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Non si governa con i vaffa-populismi di Salvini

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CONGRESSO FEDERALE LEGA NORD

Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Nella Roma un tempo “ladrona” e ieri, come sempre, soleggiata, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha cominciato la sua lunga marcia per il “Renzi a casa!”. Così diceva una scritta gigante alle sue spalle in una Piazza del Popolo piena e simbolicamente importante: destra e sinistra l’hanno a turno riempita in passato, e da qui sono spesso partite le rispettive rimonte. Siccome la novità del comizio è che “l’altro Matteo” -com’è stato ribattezzato-, ora passerà dalla protesta alla proposta, è proprio l’alternativa che si vuole costruire quel che suscitai maggiori interrogativi. Salvini è un leader giovane che dice pane al pane, e che dimostra una discreta capacità nel saper interpretare il disagio e soprattutto le paure dell’elettorato di centro-destra.

Un elettorato diviso, privo di un prevalente riferimento politico e vittima, come tutti gli italiani, della logorante crisi economica.
Ma per candidarsi al posto dell’attuale presidente del Consiglio e scalzare la sua maggioranza, ululare alla luna dell’Europa malvagia, dell’euro da seppellire, della Le Pen da imitare, del clandestino capro espiatorio di tutto ciò -moltissimo- che non funziona, non è ricetta di governo. E’ facile e infelice populismo. E’ terreno fertile per coltivare alleanze stravaganti, come quella con Casa Pound all’estrema destra. E’ grillismo in camicia verde, condito perfino dagli stessi “vaffa” dell’originale.

Ma per quanto Salvini possa colpire l’immaginario di chi l’ascolta con frasi ad effetto e riempire il deserto lasciato dal dopo-Berlusconi, non basta la parola. Non basta, meno che mai, promettere un’”aliquota fiscale unica al 15 per cento”: e chi potrebbe non volerla,nel Paese più tartassato del mondo? Ma all’impossibile di solito si dedicano i poeti, non i politici. Quando ci si candida a guidare il governo, specialmente di fronte a un comunicatore abilissimo come Renzi, la strategia di spararle grosse non premia più.

Proprio le gravi difficoltà che gli italiani incontrano nella loro economia d’ogni giorno, dovrebbero imporre a tutti, ma ancora più agli oppositori, di dar vita a un’alternativa che non sia solo rivolta a guadagnare voti facili e subito. Magari vincendo la partita del Veneto, ma perdendo la finale di palazzo Chigi, quando sarà.

Anche la credibilità delle cose che si dicono crea la fiducia della gente, e formala coalizione destinata a realizzare “quel” programma. E poi adesso c’è qualche timido segnale di ripresina. Se l’economia riparte, chi glielo dice a Salvini che persino il “no all’euro” rischia di passare di moda?



Berlusconi sta per risorgere?

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SILVIO BERLUSCONI_04_resize

Questo articolo è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Al padiglione 42 dell’istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone ieri mattina Silvio Berlusconi ha finito d’espiare la pena. Il leader di Forza Italia ha terminato il suo impegno con gli anziani, anche se giura che continuerà ad aiutarli, perché l’esperienza “è stata toccante”. Resta il fatto che l’un tempo Cavaliere che scendeva in campo per “impedire la vittoria della sinistra”, e che per quattro volte è stato presidente del Consiglio e per svariate altre leader dell’opposizione, da lunedì 9 marzo torna in pista. Certo, moltissimo è cambiato da quel 27 marzo 1994 che modificò il corso politico dell’Italia anche con la nascita del bipolarismo e di una pasticciata tendenza al maggioritario dopo mezzo secolo di logorato sistema proporzionale. Tutto cambia, e ventun anni dopo, Berlusconi ha quasi settantanove anni. E’ stato inoltre condannato per frode fiscale (da ciò il suo “affidamento” ora concluso). Oggi è attore non protagonista di uno schieramento di centro-destra diviso perfino sull’opportunità di appoggiare o meno il governo di Matteo Renzi, che è il leader del Pd, cioè dell’altra barricata. Tanta acqua è passata sotto i ponti e lo stesso scenario è diventato tripolare con Beppe Grillo terzo incomodo.

Ma proprio i numerosi e sempre uguali precedenti di chi lo dava immancabilmente per finito, insegnano che sarebbe un errore considerare archiviato il “politico” Berlusconi. Anche le inchieste giudiziarie che riesplodono con intercettazioni e giudizi o verdetti in arrivo (processo-Tarantini e sentenza della Cassazione sul caso-Ruby), poco potranno influire sul ruolo del capo di Forza Italia e sull’opinione dei suoi sostenitori. I quali, come ieri e come sempre, già gridano al sospetto dell’accanimento giudiziario contro il loro leader, nel momento in cui torna a essere un riferimento politico. Che lo sia, d’altra parte, è l’innegabile frutto dei numeri (sia pure tallonato da Matteo Salvini, Berlusconi gode ancora di un discreto consenso elettorale), e del riconoscimento altrui. Renzi ha appena spiegato d’essere rimasto deluso dal comportamento del suo interlocutore sulle riforme, confermando che tale lo considera per ragioni “politiche” e non numeriche, visto che il Pd è il partito più forte anche per quantità di eletti.

Paradossalmente è il deserto del dopo-Berlusconi nel centro-destra ad aver creato le condizioni dell’imminente ritorno. E anche se i propositi, stavolta, dovranno essere molto diversi rispetto a quelli del ’94 e successive “discese”, il Berlusconi di oggi può farsi forte della solitudine che tanto ha contribuito ad alimentare.


Tosi, Tafazzi irrompe anche sul Carroccio di Salvini

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SUMMERSCHOOL FMC 2014

Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona

Da tempo neanche le caserme sono più caserme. Figurarsi se possano esserlo i partiti, dove ognuno tende a far valere la sua personalità rispetto agli ordini di scuderia. E’ quel che sta succedendo anche, ma non solo (si pensi alle liti in pieno corso in Forza Italia e nello stesso Pd) nella Lega, dove lo scontro fra il segretario, Matteo Salvini, e il sindaco di Verona, Flavio Tosi, è arrivato alla fine. Dopo alcuni segnali di guerra e pace, ecco che lo strappo è consumato: Tosi è fuori dalla Lega. “Prendo atto della sua decadenza”, è l’addio di Salvini. “E’ la peggior politica, lui è Caino, io sono pronto a ricandidarmi”, risponde Tosi. A meno di un difficile colpo di scena nelle prossime ore, per i due litiganti non è stato possibile “trovare la quadra”, come ama dire Bossi.

Liste da presentare oppure no alle imminenti elezioni in Veneto. Fondazioni da chiudere o tenere in piedi. Commissariamenti annunciati o rifiutati. Questo e altro bolliva nella pentola del ring.

Ma quando si rompe un rapporto personale e politico, per chi osserva da fuori non ha troppo senso stabilire torti e ragioni. Per la grande maggioranza dei cittadini che non hanno il tempo né la voglia di seguire tutto il litigio minuto per minuto come un tempo si seguiva il calcio alla radio, ciò che resta è l’esito finale del “che fai, mi cacci?”, inaugurato da Fini all’epoca della burrascosa relazione con Berlusconi. Resta l’inevitabile divisione nella coalizione di centro-destra sul versante leghista, proprio quello che esprime il presidente della Regione, Luca Zaia. A livello nazionale il governo e il Parlamento sono a forte guida di centro-sinistra. Ma se il centro-destra intende risollevarsi e la Lega far sentire il vento in poppa che le segnalano i sondaggi, forse dovrebbe cercare di dividere gli avversari, più che dividersi fra dirigenti e persino potenziali alleati, con Forza Italia che spinge verso Salvini e Alfano (Ncd) che spinge contro Salvini. Se la gente non capisce, significa che a sbagliare sono i politici, e non viceversa.


Come incalzare i Lupi

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e La Gazzetta di Parma

L’ultima polemica fra toghe e politica sarà pure eccessiva nel tono e nel contenuto, ma rende bene l’idea. L’idea che la vera priorità del momento è una sola per tutti: come iniettare robuste dosi di rettitudine nella cosa pubblica.

Certo, fa specie sentire da Rodolfo Sabelli, il presidente dell’Anm, che è il sindacato dei magistrati, dire “dallo Stato schiaffi ai pubblici ministeri e carezze ai corrotti”. Con l’inevitabile e dura reazione del presidente del Consiglio, Matteo Renzi: “Frasi false e tristi”.

Generalizzare è sempre sbagliato, sembra il ritornello del “piove, governo ladro” per far sfogare l’indignazione della gente contro il marcio nel Palazzo. Ma tolto il facile qualunquismo dalla discussione, resta l’indignazione, che è autentica, fondata e soprattutto crescente fra i cittadini.

L’appena esplosa inchiesta “appalti a Firenze”, com’è ormai battezzata, arriva dopo un giro d’Italia di scandali che scoppiano quando meno te l’aspetti. Uno non fa in tempo a girarsi, e a girare la pagina del giornale, che scopre ogni genere d’accusa di corruzione dilagante. E a poco serve la solita premessa che tutti sono presunti innocenti fino a sentenza contraria e definitiva.

Il ministro Maurizio Lupi non è neppure indagato, eppure il sottosegretario Graziano Delrio dice che sta valutando le dimissioni, come le opposizioni esigono perché sfiorato nell’inchiesta. Lui, il ministro, nega la volontà di abbandonare il governo e si prepara a dimostrare che è estraneo alla vicenda: “Mai chiesto favori per mio figlio”, risponde a chi li tira in ballo.

Non c’è, dunque, alcun reato nel caso specifico. C’è una questione di opportunità e di credibilità che non dovrebbe mai sfuggire a chi fa politica. Chi governa non solo dev’essere, ma anche apparire come allergico ai condizionamenti di qualunque tipo. Il che non significa pretendere la santità, che non è di questo mondo, da chi amministra lo Stato ai più vari livelli. Solo si chiede che svolga la sua funzione con rigore e senza ombre. E, nel caso incandescente di Lupi, che spieghi con parole chiare e semplici il perché dei presunti favori (lavoro e regali) che dall’inchiesta fiorentina emergerebbero a beneficio del figlio. Gli italiani sono grandicelli abbastanza per ascoltare e per capire.

Ma il fiume che comincia a scorrere dalle carte giudiziarie sulle opere pubbliche pone soprattutto due questioni: il dovere di non rinviare più la legge anti-corruzione, inasprendo le pene e dando certezza della loro applicazione. E il diritto della gente a rivendicare il valore dell’onestà, che non è passato di moda, ma è la base per ricostruire con giustizia e con onore il futuro stesso dell’Italia.

f.guiglia@tiscali.it

Perché Papa Francesco è l’ultimo vero rivoluzionario

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papa a napoli @CiaoKarol

Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Dopo le parole che ha pronunciato a Napoli, per il Papa si può usare una definizione forte senza il rischio d’essere fraintesi: Francesco può essere considerato l’ultimo e forse l’unico vero rivoluzionario. Vero, perché dice il vero con frasi semplici, chiare e affilate. “La corruzione spuzza”, ha esclamato con espressione addirittura gergale. Nessuna legge anti-corruzione, nemmeno quella che giace in Parlamento da due anni, potrebbe essere più efficace di questa condanna morale.

Ma il Papa si mostra anche un buon rivoluzionario o un rivoluzionario buono, se si preferisce, perché invoca e incarna il cambiamento con tale rigore e vigore che finisce per colpire le coscienze di tutti. Con la sua visita tra Scampia e Pompei, col suo pellegrinaggio tra malati e detenuti e tra credenti e non credenti, Francesco sta compiendo una rivoluzione morale che partiti e politici d’ogni colore faticano persino a immaginare.

La differenza tra lui e loro è facile anche da spiegare. Quando il Papa afferma “reagite con fermezza alla camorra” la gente capisce subito che il pontefice crede in quello che dice. Non è campagna elettorale, né ammonimento per farsi bello davanti alle piazze. Proprio col suo comportamento, in tutti i sensi francescano, il Papa dà dimostrazione di coerenza fra il dire e il fare.

I cittadini comprendono perfettamente che al vescovo di Roma fanno davvero ribrezzo sia la corruzione che la camorra. E perciò il suo messaggio è credibile, affidabile, encomiabile come se fosse il suggerimento di un rispettato e amato nonno che magari potrà anche apparire fuori dal tempo e un po’ naïf con le sue improvvisazioni e le sue battute, ma che merita di essere ascoltato per le sue tenere perle di saggezza.

Dopo due anni di pontificato la visita a Napoli conferma la diffusa sensazione che di quest’uomo “venuto quasi dalla fine del mondo” ci si può fidare. Anche quando all’ombra del Vesuvio dice pane al pane facendo delle considerazioni in fondo elementari, ma proprio per questo così apprezzate dagli italiani alla continua ricerca del semplice buonsenso. Quando Francesco attacca il malcostume e denuncia lo sfruttamento del lavoro non mente e indica una via di speranza anche alle periferie e ai dimenticati da tutti.

La sua è una lezione soprattutto per chi fa politica e che, a differenza del Papa, avrebbe pur il compito istituzionale di risolvere il dramma della disoccupazione e di sradicare ogni mafia dal Mezzogiorno d’Italia. E’ la lezione dell’esempio che vale più di cento comizi. Meditate, politici, meditate.

f.guiglia@tiscali.it


Dove va la Rai con Renzi?

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vignetta rai way

Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Anche il nome, che ancora antepone la vecchia e cara radio alla prorompente televisione -“Radiotelevisione italiana”: ma per tutti semplicemente “la Rai”-, testimonia che ben sessantuno anni sono passati dal giorno della prima trasmissione col piccolo schermo nel 1954.

Tra parabole e digitale oggi il mondo arriva nelle nostre case attraverso centinaia di canali, che hanno reso meno dominante il pur resistente duopolio con Mediaset. Ma ormai persino la divisione tra pubblico e privato appare ardua, e non solo perché i programmi e i notiziari si somigliano, così tanto da essere interscambiabili. E infatti idee e conduttori transitano da una parte all’altra come i calciatori fra le squadre: le identità e l’amore per la maglietta si sono di gran lunga affievoliti. Qui telecomando io, è la consolazione per chi guarda.

Tuttavia, la Rai resta uno dei cinque grandi gruppi televisivi in Europa. E’ la principale industria culturale dell’Italia, oltre che l’unica a diffondere la lingua italiana nel mondo. E’ un luogo di eccellenza, se solo funzionasse in libertà con le sue straordinarie potenzialità. La Rai è ancora “mamma Rai”, ma acciaccata e tremebonda, poco propensa a farsi valere come in passato e, soprattutto, bloccata e umiliata dalla politica. Forse è l’ultima azienda pubblica che paghi così salato l’inaccettabile pedaggio tra l’avere buoni professionisti e un pubblico “generalista” tuttora ampio e affezionato e il dover dare spazio, interno ed esterno, a qualunque vacuità dei partiti. I tg sono i soli d’Europa a presentare ancora il cosiddetto pastone, cioè l’inutile e incomprensibile carrellata di politici che dicono e si contraddicono su tutto. Non già un’impresa al servizio degli italiani, ma troppo spesso in balia della politica: e tutti, a parole, giurano di volerla cambiare.

Dopo tanti annunci, ora un po’ di cambiamento s’avvicina. Il governo ha approvato un disegno di legge per rinnovare la Rai, e per farlo non per decreto, ma discutendo alle Camere. Il testo approvato dal Consiglio dei ministri riduce da 9 a 7 i membri del Consiglio d’amministrazione, dei quali quattro espressi dal Parlamento. E prevede un amministratore delegato – delegato dal ministero dell’Economia, ossia dal governo – con pieni poteri.

E’ chiaro e ragionevole l’intento di snellire, di potenziare, di riorganizzare. Ma guai se si passasse dalla padella alla brace, cioè dall’insopportabile controllo dei partiti a quello asfissiante del governo. Libera Rai in libero Stato: bastano cinque parole per la svolta necessaria.

f.guiglia@tiscali.it


Silvio Berlusconi, l’autunno del patriarca

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Questo commento è stato pubblicato ieri da L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi.

Si dirà che la scena s’è già vista almeno tre volte. La prima quando Silvio Berlusconi subì il ribaltone di Umberto Bossi, il fido alleato del 1994. La seconda quando fu abbandonato nel 2008 da Pierferdinando Casini, a cui pure aveva offerto in precedenza la segreteria di Forza Italia. L’ultima e più celebre rottura è anche la più recente, risalendo al “che fai, mi cacci?” che Gianfranco Fini, altro possibile delfino alla guida del centro-destra, pronunciò nel 2010 contro il Cavaliere. Uno dopo l’altro e in epoche diverse i tre pesi massimi delle forze coalizzate o addirittura integrate nel grande partito berlusconiano, hanno lasciato il Capo al suo destino. Ma era un destino molto diverso dall’attuale, perché Berlusconi governava o era il simbolo di un’opposizione che faceva l’opposizione nella speranza, sempre realizzata, di tornare di lì a poco a palazzo Chigi.

Invece i litigi e gli strappi di oggi, che hanno fatto sbottare il leader di Forza Italia col rimprovero, forse più amaro che offensivo, di “slealtà” rivolto ai suoi critici e a chi l’ha appena lasciato -come Sandro Bondi, che a Berlusconi arrivò a dedicare addirittura una poesia-, hanno un sapore molto diverso. E non solo perché dall’altra parte della barricata, o quasi, non ci sono politici come Casini, Fini o il pur riconciliatosi Bossi, essendo Raffaele Fitto l’assai più modesto contestatore del momento. Suona differente il botta e risposta coi dissidenti odierni perché sono cambiati il Capo e l’epoca. Lui, il leader che ha appena concluso i servizi sociali e che è uscito assolto definitivamente dal processo-Ruby, in teoria si troverebbe nella condizione possibile per “ripartire”. Ma in concreto si sta ventilando la vendita del Milan, a cui il presidente onorario è più affezionato che a Forza Italia. In concreto l’uomo è costretto a “legarsi” -da Lega, appunto- a Matteo Salvini per non perdere il treno del voto regionale. In concreto ha davanti a sé la prospettiva di doversela vedere, un giorno non troppo lontano, con Matteo Renzi. E anche un riconosciuto combattente come Berlusconi comprende quale ardua impresa sarebbe. Proprio nel momento in cui l’ex presidente del Consiglio può tirare un sospiro di sollievo e tentare di rimettere il centro-destra in cammino, tutti i nodi arrivano al pettine. Dalla terra bruciata che Berlusconi ha fatto dentro la sua stessa area politica, alla gestione padronale che non ha prodotto alcun successore interno, né incoraggiato un esterno. Siamo in primavera, ma è l’autunno del patriarca.


Guardia di Finanza, come combattere le piccole e grandi ruberie

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Per Rudolph Giuliani, già celebre sindaco di New York, il primo atto della sua “tolleranza zero” fu di punire non la grande corruzione, ma il piccolo illecito. Impedire reati minori e comportamenti inaccettabili – tipo quello di chi non pagava il biglietto del trasporto pubblico -, significava guadagnarsi la credibilità per colpire con forza l’evasore delinquente o il truffatore criminale. Legalità era dare l’esempio uguale per tutti: qui la legge si rispetta.

Per la società tedesca (ma lo stesso vale in buona parte d’Europa) basta che un ministro abbia copiato, trent’anni prima, qualche riga per la sua tesi di laurea per pretenderne e ottenerne le dimissioni. Se non lo facesse, infatti, rischierebbe d’arrossire ogni giorno, additato pubblicamente dai suoi cittadini come un falsario: e chi potrebbe mai fidarsi di un falsario al governo?

Da noi la sensibilità sociale, ma forse bisognerebbe dire etica nei confronti degli autori di piccole o grandi ruberie, specialmente se tali ruberie avvengono a danno dell’intera collettività, è meno intensa, per usare un caritatevole eufemismo. Lo conferma l’ennesima fotografia che la Guardia di Finanza ha scattato sul 2014, e che somiglia a tutti i ritratti precedenti: ottomila evasori totali, un terzo degli appalti pubblici assegnati in modo contrario alla legge, una cifra miliardaria in beni sequestrati per reati tributari e via elencando.

E’ chiaro che una parte di questo album della vergogna fra appalti irregolari, tangenti e sprechi dipenda dalla quantità spropositata di norme che dicono e si contraddicono: la selva oscura dove la corruzione si nasconde e s’alimenta. Ed è evidente che anche la qualità delle leggi sia insufficiente per arginare il fenomeno di chi sfrutta non solo la probabilità altissima di non essere mai scoperto, ma anche la certezza che, se scoperto fosse, andrebbe incontro a pene e condanne risibili. Tuttavia, dal mancato scontrino del negozietto fino al furto di Stato nei grandi appalti non si può incolpare solo, e di tutto, il pur distratto legislatore. Che da troppi anni condona, depenalizza, prescrive e s’inventa ogni cavillo per garantire l’imputato, anziché la vittima del reato con lo stesso zelo.

Purtroppo c’è un diffuso comportamento pubblico che neanche Mani pulite è riuscita a eliminare, e ventitré anni sono passati. Ma forse una piccola cosa la possiamo fare tutti noi: riscoprire il diritto/dovere di reclamare onestà in ogni ambito. Cambiare marcia per sradicare il marcio.

f.guiglia@tiscali.it 


Strage al Tribunale di Milano: l’Italia è davvero sicura?

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SPARATORIA TRIBUNALE DI MILANOPRESIDIO FORZE DELL'ORDINE

Questo commento è stato pubblicato oggi da L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Tre morti ammazzati nel più importante tribunale della Repubblica, e il giorno dopo la strage provocata da un solo uomo armato di pistola molti cittadini già si chiedono: ma siamo sicuri di vivere in un Paese sicuro? Domanda opportuna, visto che arriveranno almeno due eventi universali e milioni di persone d’ogni nazione al seguito, l’Expo nell’appena insanguinata Milano e poi il Giubileo a Roma.

Qual è, dunque, il prezzo della percezione di tranquillità per tutti, per chi arriva e per chi riceve? Da tempo l’era globale fa pagare un pedaggio altissimo agli abitanti del nuovo mondo senza frontiere. E’ il pedaggio della sicurezza collettiva, che spesso va a danno del principio della libertà e del diritto alla riservatezza. Il mondo nuovo ci ha abituato alle code agli aeroporti, agli obblighi di identificazione una volta impensabili, ai controlli e alle verifiche che fanno perdere la pazienza.

Ma il tutto è rivolto a prevenire il male, e il tutto avviene soprattutto all’estero. Da noi molto meno, un po’ per indole e tradizione nazionale (tendiamo a vedere il bello e il buono delle cose e degli altri; ed è una virtù), un po’ perché organizzare significa pianificare e soprattutto investire. E le risorse economiche, si sa, devono fare sempre i conti con la crisi, che è vorace e velenosa. Ma niente alibi. Né la mancanza di soldi, né l’oggettiva impossibilità di impedire a un pazzo di sparare nel mucchio in un luogo pubblico (non però in un tribunale, e che l’inchiesta accerti ogni responsabilità sui controlli-colabrodo), possono indurre le istituzioni ad abbassare la guardia.

Lo Stato ha il dovere di far sentire gli italiani tranquilli in patria propria. Anche perché là fuori incombe il terrorismo che si richiama alla guerra santa, che si è addirittura costituito nell’autoproclamatosi Stato dell’Isis, e che ogni giorno minaccia quella violenza di cui dà orribile prova in varie aree del pianeta. Il nostro mondo senza frontiere paga, quindi, anche il doveroso pedaggio di dover difendere la sua gente dalla barbarie. E perciò la sicurezza che si richiede al governo e alle autorità preposte è duplice: tutelare i cittadini in Italia e contribuire a salvaguardare il mondo libero dal fanatismo criminale di chi vorrebbe abbatterlo nelle persone e persino nei suoi simboli d’arte e civiltà.

La sicurezza, allora, dev’essere una priorità. La sicurezza è la più tipica prerogativa costituzionale dello Stato. Ma questo bene prezioso non basta che sia scritto sulla Carta. “Io non ho paura”, devono poter dire ad alta voce gli italiani, se lo Stato c’è.


I miei progetti per la Società Dante Alighieri. Parla Andrea Riccardi

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Questa intervista è stata pubblicata sul quotidiano Il Messaggero diretto da Virman Cusenza

Nell’arcobaleno universale delle lingue il professore ha già trovato il colore dell’italiano: “E’ riconoscibile come la lingua della simpatia”. Come storico della Chiesa cattolica non ha dubbi: “Papa Francesco è il più grande testimonial della lingua italiana nel mondo”. Come ex ministro della Cooperazione internazionale (governo-Monti nel 2011) dice: “Non investire sulla lingua italiana è come volere un Paese muto”. Parla Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant’Egidio nel 1968, e da poco eletto alla presidenza della Società Dante Alighieri. Annuncia al Messaggero la nuova sfida: “Rafforzare l’italofonia, il ponte fra lo stile di vita italiano e il mondo che ama la nostra lingua”.

La Dante fu fondata nel 1889 da un gruppo di intellettuali guidato dal poeta Giosuè Carducci. Centoventisei anni dopo, è più facile o più difficile tutelare e diffondere la lingua italiana nel mondo?

“La Dante è nata in un contesto in cui l’Italia affermava la sua prima identità unitaria attraverso la lingua e la cultura italiane. Oggi non è solo un problema di mantenere viva la lingua tra gli italiani nel mondo, ma anche di insegnarla agli immigrati nel nostro Paese. E poi c’è un altro aspetto importantissimo: l’enorme patrimonio di ital-simpatia”.

Che tipo di simpatia intende?

“E’ una simpatia per l’Italia, per la sua cultura, la lingua, la musica, il design, lo stile, il modo di vivere italiani. Come spiegare, altrimenti, il mistero del perché l’italiano sia la quarta lingua più studiata tra gli stranieri nel mondo? Succede per lo stile di vita. E’ il piacere della bellezza prima che dell’utilità. Un certo consumismo tende a sopprimere il valore della bellezza. Ma una vita senza bellezza diventa disumana e si spegne. E’ la bellezza delle città italiane, della nostra arte, del nostro modo di vivere. C’è un umanesimo italiano, un nostro genio. Non lo dico con retorica. Uso un tono basso. Parlo di un umanesimo pratico e vissuto. Un’opportunità per l’Italia, se saprà coglierla. Penso, per esempio, al prossimo Giubileo: che questa Roma sia all’altezza del suo nome evocativo nel mondo”.

Ogni Paese ha una sua politica della lingua per valorizzare e diffondere il proprio idioma in patria e all’estero. Perché i governi e le istituzioni italiane sono invece così poco consapevoli del valore internazionale della lingua italiana, che quest’anno festeggia 1.055 anni di vita?

“Non lo so, è qualcosa che mi stupisce. Ma la questione è molto giusta: non investire sulla lingua è non investire su tutta la ricchezza italiana. In un certo senso è come volere un Paese muto”.

Perché la Dante non si fa promotrice di una conferenza internazionale per l’italofonia, come fanno tutti i Paesi europei con le proprie lingue, mettendo insieme personalità e Stati interessati alla lingua italiana?

“Mi sono appena insediato, trovando una Società dalle tradizioni antiche, ma vitale. Una delle mie proposte va proprio in questo senso e intendo approfondirla molto presto coi miei collaboratori: rafforzare lo spazio dell’italofonia”.

L’italiano è l’”inglese dei preti”, come suol dirsi. Papa Francesco non perde occasione per parlare in italiano anche all’estero. Bella lezione per chi rappresenta la Repubblica italiana a tutti i livelli, e magari scrive in pietoso inglese il logo del Comune di Roma…

“Io credo che il Papa sia il più grande testimonial della lingua italiana nel mondo. La Chiesa cattolica è l’unica organizzazione internazionale in cui la lingua italiana è la lingua franca. Questo è un fenomeno molto interessante, che si connette al valore universale di Roma”.

Dove può portare l’amore degli altri per la lingua italiana?

“L’italiano ha bisogno di nuovi ponti per la sua diffusione e il suo approfondimento nel mondo. Noi abbiamo la grande possibilità della Dante nel mondo: più di quattrocento sedi -alcune con strutture molto solide come a Buenos Aires- in una sessantina di Paesi. Sono i cardini della nostra vita nel mondo”.


Papa Francesco non rampogna solo la Turchia sui genocidi

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SCELTA EDITORIALE

Questo articolo è stato pubblicato oggi su Bresciaoggi e il Giornale di Vicenza

Sono passati cent’anni, ma sembra ieri. Sembra ieri per il popolo armeno, che si accinge a ricordare, il 24 aprile, l’inizio del massacro di un milione e mezzo di persone subìto durante la Grande Guerra ad opera dei “giovani turchi”, mentre tramontava l’impero ottomano.

Sembra ieri per la Turchia di oggi, che contesta con durezza (“calunnie”) l’uso del termine genocidio per quella tragedia e perciò attacca il Papa per averlo pronunciato. Sembra ieri per il mondo che guarda e che si barcamena, un po’ sorvolando su una contesa ancora scottante, un po’ esortando Ankara ad abbassare il volume di una polemica priva di senso (“toni ingiustificati”, ha detto il nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, in difesa indiretta del pontefice).

Ma Francesco ha parlato del “primo genocidio del XX secolo” a proposito degli armeni non solo perché dice sempre quello che pensa a costo di non essere diplomatico -e in questo caso di sicuro non lo è stato-, ma soprattutto come monito universale: mai più si ripetano gli orrori del Ventesimo secolo, nazismo, stalinismo, massacri in Ruanda, Bosnia e altrove compresi e anch’essi citati. Un riferimento concreto alle terribili persecuzioni in corso soprattutto contro i cristiani in varie parti del globo. Dunque, nessun intento del Papa di infilarsi in un evento ormai consegnato alla storia. Solo il desiderio che tutti imparino la lezione della storia: basta eccidi. Visto, oltretutto, che l’epoca presente pare molto distratta, e troppi martiri contemporanei lo testimoniano.

Eppure, l’invocazione alla verità e alla riconciliazione per fatti lontani nel tempo, è stata subito interpretata dalla Turchia, che sul tema ha i nervi scoperti, come un’incursione in sede storiografica o addirittura politica. Da qui la scelta di richiamare il proprio ambasciatore dalla Santa Sede, trasformando il monito pastorale in affronto nazionale, e questionando sul valore giuridico della parola “genocidio”. Ma il Papa non fa il glottologo, né il giurista.

La sua ribadita richiesta di semplice e franca “verità” è un messaggio al cuore dei governanti perché fermino i massacri di oggi, non già perché riscrivano la storia di ieri. Sulla quale, peraltro, il nuovo e cauto sottosegretario, Sandro Gozzi, considera “inopportuno” che il governo italiano prenda posizione.

Guai a mescolare storia e politica. Ma che ogni nazione faccia i conti sereni e onesti con la propria storia. Specie se vuole far parte dell’Europa di oggi, che si è pacificata con se stessa.


Sicilia, perché è l’Europa ad affondare con i barconi

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immigrati

Questo commento è pubblicato oggi da L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Non bastavano la fame e il freddo, l’insidia delle onde e la tortura degli scafisti. Adesso il dramma dei migranti che sbarcano in Sicilia, primo avamposto di un’Europa sorda e cieca, si carica anche di odio religioso: quindici immigrati musulmani, incluso un minorenne, sono stati arrestati a Palermo con l’accusa d’aver buttato in mare dodici profughi cristiani durante l’ultima traversata. Tutto per una rissa scoppiata sul barcone fra un centinaio di disperati nella notte di due giorni fa, e altri cristiani si sono salvati dalla furia omicida improvvisando una catena umana per darsi forza l’un con l’altro. Non era mai successo, ma c’è sempre una prima volta in questo mondo alla rovescia, dove anche la guerra tra poveri può assumere incredibili pretesti religiosi. E dove i cristiani continuano a pagare il prezzo più alto di questa follia, persino dentro un gommone della speranza.

Fino a quando le istituzioni potranno tollerare il dilagare ovunque e comunque del conflitto dal bersaglio facile, il cristiano solo, disarmato e, per sua vocazione, pacifico? Fino a quando i governi continueranno a snobbare il nuovo esodo biblico dei più deboli e indifesi d’ogni religione, ceto e nazionalità, che lasciano patria e famiglia per un posto al sole nell’invece gelida Europa? Lassù, negli uffici che contano nella sempre grigia e piovosa Bruxelles ancora credono che destinando finanziamenti irrisori alla missione e riempiendo di complimenti i soliti italiani “brava gente” la pratica sia chiusa. Come se accudire e sistemare il fiume inarrestabile delle persone in arrivo giorno e notte dall’Africa, fosse compito di un sindaco, di una parrocchia, di un ente locale, fosse anche il più grande come la regione. A forza di non voler vedere la vastità del fenomeno e senza approfondire le ragioni e le conseguenze di questa fuga di massa,

Se il fenomeno diventa ingovernabile, imprevedibile sarà la reazione della gente che accoglie. Anche di quella – e ce n’è tanta, per fortuna – con un cuore grande così. Ma tutta la generosità del mondo non si può concentrare sulla sola e lasciata sola Italia. Nessuna istituzione potrà mai sostituirsi al dovere di una politica ragionevole e di una strategia lungimirante che vedano impegnati tutti i Paesi dell’Unione per regolare l’immigrazione. La Sicilia non è più un’isola: Bruxelles se ne faccia una ragione e intervenga. Ed è già tardi.

f.guiglia@tiscali.it


Cosa fare nel canale di Sicilia

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Ecatombe, strage, catastrofe. Neanche ricorrendo alle parole estreme si può raccontare la tragedia più grande di sempre alle porte di casa. Novecento migranti annegati nel canale di Sicilia perché il barcone sul quale viaggiavano, stipati come bestie, si è ribaltato. Loro, i fuggitivi della guerra e della fame, avevano visto avvicinarsi la nave che li avrebbe salvati. Sembra, perciò, che si siano tutti spostati dal lato del mercantile in arrivo. E così il peschereccio di venti metri per trenta che li trasportava, si sarebbe rovesciato. Appena ventotto i superstiti ripescati, letteralmente. L’ultimo carico dei disperati è stato inghiottito tra le onde del Mediterraneo, il “Mare Nostro” per noi che siamo vivi e per loro che sono morti.

Dall’Onu al Papa inascoltato (“cercavano la felicità”), dalla denuncia del Quirinale alla richiesta del governo italiano che esige un vertice e una mobilitazione dell’Europa, tutti ormai capiscono due cose elementari: che salvare chi scappa dalla miseria e dalla violenza è un dovere. E che un Paese solo, il nostro, non potrà mai farcela senza l’aiuto organizzativo, economico e soprattutto politico dell’Unione europea e della comunità internazionale.

E allora forse c’è una parola per riassumere, novecento morti dopo, il ventennio di naufragi fra l’Africa e l’Europa, cioè fra la Libia e l’Italia in particolare: genocidio. Come europei stiamo assistendo alla drammatica scomparsa in massa di un’intera generazione di perseguitati, di sfruttati dalla criminalità scafista, di donne, bambini e giovani profughi che sono alla mercé della schiavitù contemporanea. Della quale tutto si conosce, dalle rotte in mare seguite a chi le organizza, al volume degli affari sulla pelle della povera gente.

La scelta, dunque, è semplice: intervenire tutti insieme, intervenire subito. Non ci sono alibi per quei rappresentanti delle istituzioni europee che continuano a non vedere ciò che la televisione butta ogni giorno dentro le loro case, mentre sono seduti comodi in poltrona. Non possono più restare a guardare. Qui è in ballo un principio condiviso di civiltà, che non si baratta per una campagna elettorale, né si travisa con cinismo per pura polemica politica. Quei novecento morti “ammazzati” viaggiavano semplicemente per un sogno di sopravvivenza. E non l’hanno neppure realizzato.

Il mondo che conta, e che può, ha il dovere di reagire. Altrimenti sarà complice del nuovo genocidio.


Giovanni Lo Porto, salotti tv pieni e Aula vuota

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Questo commento è stato pubblicato ieri su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

La morte di Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano ucciso “per errore” da un drone americano in Pakistan, ha innescato una polemica durissima. La politica chiede e si chiede con vigore: perché Barack Obama, che s’è assunto la responsabilità del drammatico sbaglio, ne ha chiesto le pubbliche scuse e ha promesso un risarcimento, ha informato così tardi le autorità italiane? (l’omicidio di Lo Porto e di un altro ostaggio americano risalirebbe addirittura a gennaio).

Quant’è efficace questa strategia “made in Usa” nella lotta al terrorismo per cieca via aerea? E Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio che proprio a Washington aveva da poco incontrato Obama, quando ha saputo, e come intende reagire alla tragica notizia, che non cessa d’essere tragica sol perché tardivamente appresa? Tutto giusto, tutto lecito: il Parlamento ha il diritto-dovere di scavare fino in fondo per strappare la verità e nient’altro che la verità sulla sorte del nostro connazionale, che da troppo tempo era stato abbandonato al suo destino, se si pensa che il rapimento di Lo Porto è di ben tre anni fa. E’ evidente che le circostanze, se possibili aggravate dalla franca ammissione degli Stati Uniti, inducano chiunque, e a maggior ragione le forze politiche, a voler vederci ben chiaro nella storia.

Solo una cosa, tuttavia, è inammissibile: che appena una manciata di deputati abbia ascoltato la ricostruzione e il punto di vista italiani, espressi alla Camera, oltretutto, dal ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni (non da un sottosegretario qualsiasi). Una quarantina di presenti in aula, circa il sette per cento dei 630 componenti.

Per una volta valga l’espressione più abusata di tutte: che vergogna. Vergogna che alla vigilia del 25 aprile la stragrande maggioranza dei deputati, e d’ogni schieramento, abbia anticipato la festa disertando il Parlamento, luogo sacro anche e in particolare quando deve dimostrare di saper rappresentare la nazione, come dice la Costituzione. Ma se non la si rappresenta nei momenti di omaggio per l’italiano caduto e di voglia di verità sull’accaduto, quando la si rappresenta? Ci sono atti che i cittadini non perdonano.

Uno di questi è l’aula deserta, l’assenza di chi ha l’obbligo morale e personale di farsi sentire e vedere soprattutto nell’ora del bisogno. “Con quello che guadagnano”, aggiunge, poi, tanta gente, mentre in tv scopre, allibita, la mancanza di sensibilità per la vittima e di rispetto per il popolo italiano da parte di chi non c’era.

f.guiglia@tiscali.it

Forza Expo

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Questo articolo è stato pubblicato oggi sul Giornale di Vicenza

Dopo inchieste giudiziarie tempestive -perché hanno sventato in anticipo il rischio di scandali-, dopo polemiche infinite su tutto ma soprattutto sui lavori in corso che finiranno ai supplementari -cioè all’ultimo secondo della mezzanotte-, il grande giorno è arrivato: da oggi l’Expo di Milano apre al mondo.

La finestra dell’Italia sull’universo resterà spalancata per sei formidabili mesi. Sì, formidabili quei mesi, visti l’impegno e la creatività dei privati e delle istituzioni, i dieci milioni di biglietti già venduti, i centotrenta Paesi partecipanti e il tema proposto, che più italiano e internazionale non si può: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”.

Il cibo come fonte della vera ricchezza per tutti, che è il diritto a una vita dignitosa per ciascuno. Il pianeta quale luogo di incontro che impone ai governi il dovere di politiche consapevoli per combattere la fame dei tanti e salvare l’ambiente dagli interessi distruttivi dei pochi. Un filo rosso, anzi, rosso, bianco e verde come i colori della nostra bandiera, che per sei mesi terrà insieme le riflessioni, le visite, le novità, i sogni che da Milano  -ecco l’obiettivo dell’Esposizione – dovranno riflettersi sul mondo.

Un arcobaleno di speranza per i popoli e per chi li rappresenta: che tutti possano riscoprire i valori che contano e la bellezza del vivere insieme. Quasi la nuova utopia del nostro tempo fragile e violento, di un’epoca maturata nella pace in Europa che non rinuncia alla guerra in tante parti del globo, di generazioni che hanno fatto proprio il principio della libertà e di migrazioni ancora in balia della miseria, della schiavitù via mare, della discriminazione in patria. L’esposizione universale, dunque, non dovrà essere soltanto un buon investimento economico per l’Italia. Sarà forse il tentativo di un ripensamento globale (si veda la “carta di Milano”). Sarà comunque la proposta di un cammino fra padiglioni, nuove opere, idee.

Eppure, gli eterni contestatori del “No” a tutto hanno imbrattato vetrine e lanciato uova contro una bandiera tricolore su un balcone. E i soliti incappucciati e vestiti di nero si sono fatti notare dentro un corteo di poche centinaia di studenti contro l’Expo. S’annunciano proteste. Ma il mondo è altrove. Il mondo è nel messaggio di Papa Francesco per l’apertura. Nel canto con cui Andrea Bocelli dà il “la” all’evento. Nella “firma” delle Frecce Tricolori sul cielo sopra Milano.

Comincia la grande e festosa scommessa, come succede quando l’Italia e gli italiani sanno osare, dando il meglio di sé.

f.guiglia@tiscali.it


Prendiamo esempio dai milanesi

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Questo commento è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Gli altri distruggono, loro ricostruiscono. Ancora una volta Milano e i milanesi si dimostrano all’altezza della loro fama laboriosa e generosa. Non s’era neanche spento il fuoco delle auto bruciate dai delinquenti vestiti di nero e delle polemiche subito divampate in ambito politico che già i cittadini ripulivano le strade sporcate e i muri imbrattati.

E le amministrazioni annunciavano giornate di mobilitazione della gente -sabati compresi-, perché tutti contribuiscano a ridare il decoro che merita il capoluogo lombardo e oggi più che mai mondiale: dall’appena inaugurata Esposizione universale alla contemporanea Turandot della Scala trasmessa in mondovisione. Non il giorno dopo, dunque, ma nel corso stesso dell’umiliante devastazione da parte dei “quattro teppistelli figli di papà”, come li ha battezzati il presidente del Consiglio, Matteo Renzi (ma purtroppo non erano solo quattro), i residenti hanno reagito in ogni modo.

Persino insultando quei manifestanti violenti mentre agivano incappucciati, ossia di nascosto. E buttando acqua contro di loro dalle finestre. Ed esponendo sul balcone la bandiera nazionale in segno di orgoglio per l’Expo “made in Italy”, cioè rivendicando l’evento contro il quale quegli altri, invece, inscenavano la guerriglia da marciapiede. L’amore per la propria città si onora rimboccandosi le maniche senza aspettare l’aiuto di nessuno. E rimettendo al loro posto anche le piante e i fiori strappati.

Questo piccolo, grande esempio di civismo mai sbandierato per vanità, ma praticato con riservatezza come abitudine di una collettività colpita nei suoi beni e affetti, è un insegnamento che vale ben oltre la “capitale morale”, che così conferma il giusto soprannome. E’ la forte reazione etica di ciascuno e di tutti ciò che oggi più serve al Paese per cambiare. La stessa e bella scommessa dell’Expo è frutto soprattutto della volontà dei singoli. Una marea di singoli e spesso di volontari coordinata a livello istituzionale. Ma lo Stato accompagna, asseconda, interviene quand’è necessario: prima viene la dedizione delle persone, imprenditori e lavoratori che non si sono messi a piangere per l’insopportabile ritardo delle opere, ma che giorno e notte l’hanno colmato col sudore della fronte, consentendo all’Italia di rispettare l’impegno internazionale.

Ora i milanesi si ripetono. Non fanno le vittime, non si chiedono se la polizia abbia troppo tollerato o evitato il peggio, ma agiscono. E allora, in attesa che i colpevoli paghino fino all’ultimo per lo scempio compiuto, “siamo tutti milanesi”.


Iginio Straffi, chi è e cosa pensa il papà artistico delle Winx

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Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Il Messaggero

Per scoprire il segreto della loro magia, bisogna venire qui, a Loreto, in provincia di Ancona, dove la poesia è voce del territorio. Se le sei fatine delle Winx, il cartone animato “made in Italy”, volano da sette stagioni televisive fra le bambine del mondo, è perché il “papà” marchigiano di cui sono figlie, quando guarda all’orizzonte sente il profumo di Leopardi.

Iginio Straffi, nato a Gualdo cinquant’anni fa, ha scelto da tempo di piantare le radici del suo universo immaginario a due passi da Recanati, dove l’Infinito e i “sovrumani silenzi” del maggior poeta italiano dell’Ottocento – e tra i massimi della letteratura internazionale – hanno il sapore di casa.

In centocinquanta Paesi vedono quel che cucina in collina un centinaio di sognatori, soprattutto giovani e soprattutto donne, all’opera quotidiana in un laboratorio di fantasia costruito da pochi anni, pieno di verde e di vetri. Ai ragazzi che disegnano, il talento è caldamente consigliato, ma non basta. Per far vivere un cartone italiano che farà il giro del mondo, servono una sceneggiatura – cioè personaggi forti, ambientazione suggestiva e una bella storia da narrare -, effetti e macchine speciali, rumori e colori, montaggi e smontaggi, e tanta pazienza. “Al nuovo cartone che sarà consegnato alle tv nella primavera del 2016, e che per ora ha il nome provvisorio di Royal Academy, stiamo lavorando da ben cinque anni”, racconta Straffi già calato nei panni dei soggetti colorati in rampa di lancio.

Lo si capisce perché, delle sue creature pur future, usa i verbi solo al presente. “Viviamo le avventure di un gruppo di pronipoti delle favole classiche”, rivela come se fosse lui stesso parte del racconto. “La serie prevede la pronipote di Cenerentola, il pronipote di Biancaneve, che è un maschio, e altri figli dei figli delle fiabe più celebri. I quali, oltre a fare le solite cose normali, tipo l’andare a scuola, si trovano ad avere missioni importanti da compiere, portando sempre alla luce la parte positiva della “morale della favola” a cui appartengono”. Ma innovazione e tradizione hanno bisogno anche di divertimento. “Giochiamo con i luoghi comuni delle favole”, spiega subito. “Per esempio, camminando davanti a un negozio di scarpe, la pronipote di Cenerentola viene come risucchiata dalla vetrina. Cerca di resistere, ma alla fine cede ed entra in negozio…”.

Lui, il padre delle Winx e presto nonno delle pronipoti animate, da bambino amava Pollicino, “il fratellino più piccolo che, da solo, riusciva a salvare gli altri”. La madre di Straffi faceva la sarta, il padre guidava gli autobus di linea. “Passavo ore in casa ad ascoltare con mia sorella le fiabe sonore consumate col disco della Fabbri in un mangiadischi bianco”, rievoca quasi con tenerezza. “I fascicoli allegati avevano delle illustrazioni stupende, frutto dei grandi Maestri italiani. Inseguivo già allora una felicità fatta di momenti”. La personalità del bambino che l’intera sua vita avrebbe dedicato ai bambini (“passiamo tutta l’esistenza a rincorrere la nostra infanzia”, diceva uno scrittore), si afferma in quarta elementare durante la sfilata organizzata dalla scuola. “Io mi identificavo molto con un personaggio che non era famoso, come lo erano Zorro, Sandokan o la principessa Sissi per le bambine”, ricorda. “La maestra annunciava la mia comparsa in costume, un costume naturalmente ricavato e ricamato dalla mia mamma sarta. Ecco il comandante Mark, diceva, indicandomi. Ma nessuno capiva. Mi ero immedesimato in quel personaggio dei fumetti-Bonelli che era un ribelle contro le Giubbe rosse durante la guerra d’indipendenza americana. Mi sarebbe piaciuto anche sfilare come Tarzan. Ma non potevo certo andare in giro col perizoma leopardato.…”.

L’uomo che viaggia da anni sulle ali delle Winx e di altre produzioni internazionali come Gladiatori di Roma o Huntik, si formò ventiseienne a Parigi, “dove ho scoperto la potenza del cartone animato”. Quell’esperienza oggi la rivive così: “L’animazione italiana era molto artigianale, piccole realtà che lavoravano tutto a mano. In Francia, invece, c’erano gli studi industriali. Tu eri parte di un gruppo di professionisti e ogni settore aveva una sua competenza. Il tuo lavoro non finiva, quindi, come l’avevi concepito in origine. A volte meglio, a volte peggio. Però andava a finire in tv o al cinema, non si riduceva a filmetto da mandare al festival né a semplice spot. Per me fu la svolta”.

L’arcobaleno degli incontri e dei viaggi veri e fantasticati l’ha coronato in due modi: battezzando proprio “Rainbow”, arcobaleno, il laboratorio di schizzi e di idee all’ombra di Recanati, e sposando Joanne Lee, di Singapore, “che mi ha aiutato moltissimo nel nuovo progetto animato”. Progetto che per la prima volta avrà il giudizio della bambina più severa, la figlia Isotta di ventun mesi.

Ma questa è tutta un’altra favola.


Beppe Grillo, il comico-politico novello radiologo

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C’è un male che fa più male del male, ed è lo sfruttamento del dolore per fini economici che poco o niente c’entrano con la guarigione. Lo sappiamo tutti. Ma per amor di polemica non si può mettere tutto nel frullatore. Guai a generalizzare

Questo articolo è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Ogni volta che la politica confonde la medicina con la sanità sono dolori. E l’ultima polemica aperta da Beppe Grillo ne è solo la plateale conferma: come si fa a prendersela con l’oncologo ed ex ministro Umberto Veronesi o con il sistema delle mammografie, senza comprendere che si sta camminando su un terreno minato?

Dove la politica e lo scontro sempre legittimo fra i suoi attori nulla hanno a che vedere con la vita vissuta dalle persone. E’ un terreno minato dalla sofferenza delle donne e degli uomini coinvolti, dei loro familiari in ansia, dei tanti medici impegnati da anni a smentire il luogo comune del “male incurabile”. Un’espressione che è stata abolita dal parlare comune, e non solo dalla divulgazione scientifica, perché la brutta bestia del tumore non è più invincibile come un tempo.

Il tempo in cui la cultura dell’accertamento delle malattie si faceva sempre dopo e mai prima. E la cura serviva per reprimere, anziché prevenire. E l’informazione era patrimonio solo dei dottori e della loro capacità di comunicare col paziente, invece che consapevolezza sociale e il più possibile elementare per tutti. Consapevolezza, per esempio, dell’importanza delle mammografie che tante vite hanno salvato. Un obbligo che la medicina ha reso quasi naturale, perché la natura quand’è chiamata a scegliere, sceglie sempre la vita.

Certo, avere il senso delle cose e il buonsenso di distinguere tra medicina e sanità non significa santificare qualsiasi prassi né l’industria farmaceutica a prescindere. Il cinema e la realtà sono pieni di affarismo raccontato e denunciato sulla pelle dei malati. Sul tema c’è un dibattito addirittura internazionale in pieno corso: come rendere “per tutti” la ricerca, la produzione e l’assistenza ai più deboli (basti un nome: Emergency) che il mondo più ricco tende a riservare per sé.

C’è un male che fa più male del male, ed è lo sfruttamento del dolore per fini economici che poco o niente c’entrano con la guarigione. Lo sappiamo tutti. Ma per amor di polemica non si può mettere tutto nel frullatore. Guai a generalizzare. “Vergognoso è far passare che ho sconsigliato mammografie”, ha opportunamente chiarito Grillo, attaccando “la disinformazione”.

Ma intanto la bufera è scoppiata. E un ex parlamentare Idv malato di cancro e paziente di Veronesi, , ha reagito con queste testuali e provocatorie parole: “Auguro un tumore al signor Beppe Grillo”, perché così -ha spiegato – eviterebbe di dire certe cose. Più mammografie e meno parole per tutti.

f.guiglia@tiscali.it


Libia e migranti, le buone novità arrivate da Bruxelles

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Questo commento è stato pubblicato oggi su su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Se si guarda all’obiettivo dell’Italia, il bicchiere è mezzo vuoto: l’Europa ancora non vuole prendersi carico dei migranti da accogliere, suddividendoli Paese per Paese, i ventotto che compongono l’Unione dell’egoismo. Ma se si guarda alla partenza solitaria dell’Italia in questa battaglia di giustizia e di umanità, il bicchiere è mezzo pieno.

Per la prima volta il vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa a Bruxelles non solo non volta la testa dall’altra parte del Mediterraneo, come aveva colpevolmente fatto finora, ma dà il via libera a una missione navale di un anno guidata dall’Italia. E col suo centro operativo proprio a Roma per meglio individuare e fermare il crimine degli scafisti ed eliminare i loro barconi della morte.

L’Europa ha dunque deciso che il traffico degli esseri umani via mare non si potrà né si dovrà più fare. I soldi sono ancora insufficienti (neanche dodici milioni di euro) e le regole d’ingaggio tuttora da definire. Ma la prima mossa, che era la più difficile da ottenere – convincere Bruxelles che il fenomeno dell’immigrazione non è un capriccio italiano, ma un dovere europeo -, è fatta. E non frena il nuovo corso europeo neanche l’ingenerosa marcia indietro di alcuni Paesi come Francia e Spagna dopo il no della Gran Bretagna e il “ni” delle nazioni dell’Est sul principio delle quote di persone in arrivo da accogliere fra tutti.

Ora un piano c’è, approvato e condiviso. Adesso nessun governo europeo potrà più tirarsi fuori o lasciare alla sola Italia il compito di sbrigarsela da sé. Il comando assegnato all’ammiraglio italiano, Enrico Credendino, è un’ulteriore garanzia che si interverrà con cognizione di causa, essendo l’esperienza italiana la più consolidata nella generale indifferenza.

Il “nostro” comando, perciò, insieme con un impegno politico del governo italiano che d’ora in avanti dovrà essere, se possibile, raddoppiato, potrà contribuire a risolvere l’importante parte purtroppo irrisolta: come fare con le migliaia di persone che intanto e sempre continueranno ad attraversare il mare per non morire sulla terra, sulla loro terra. La prevenzione e la repressione di un fenomeno gestito dalla criminalità sono solo una faccia, quella turpe, della medaglia. Il suo drammatico rovescio sono i migranti in fuga dalle guerre, dalla fame, dalle malattie, dall’assoluta mancanza di futuro.

Se l’Europa affronta il primo aspetto, non può certo sottrarsi dal secondo, che ne è la conseguenza diretta e disperata. Ma in attesa che anche l’Onu faccia la sua parte, da oggi l’Italia non è più sola.

f.guiglia@tiscali.it  


Le due grandi vergogne sulla Grande Guerra

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Questo articolo è stato pubblicato oggi su L’Arena di Verona, il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

Per l’Italia oggi ricorrono i cent’anni dell’inizio della Grande Guerra 1915-‘18. Ma non sono cent’anni di solitudine. Grazie all’immane sacrificio di un’intera generazione, soprattutto giovani, che si immolò tra la fame, il freddo, le malattie della trincea per quasi quattro anni, gli italiani si liberarono per sempre dal dominio austriaco degli Asburgo.

Coronarono i sogni d’indipendenza rimasti incompiuti dopo il Risorgimento. Si affratellarono al momento drammatico del fronte. Per la prima volta nella storia tutti insieme, ragazzi del nord e del sud, figli dei potenti e figli del popolo, gente che a stento parlava l’italiano e irredentisti colti come Cesare Battisti, uno dei tanti eroi spesso dimenticati dall’indifferenza del nostro tempo.

In poche parole: erano i nostri nonni, perché ogni famiglia ha avuto qualcuno “partito per la guerra”. Ma oggi, 24 maggio ancor più “radioso” di quello di allora, perché maggio di pace per tutti in un’Europa finalmente riconciliatasi con se stessa, le istituzioni della Repubblica italiana ricordano ovunque quell’inizio che fu doloroso e al costo della stessa vita per seicentomila italiani (più un milione tra feriti e mutilati). Ricordano la libertà conquistata.

Un omaggio alla memoria che ogni Paese coinvolto nel conflitto ha saputo sottolineare con forza e con dolcezza. Portando fiori sulle tombe e sui monumenti dei Caduti, sventolando le bandiere in segno di riconoscenza, proclamando minuti di silenzio per non dimenticare. Ogni nazione ha avuto il suo lutto collettivo in quella orribile guerra. Ma ogni nazione sa che cos’è il tesoro della memoria: un civile e perpetuo atto di gratitudine per gli altri, per quelli che non ci sono più.

Anche il nostro governo e il Quirinale oggi sono impegnati in questo rito del ricordo, che è la radice del futuro. Eppure due “governatori” della Repubblica italiana, l’alto-atesino Arno Kompatscher e il trentino Ugo Rossi si sono rifiutati del gesto semplice e amorevole che il governo aveva loro richiesto: esporre la bandiera italiana negli edifici pubblici.

A Trento, proprio la patria di Cesare Battisti, la bandiera nazionale verrà issata a mezz’asta “per rispetto ai popoli dell’Euregio”, ha provato a spiegare il signor Rossi. Come se il Tricolore fosse un simbolo da evitare, da dimezzare, da esibire sì, ma non troppo. Come se il “rispetto” dovesse valere più per l’Austria allora sconfitta (e con la quale i rapporti di oggi sono eccellenti) che non per gli italiani che hanno dato la vita per l’Italia vittoriosa. Il rifiuto istituzionale della bandiera mortifica il futuro e non solo la memoria.

f.guiglia@tiscali.it


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