettatore che ascolta non le ragioni della vittima, ma il torto di chi le ha voluto orribilmente male. Sta andando in onda la bieca corsa all’ascolto, grazie all’inevitabile polemica pubblica che sarebbe scoppiata e che è infatti scoppiata, a danno evidente della comprensione dei gravissimi fatti.

Si parla, naturalmente, dell’intervista di Franca Leosini (Rai 3) a Luca Varani appena archiviata. Ma il commento migliore l’ha fatto chi non c’era, l’ha fatto Lucia Annibali, la donna sfregiata che passa con dolore e con onore da un’operazione chirurgica all’altra. E che s’è ben guardata di guardare quel piccolo schermo, troppo piccolo per lei: “La verità è una sola e non può essere riscritta da un condannato o da una trasmissione tv”.

A conti fatti, e quelli dell’ascolto sono stati deludenti perché i telespettatori sono più svegli di quanto si creda, l’interrogativo è semplice: che bisogno c’era? Quale clamorosa novità gli italiani avrebbero mai potuto apprendere dal mondo alla rovescia che tutto spettacolarizza e banalizza, dando voce a chi nei processi si difende soprattutto coi silenzi? Perché far salire la versione di quell’uomo sul palcoscenico delle tre “i” -informare, intrattenere, istruire-, la missione che la Rai s’è data da sempre? La tv che racconta può fare a meno di qualunque cosa, ma non del buonsenso.

(articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e come sempre tratti dal mio sito www.federicoguiglia.com)

La musica possibile di Sanremo arcobaleno

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sanremo arcobaleno

L’aspettavano al varco, il mitico Sir Elton John, e non per ascoltare una delle tanti canzoni al pianoforte che l’hanno reso fra i principali interpreti del nostro tempo. Speravano che dal palco di Sanremo e già il primo giorno il musicista inglese, che nella vita privata è notoriamente sposato con un altro uomo e con due figli a carico, entrasse a gamba tesa nella polemica in corso nella società italiana – ma soprattutto al Senato: e durissima -, a proposito delle unioni civili e della legge che dovrebbe regolamentarle per la prima volta.

Invece il grande atteso, oltre a confermare la sua bravura con classe, ha volato alto, limitandosi a dire solo la cosa più importante: che è felice d’essere padre. Senza saperlo, con quest’atteggiamento chiaro e rispettoso al tempo stesso l’artista ha finito per inaugurare il filone del nastrino arcobaleno mostrato da molti cantanti italiani, e che sta diventando una delle caratteristiche serene e festose del sessantaseiesimo e popolarissimo appuntamento: la libertà di far sapere a tutti come la si pensa sui diritti delle coppie, senza che ciò diventi propaganda o anatema contro chi invece difende il diritto esclusivo della famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna.

Prima Noemi e poi Arisa, Enrico Ruggeri, Irene Fornaciari e altri si sono così pubblicamente schierati a favore delle unioni civili. Ma la forma è sempre sostanza. E quando si ricorre non agli insulti, al comizietto, alla solita bega tra guelfi e ghibellini che tanto va di moda, bensì all’innocenza di un nastro coi tanti colori che il cielo regala dopo la tempesta, ecco che si può dire quel che si vuole. Senza il rischio d’essere fraintesi, contestati, strumentalizzati.

Esiste un modo tranquillo e civile per comunicare le proprie convinzioni e questo di Elton John e degli artisti arcobaleno lo è. “La musica come la vita si può fare in un solo modo, insieme”, ha ricordato il Maestro colpito dalla Sla, Ezio Bosso, dopo una magistrale interpretazione al piano. “Insieme”, perciò, anche il tema bollente delle unioni civili si può affrontarlo cercando prima di tutto di ascoltare, anziché subito e solo di ribattere.

Se dal Festival uscisse anche la novità che molti italiani stanno imparando a pensare a voce alta, anziché a urlare e a urlarsi dietro il palco, e che il pensiero più “esibito” contiene dentro di sé il rispetto naturale per il pensiero opposto e meno ostentato, ne guadagneremmo tutti. Un’altra musica è possibile, da Sanremo.

(articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratt0 dal sito www.federicoguiglia.com)


Perché la Siria brucia

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Bashar_al-Assad_in_Russia_(2015-10-21)_09

Quante guerre il fragile accordo appena trovato a Monaco dovrebbe o vorrebbe risolvere. Per cominciare quella che da cinque anni vede la Siria martoriata con quasi trecentomila morti e un esercito disperato di profughi in giro per l’Europa. Quel conflitto troppo a lungo da tutti ignorato ha dato a sua volta vita alla guerra fredda in pieno corso fra Stati Uniti e Russia, ossia tra chi considera mostruoso il regime di Bashar al-Assad e chi invece indica come nemico principale il fanatismo violento e sanguinario che cova sotto la cenere degli oppositori a Assad e dell’autoproclamatosi Stato islamico dell’area. Da dove vengono l’incubazione e l’incubo della terza guerra evocata dal premier francese Manuel Valls senza giri di parole: la guerra al terrorismo che ha già colpito Parigi, “ma ci saranno altri attacchi e grandi attentati, questo è certo”, come ha denunciato Vals, lanciando un allarme che è mondiale e che potrebbe durare per un’intera generazione.

Ecco, allora, che l’ultima e durissima offensiva che in queste ore s’è scatenata per la “riconquista” governativa di Aleppo, un tempo proclamata “patrimonio dell’umanità” dall’Unesco, produce anche una pesante polemica proprio fra quanti avevano siglato la tregua, o meglio, la tregua armata a Monaco. Da una parte il segretario di Stato americano John Kerry che avverte: se Assad non manterrà gli impegni, vale a dire la cessazione di ogni ostilità nel giro di sette giorni, e se l’Iran e la Russia non lo costringeranno a farlo, “la comunità internazionale non starà a guardare come degli scemi”. Kerry non esclude l’invio di truppe di terra in aggiunta, mentre la Russia bombarda in Siria per appoggiare il regime. Guadagnandosi, così, l’accusa di colpire la popolazione civile e di ridare vigore ad Assad, che già sogna di restare oltre le rovine. Prospettiva che suonerebbe crudele per gli oppositori moderati che in questi cinque anni si sono sacrificati, e terribile per la strategia futura di quanti concordano con gli americani: mai più Assad nella Siria un giorno liberata e pacificata.

La questione siriana è dunque un labirinto insanguinato di interessi molto diversi fra i diciassette Paesi, Italia compresa, che sono politicamente coinvolti nel Medio Oriente che brucia. E’ il dilemma di come affrontare la tragedia di un popolo e di una terra distrutti, senza ritrovarci i terroristi in casa.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoiguiglia.com



Papa Francesco, Donald Trump e le parole che sfondano i muri

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Papa Francesco mariachi copertina

Un tempo l’aggettivo più ricorrente per definire il messaggio di un Papa era “ecumenico”, ossia rivolto a tutti e con toni di solito a tutti graditi. Universali i Pontefici lo sono sempre rimasti. Ma Francesco ha introdotto una novità senza precedenti anche quando gira per il mondo: dice quello che pensa senza guardare in faccia a nessuno. Neanche al candidato repubblicano che va per la maggiore, il vulcanico e controverso Donald Trump, che potrebbe un giorno diventare presidente della nazione più potente della Terra.

“Una persona che pensa soltanto a fare muri e non ponti, non è cristiano”, ha detto il Papa chiaro e tondo, rispondendo a chi gli ricordava d’essere stato a sua volta descritto come Pontefice “politico” da Trump. Che ha subito reagito, dicendo di considerare vergognoso che un “leader religioso metta in discussione la mia fede”.

Botta e risposta durissimo, ma soprattutto inedito. Sia perché mai un Papa era entrato in una polemica così diretta e radicale (“non è cristiano”) con chi si candida a guidare l’America, sia perché l’ha fatto durante il viaggio in cui ha voluto celebrare messa davanti alla rete metallica che separa il Messico dagli Stati Uniti. Pregando per i poveri messicani che a migliaia cercano ogni giorno di raggiungere il Texas a costo della vita. Il muro è una forma di violenza che si abbatte sul più debole: è il pensiero di Francesco contro la globalizzazione dell’indifferenza, e lo esprime ovunque, da Lampedusa a Ciudad Juárez, la città al confine che ha voluto visitare nell’ultima tappa del suo popolarissimo giro.

Ma è opportuno che un Papa scenda tanto pesantemente in campo? Ogni risposta è legittima. Mai s’era assistito, nemmeno ai tempi dell’amato Karol Wojtyla – un altro che non le mandava a dire -, a un linguaggio tanto chiaro e severo. Eppure, quando Francesco prende di petto il candidato Trump, sarebbe sbagliato credere che stia “facendo politica”.

“Il Papa è di tutti” e non intende “immischiarsi” nel dibattito italiano sulle unioni civili, ha ribadito lui stesso: figurarsi se vuole schierarsi sulle elezioni americane. Questo, però, non significa rinunciare a pensare e a dire la sua. Anche sulle unioni civili ha ricordato che la Chiesa ha una posizione “affermata da sempre” e che ogni parlamentare deve votare “secondo la propria coscienza ben formata”. Quel che dice può piacere o no, ma tutti sanno come la pensa il Papa che non si nasconde dietro a un muro.

(articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Berlusconi, Renzi e le spiate alleate

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MATTEO RENZI INTERVIENE ALLA TRASMISSIONE RAI "PORTA A PORTA"

Nella storia che già si racconta o forse, dato il tema, bisognerebbe dire sussurra, ancora mancano i ponti, luogo prediletto dagli agenti segreti, e gli inseguimenti da 007. Ma per il resto c’è poco da scherzare sulle rivelazioni di Wikileaks pubblicate dall’Espresso e Repubblica: il governo italiano è stato spiato dagli Stati Uniti per tre lunghi anni. Proprio quelli dell’ultimo esecutivo Berlusconi dal 2008 al 2011, che la National Security Agency, cioè l’istituzione americana che assieme alle più celebri Cia ed Fbi si occupa della sicurezza nazionale, avrebbe seguito con l’attenzione degna del miglior nemico.

Incredibile sorpresa, considerato il non irrilevante dettaglio che Italia e Stati Uniti fanno parte della stessa barricata occidentale. Che sono Paesi amici e alleati da sempre per la reciproca simpatia dei loro popoli e per le storiche ondate della nostra emigrazione. Per il condiviso interesse politico, economico, geografico e perfino militare dei due governi dall’Atlantico al Mediterraneo. Perché spiarci, allora? Che cosa c’era da sapere in quel modo subdolo sull’ascesa e caduta dell’allora presidente del Consiglio?

A chiederlo subito, e convocando l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma (mossa diplomatica decisa, ma opportuna), è il governo Renzi di oggi, che non può tollerare un comportamento allo stesso tempo grave e ridicolo nei confronti della Repubblica italiana. Né accettare le prime spiegazioni Usa: “Sorvegliamo solo per validi motivi”. Neppure consola che lo scandalo sia di dimensioni planetarie: analoghe intercettazioni hanno subìto e a loro volta di recente scoperto e denunciato i governi tedesco e francese.

Ma al di là del perché, che dovrà essere chiarito con o senza la commissioni d’inchiesta che Forza Italia sollecita, resta la questione di principio: un Paese sovrano non può consentire a chicchessia, neanche al suo amico più caro al di là dell’Oceano, di guardare dal buco della serratura di palazzo Chigi. E poi all’America abbiamo appena dato il via libera all’uso dei droni armati e difensivi in Libia partendo dalla nostra base di Sigonella. Un nome che evoca altri tempi e vicenda, quando il premier dell’epoca, Bettino Craxi, impedì ai militari americani di sostituirsi ai carabinieri italiani. Accadeva nel 1985, e si sperava che quel braccio di ferro senza precedenti avesse insegnato alle parti il dovere di parlarsi negli occhi, non quello di appoggiare di nascosto l’orecchio alla cornetta quando l’altro parla al telefono.

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi, e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Troppi opposti furori sul ddl Cirinnà approvato

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MONICA CIRINNA'

Quando il furore ideologico avrà spento i suoi ultimi bagliori in Parlamento e nelle piazze, e si guarderà al testo sulle unioni civili appena approvato dal Senato senza i paraocchi delle opposte barricate, forse si potrà constatare che ieri l’Italia ha fatto un piccolo e ragionevole passo in avanti, non all’indietro come il gambero. Se la Camera, dove ora andrà il testo, confermerà, per la prima volta le coppie avranno una serie di diritti finora sconosciuti. E li avranno in quanto persone che si vogliono bene e convivono stabilmente, a prescindere dal sesso.

Non un vero e proprio matrimonio, prerogativa costituzionale che resta riservata fra uomo e donna, ma una novità che gli va abbastanza vicino. E che molto somiglia alle legislazioni in Europa e nel mondo che da tempo hanno affrontato il problema senza farne un dramma né un totem: seguendo, semplicemente, l’andamento della vita vissuta dalla gente, ascoltando le voci della modernità che non sovrastano mai, ma si aggiungono sempre a quelle della tradizione. È il concerto del buonsenso, che cerca di dare nuova musica, cioè diritti, a chi non li ha, senza tuttavia stonare, ossia senza toglierli a chi li ha già. Neppure le questioni escluse sono così importanti come vogliono farle sembrare gli incendiari dei due fronti.

Il tema dell’adozione del proprio figlio da parte del partner, tema stralciato dal provvedimento, in realtà potrà essere affrontato caso per caso dalla magistratura, come del resto già avviene nel laborioso silenzio dei più. E forse il giudice potrà capire perfino meglio del legislatore in che modo dare giustizia al dilemma umano che si troverà a esaminare. Perché la polemica esplosa sull’adozione dei figli da parte di coppie omosessuali ha travolto la realtà dei fatti, che è costituita da persone con nome e cognome, dalla loro vita, dal dovere prioritario d’assicurare amore e felicità ai bambini.

Cose molto serie, che vanno al di là dei “canguri” inventati dalle procedure parlamentari, dai reciproci insulti, dai sospetti di nuove maggioranze all’orizzonte. Grottesco è poi lo scontro sull’”obbligo di fedeltà” eliminato per non equiparare le unioni alla famiglia tra uomo e donna. Se la fedeltà è un valore, non c’è bisogno di una legge per farla rispettare. Se non lo è, nessuna legge riuscirà a farla rispettare. Si può legiferare di tutto e contro tutto, ma non contro il buonsenso.

Commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Che fare con le adozioni gay?

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Nichi Vendola (6)

Adozioni sì, adozioni no. Mentre la politica discute senza decidere, la vita della gente va avanti. E tocca alla magistratura riempire il vuoto del legislatore, per la prima volta avallando un’adozione per così dire incrociata: due bimbe di 4 e 8 anni per una coppia di donne ognuna mamma biologica della propria creatura, ed entrambe le bambine venute al mondo in Italia grazie all’inseminazione praticata in Danimarca.

Le due figlie, ha sentenziato il Tribunale dei minori a Roma, potranno avere lo stesso doppio cognome anche se, per legge, non saranno sorelle. Già dalle circostanze descritte si capisce che il caso è complicato. Ma non così complicato da non immaginare che molti altri casi, di diverse natura, situazione e condizione, seguiranno. Perché i cittadini non possono aspettare i vertici dei partiti, né sottostare ai veti, anch’essi “incrociati”, dei laici e dei cattolici nei rispettivi schieramenti.

Neppure possono attendere le furbizie di parlamentari che rinviano il tema, delicatissimo, ma improrogabile, stralciato dalle unioni civili: l’adozione del figlio della compagna o del compagno da parte del partner. Di più, il Parlamento ancora non affronta la questione dell’adozione in quanto tale, aggiornando la legislazione nata per proteggere i bambini italiani e del mondo che sono soli o sofferenti, e per dare ai padri la possibilità di offrire amore e felicità a quegli innocenti. Dallo stato di abbandono all’affidamento, alle esperienze che la società italiana e l’universo hanno fatto in materia: è ora di mettere tutto in pratica innovando la legge.

Ma il tema dell’adozione s’è ormai esteso oltre ogni confine non solo geografico, arrivando alla maternità surrogata – vedi il controverso caso-Vendola -, e attraversando situazioni di fatto tutte diverse l’una dall’altra, ma nessuna regolata da una legge: il magistrato decide lui. Tuttavia, mancando norme, precedenti e giurisprudenza, il rischio è che ogni giudice finirà per interpretare i fatti in modo diverso. Un esito che non farà bene alla giustizia, costretta a supplire le onorevoli mancanze con sentenze “di emergenza”, e che farà male alle coppie in balia dei tribunali e impossibilitate a invocare la certezza del diritto.

In un contesto, oltretutto, nel quale ogni Paese, dalla Danimarca in giù, si regola da sé: e l’Italia che farà, allora, “prenderà atto” per via giudiziaria della realtà avvenuta altrove? Intervenire con ragionevolezza è un diritto dei cittadini, ed è un dovere della politica.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


Chi attenta (e perché) al valore della vita

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Non si sa se rabbrividire di più per il delitto di cui sono accusati o per la motivazione che ne hanno dato. “Volevamo uccidere qualcuno solo per vedere l’effetto che fa”, ha spiegato Manuel Foffo, uno studente di Giurisprudenza di ventinove anni figlio di ristoratori – dunque un giovane come se ne incontrano tanti -, accusato d’aver ucciso un conoscente, il ventitreenne Luca Varani, in una periferia romana nella notte tra venerdì e sabato scorsi. Con modalità quasi irriferibili, perché includerebbero sevizie e torture, coltellate e martellate, oltre alla presenza di un altro giovane, Marco Prato, al quale pure la Procura contesta il reato di omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà.

Ma che c’entra l’”effetto che fa”, frase che fino a ieri rimandava soltanto alla celebre canzone di Enzo Jannacci, che però alle bestie feroci dello zoo comunale si riferiva? Come si può arrivare a immaginare e realizzare che vita e violenza s’equivalgano? Che uccidere una persona sia come sparare al videogioco? Che qualunque cosa, persino assassinare, sia lecito provare per vedere “che succede”? Se la vita non ha valore, crolla ogni speranza di poterla migliorare, cambiare, arricchire d’affetto e d’amore per sé e per gli altri.

Purtroppo neanche le circostanze della cocaina e dell’alcol che in questo delitto sarebbero scorsi a fiume, né il dolore del padre che per primo ha raccolto la terribile confessione del figlio, così come il drammatico tentativo di uccidersi di uno dei due accusati forse resosi conto dell’orrore, aiutano a rispondere all’interrogativo di fondo. L’interrogativo del perché in così tanti e dilaganti casi prevalga l’idea che la vita non sia la cosa più bella del mondo, e comunque l’unica che ci rende tutti uguali e degni dello stesso rispetto. Attentare alla vita dovrebbe essere il male assoluto.

Eppure, la percezione che una persona non debba essere colpita neanche con un fiore, fatica sempre più a farsi strada. Per esempio ieri era l’8 marzo, ma la catena dei femminicidi non si interrompe nonostante le leggi più severe e l’accresciuta sensibilità della gente. La vita, bene supremo, è da troppi e da troppo tempo calpestata, umiliata, mercificata. Ma se il senso del vivere perde la sua sacrale umanità, se “far fuori” l’altro viene assimilato a un esperimento di laboratorio, allora si sta tutti perdendo la bussola. Tocca soprattutto alle famiglie e alla scuola intervenire per ridare valore al valore più grande.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Che cosa succede nel centrodestra e nel centrosinistra a Roma e Napoli

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Non s’erano mai viste così tante risse, e ricorsi, e veti sulle candidature: e le chiamano primarie. Da Napoli a Milano, passando per Roma dove tutte le grane portano, i partiti faticano non solo a trovare personalità che possano attrarre un elettorato disincantato, soprattutto in vista di elezioni amministrative, ma persino nomi graditi a tutti i componenti delle coalizioni. Emblematici e speculari sono gli scontri a distana fra Matteo Renzi e la sua minoranza nel Pd e Silvio Berlusconi e i suoi alleati nel centrodestra. Se nel primo caso volano parole grosse tra Renzi e Bersani in nome dell’Ulivo che fu, nel secondo volano addirittura i candidati per il Campidoglio. Allo stato si è capito che Berlusconi vuole Guido Bertolaso aspirante sindaco, che Salvini vuole la Meloni, e che la Meloni vorrebbe tanto partecipare, ma non può, perché preferisce pensare al figlio che ha in grembo. Sembra la celebre filastroca di Branduardi, quella del cane che morse il gatto che si mangiò il topo. Alla fine del girotondo e, nel caso del centrodestra, dei “no” che ciascun leader proferisce nei confronti dell’altro, non si comprende ancora chi resterà in piedi a sfidare gli avversari.

Se Renzi, riferendosi alle scelte organizzative e nominative di Napoli contestate da Bassolino, dice che senza primarie “vincono i capibastone”, a sua volta Berlusconi se la prende con i professionisti della politica e con chi ha percentuali irrisorie di consensi a Roma, cioè con Salvini, pur di difendere la candidatura di Bertolaso sott’attacco. Polemiche durissime, ma molto singolari, perché non sono rivolte contro i concorrenti fuori, ma contro gli oppositori in casa. I quali, peraltro, non rinunciano all’idea né di presentare candidati alternativi né di abbandonare il partito di riferimento, come lo stesso D’Alema per la prima volta non ha escluso che potrà accadere per il Pd.

Il centrosinistra se le canta a Napoli e il centrodestra se le suona a Roma. Per entrambi è il problema della leadership che continua a covare sotto la cenere. A sinistra non si accetta il ruolo forte di Renzi, che per di più è presidente del Consiglio. A destra è l’ingombrante, ma ancora determinante Berlusconi con le sue scelte a creare i dissensi.  È evidente chi potrà approfittare degli scontri paralleli in atto: i candidati Cinque Stelle e quanti, come Marchini a Roma, rivendicano d’essere distinti e distanti dalla politica litigiosa.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


L’Europa dei migranti non finisce in Turchia

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turchia, renzi, tusk, hollande

E siamo così arrivati al vertice europeo numero tre nel giro di un mese. Neanche l’economia, il lavoro o il terrorismo avevano finora indotto i ventotto rappresentanti dell’Unione, riuniti in queste ore, a stabilire il primato di un incontro ogni dieci giorni lassù, a Bruxelles. Tutti insieme appassionatamente per affrontare l’emergenza più drammatica e visibile: che fare col fiume di persone che da ogni parte del mondo a noi vicino si riversano sul Vecchio Continente con crescente e inconsolabile sofferenza.

L’ultima idea di un’Europa senza idee si chiama Turchia: quanti soldi darle -e loro ne chiedono tanti- per delegarla un po’ come il poliziotto o il vigile urbano per conto di tutti che dirige, smista e, nell’inconfessabile desiderio dei più, blocca i flussi della disperazione. Risolvere la crisi della cosiddetta via balcanica, ecco il ruolo sognato per la Turchia che, tra l’altro, non fa neppure parte dell’Unione. E magari ha qualche allergia con la libertà di stampa, cioè il rispetto delle regole elementari. Si chiede ai turchi di togliere le castagne dal fuoco che riguardano i ventotto Paesi. Perché le tendopoli, i confini chiusi all’improvviso, i veti incrociati fra Stati e governi sono tutti dentro la nostra bella casa europea, e non fuori.

Ma l’Unione che dice ad Ankara “gigante, pensaci tu”, allo stesso tempo vorrebbe riaffermare il senso degli accordi di Schengen, cioè la libera circolazione dei cittadini fra le nazioni -Italia compresa- che vi aderiscono. E’ il fondamento dello stare insieme e di quanto, dall’Erasmus all’euro, s’è sviluppato negli anni per impedire che l’Unione in cammino tornasse a essere una litigiosa espressione geografica. Un fondamento che vacilla.

Ma è proprio questo il rischio a cui va incontro l’Europa, immaginando che la Turchia, finanziata e coccolata, potrà risolvere da sé un fenomeno che ogni giorno si ripropone coi barconi nel Mediterraneo. Che trova percorsi nuovi e vecchie astuzie per raggiungere il profondo Nord, provocando terremoti elettorali perfino nella controllatissima Germania. Non potranno essere i soli turchi ad affrontare una sfida che appartiene agli europei, alla loro mancanza di visione politica sul futuro e di comprensione umana sul presente, alla loro incapacità di dividersi compiti, pietà e rimpatri fra eguali. Perché eguali sono i ventotto Paesi uniti per ragioni non soltanto economiche. L’Europa dei migranti non finisce ad Ankara, dove neppure incomincia.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com



Erasmus, il viaggio della meglio gioventù europea

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erasmus

Sette ragazze della nostra meglio gioventù sono morte in Spagna (con altre sei coetanee europee), perché l’autista del pullman nel quale viaggiavano s’è addormentato: come si fa a consolare il dolore dei familiari e degli amici per un modo così assurdo di perdere la vita, quando la vita è nel fiore dei sogni più belli e più grandi? Qual è il Dio che bisogna pregare per chiedere “perché”, perché proprio loro, innocenti e brave studentesse? In poche ore abbiamo imparato a conoscere quei volti pieni di luce e dai tanti nomi italiani – Francesca, Valentina, Elena, Lucrezia, Serena e due Elisa – accomunati dalla voglia di conoscere il mondo. Dal desiderio di fare nuovi incontri. Dalla volontà di perfezionare i propri studi in quest’Europa a volte così indifferente e oggi così amara.

Ma neanche la fatalità del destino, neppure la discutibile circostanza di autobus che trasportano giovani in ore notturne che dovrebbero essere di riposo per tutti, nulla, insomma, deve farci cambiare idea sul senso del viaggio delle nostre sette “figlie” – come l’Italia intera ormai le considera -, finito all’alba su un’autostrada macchiata di sangue. Era giusto, certo, che le ragazze e i loro genitori credessero nel progetto Erasmus. Ed è giusto continuare a credervi. Nessun incidente d’auto – di più: neppure un attacco di terrorismo, come accadde il 13 novembre scorso a Parigi con l’omicidio della giovane ricercatrice Valeria Solesin -, nessun evento di “normale” quotidianità o di imprevedibile criminalità può rimettere in discussione l’idea che l’Europa si costruisce scoprendola da vicino.

L’Erasmus viene prima dell’euro, della Champions, dei vertici politici, perché con i suoi tre milioni e mezzo di ragazzi, e soprattutto ragazze che in trent’anni l’hanno frequentato, forma le classi dirigenti di domani. L’Erasmus è insieme una grande scuola di studi senza frontiere e una grande scuola di vita: s’impara l’importanza dello stare insieme, di parlarsi in tante lingue senza il pericolo di fraintendersi, di trovare amori, amici e persone di valore anche nell’angolo più remoto d’Europa (e del Mediterraneo, per i numerosi ragazzi stranieri che scelgono l’Italia).

Quel progetto è l’investimento migliore che gli europei si siano inventati. Non a caso sono italiani il dieci per cento degli studenti Erasmus, come le nostre sette e sfortunate figlie. Erano solo ventenni, ma già l’avevano capito: la conoscenza migliorerà il mondo.

Articolo pubblicato su Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Come procede il piano nazionale anti radicalizzazione

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RIUNIONE DEL FORO DI ROMA INCONTRO CON I CAPI DELLE POLIZIE DEI BALCANI

Contro il terrorismo che ha appena insanguinato Bruxelles dopo che aveva martoriato Parigi quattro mesi fa, ecco che arriva il “piano nazionale anti-radicalizzazione”, come l’ha definito il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.

E il fatto che l’abbia lanciato durante il vertice straordinario di tutti i suoi colleghi europei (assieme ai ministri della Giustizia) indetto proprio per reagire con forza e unità all’ondata di attentati compiuti e rivendicati dal fondamentalismo di matrice islamica, significa che potrebbe essere la volta e la svolta buona.

Ma quanti dubbi al di là delle sempre tardive parole. Grande è ormai la diffidenza dei cittadini europei per i loro ventotto governi, che neanche hanno imparato a passarsi le informazioni di polizia e di intelligence fra loro. Enorme è lo scetticismo dei cittadini italiani, che da troppo tempo assistono ai proclami sulla sicurezza. Salvo poi constatare che i controlli immaginati sono, appunto, immaginari. Che la prevenzione promessa è lasciata al buon cuore di carabinieri, poliziotti e finanzieri impegnati con risorse e stipendi imbarazzanti (la storia delle “volanti senza benzina” non è una favola). Salvo poi scoprire che la vigilanza delle strade e dei quartieri, e non solo dei punti sensibili, è occasionale ed eccezionale: manca proprio quel “progetto nazionale” che vada al di là delle emergenze. Che valorizzi il ruolo delle forze di polizia. Che incoraggi il cittadino a sentirsi parte di uno Stato capace di badare a se stesso, facendo rispettare le leggi a tutti e i principi del vivere insieme a chi non li conosce o riconosce. Altrimenti, a che serve un “piano anti-radicalizzazioni”?

Se non si investono soldi e idee, se non si comprende che col terrorismo di chi ci odia dovremo fare i conti a lungo, e che perciò repressione della violenza e riaffermazione delle libertà, parità e fraternità vanno di pari passo, nessun proposito, neanche se declamato a Bruxelles, potrà dare i frutti sperati. Le buone intenzioni sono fuori tempo massimo: qui occorrono iniziative concrete e durature, e una visione “politica” che dia sicurezza e consapevolezza agli italiani. Sicurezza di sapere che si sta facendo tutto quanto va fatto contro la minaccia del terrorismo. Consapevolezza che il nostro modo di vivere e i nostri valori sono inattaccabili, anche quando sono macchiati di lacrime e di sangue innocente.

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Il Papa, la Pasqua, il terrorismo

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Via Crucis

Ci sono due modi per incoraggiare i cittadini europei a non avere paura dopo gli attentati di Bruxelles e di Parigi. Il primo, appena indicato dalle autorità politiche del Belgio, è sconcertante: indurre ad annullare una marcia che era stata promessa e promossa per camminare a testa alta contro il terrorismo di matrice islamica. “Meglio di no, l’allarme per possibili attacchi è ancora forte”, hanno spiegato il ministro dell’Interno e il sindaco di Bruxelles, chiedendo ai manifestanti di soprassedere.

Poi c’è la scelta di Francesco, il Papa che alla vigilia di Pasqua ha assistito anche lui a una marcia, sia pure religiosa: la tradizionale Via Crucis al Colosseo, la quarta dalla sua elezione. Ma stavolta la preghiera di Francesco è diventata un durissimo atto d’accusa non solo nei toni -a cui ci ha da tempo abituati-, ma anche nelle parole, l’unica arma che un uomo di pace come lui può far valere per risvegliare gli animi. Ha ricordato, dunque, il Papa che oggi la Croce di Cristo “la vediamo eretta nelle nostre sorelle e nei nostri fratelli uccisi, bruciati vivi, sgozzati e decapitati con le spade barbariche e con il silenzio vigliacco”. Ha puntato il dito e la voce contro il “fondamentalismo e il terrorismo dei seguaci di qualche religione che profanano il nome di Dio e lo utilizzano per giustificare le loro inaudite violenze”. E’ un’operazione-verità che il pontefice sollecita per salvare i perseguitati dalla fede, i profughi delle guerre e della fame, le vittime del terrorismo. Ma anche per smascherare “i tanti Pilati con le mani lavate”. Alludeva a quanti scappano da ogni orrore nel disinteresse dei più. Si riferiva al Mediterraneo, diventato “insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata”. Ma è un grido di dolore che colpisce al cuore l’Europa dell’indifferenza e della pavidità, che scuote quei governi che non riescono neanche a garantire sicurezza a pacifici marciatori dopo il sangue versato dai loro concittadini. Non solo i venditori d’armi o “i ladroni e i corrotti” sott’accusa. Stavolta anche i potenti impotenti.

Pasqua amara, allora, ma la via per risorgere c’è sempre: assumersi ciascuno la propria responsabilità. Dai chiodi che hanno crocifisso Gesù a quelli lanciati in aria sull’onda d’urto delle bombe esplose per dilaniare ancor più tanti innocenti da Bruxelles a Parigi: duemila anni dopo, il mondo impari almeno a non “lavarsi le mani”.

Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com


Pensioni, ecco sfide e problemi della legge Fornero

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Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com
La ragione è giusta e lungimirante: siccome l’aspettativa di vita s’è allungata come mai era accaduto nella storia dell’umanità, uno Stato con la testa sulle spalle deve assicurare a tutti i suoi cittadini il diritto a una pensione equa e finanziariamente sostenibile nel corso del tempo. Ma la doverosa previdenza di chi governa e amministra il denaro pubblico non è diventata dignitosa previdenza per moltissimi italiani che hanno lavorato una vita intera. E che oggi si ritrovano con assegni miserrimi a fine corsa. A fronte, oltretutto, di una minoranza di persone due volte privilegiate: per le pensioni d’oro che, nella generale esigenza di sacrificio per tutti, essi invece ricevono. E soprattutto perché in troppi casi gli importi da Paperoni non sono proporzionati ai contributi versati. Il simbolo di questa scandalosa ingiustizia si chiama vitalizio, l’odiosa prebenda a vita che la politica s’è inventata, e non ancora radicalmente e ovunque cancellata, per passare la vecchiaia in tranquillità a dispetto della risibile contribuzione versata. E con il diritto all’incasso che scatta molti anni prima rispetto ai comuni mortali, cioè al resto del popolo italiano.
In questo paradosso della buona notizia per tutti diventata brutta per molti, ossia la vita più lunga che produce pensioni mediamente basse (il 40% degli oltre sedici milioni di pensionati non arriva a mille euro al mese), s’è inserita la riforma-Fornero contro la quale i sindacati si sono mobilitati. E che anche l’opposizione contesta.
Indiscutibile è l’assurdità che tale riforma ha prodotto: migliaia di lavoratori hanno dato l’addio al lavoro, ma non hanno avuto la pensione, perché il loro diritto slittava di anno in anno. E intanto i giovani non accedevano ai posti vuoti degli adulti. Li chiamano esodati e sono anch’essi l’emblema, come il vitalizio, di ciò che risulta intollerabile nell’Italia che s’allunga per vivere meglio, e non solo per vivere di più.
Tuttavia, la Corte dei Conti ha appena ricordato che il nuovo sistema pensionistico ha già fatto risparmiare 30 miliardi di euro all’anno. Ed è in questo non insanabile conflitto che bisogna trovare la soluzione: come garantire il sereno decoro ai pensionati senza rimettere in discussione il meccanismo. Flessibilità e rigore insieme. “Se potessi avere mille lire al mese” era solo una vecchia canzone. Oggi con mille euro al mese nessun pensionato oserebbe cantare.

Ecco gli effetti di Panama Papers

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La tempesta ha provocato il primo naufrago illustre: Sigmundur Gunnlaugsson, il premier islandese chiamato in causa per i suoi conti offshore nello scandalo ormai planetario denominato “Panama Papers”, s’è dimesso. Aveva provato a resistere, il timoniere, spiegando alla sua inferocita opinione pubblica che nulla di illecito né lui né la moglie – tirata anche lei in ballo – avevano commesso. Aveva pure accarezzato l’idea di sciogliere il Parlamento, tanto si sentiva sicuro di poter rispondere all’accusa generale d’aver nascosto ricchezze fuori dal suo Paese. Ma alla fine quel premier pur navigato ha capito. Ha capito che nella piccola Islanda nessuno si poneva la questione che i nostri politici amano sempre porsi quando scoppiano gli scandali in Italia. Ricordano che la Costituzione considera ogni cittadino innocente fino a prova contraria. Dicono che tale innocenza va rispettata fino in fondo, cioè fino a tre gradi di giudizio. Concludono che la politica non si fa giudicare dalla piazza, dal sospetto, dalla magistratura politicizzata più i tanti e fuorvianti argomenti che ogni volta sentiamo ripetere. Gunnlaugsson ha capito che esisteva una questione di opportunità che precede qualunque ed eventuale aspetto penale. Chi rappresenta il popolo sovrano o ricopre un incarico pubblico ha un dovere elementare e non solo costituzionale: apparire, oltre che essere, un cittadino che dà l’esempio di un comportamento irreprensibile. Un tempo s’usava dire “essere come la moglie di Cesare”, ossia al di sopra di ogni sospetto.

Per usare i nostri parametri: il premier islandese è un perfetto innocente, né alcun magistrato gli ha finora imputato alcunché. Ma la sua gente non di questo si preoccupava (semmai toccherà alla giustizia). La gente gli chiedeva semplicemente conto del conto: perché i soldi in Panama, se sei il premier dell’Islanda?

La verità non è difficile da cercare, quando si pongono interrogativi di puro buonsenso, ora che si sente di politici e imprenditori, di artisti e calciatori d’ogni Paese, lingua e partito così innamorati di Panama: perché? Perché dall’altra parte dell’Oceano? La risposta l’ha data proprio il presidente americano Obama: “Lo scandalo dimostra che l’elusione fiscale è un problema mondiale”. E neanche lui s’è infilato nei labirinti della “presunta innocenza” invocata dalla politica italiana qualunque cosa succeda. Che bella lezione, la lezione islandese.

(commento pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratto dal sito www.federicoguiglia.com)


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